Silenzio, si va in scena
L’accorato lamento di un uomo prigioniero del silenzio che ha fatto del Teatro la sua vita e della regia il suo modo di interagire con essa
di Mario Pasquale
Nel lontano 2006, in un comune della provincia di Pisa, in una bellissima vallata il maestro Andrea Boccelli fece costruire un anfiteatro dove il palco viene montato una volta all’anno per le varie esibizioni, per poi essere smontato restituendolo alla natura trasformato in un lago, cosi come era il suo aspetto originario.
L’anfiteatro per questo motivo fu chiamato Il Teatro del Silenzio. Definizione quasi profetica: oggi tutti i teatri, o quasi, sono in quel silenzio in quella valle di lacrime che forma un lago intervallato ogni tanto da una speranza da uno spiraglio di luce, troppo debole per illuminare.
Mi viene in mente la piccola fiammiferaia dove la ragazzina per riscaldarsi dalla fame e dal freddo accendeva un fiammifero.
E attraverso quelle tenui fiammelle vedeva il passato, le cose belle, i momenti felici cosi viveva attimi di gioia spensieratezza per poi ritornare nel buio della realtà. Allora, presa dall’entusiasmo, accendeva subito un altro fiammifero e un altro, un altro ancora, finché finirono e con loro i sogni per entrare in un sonno sognante, più profondo e durevole.
Non è tanto a preoccuparmi un personaggio che esce di scena, senza nemmeno un applauso, ma la divulgazione della cultura che scompare con questa uscita.
Nelle ultime ore l’ennesimo soffio di vento ha spazzato via l’illusione perché minacciati da un’ennesima chiusura. La speranza di farcela a calcare le tavole del teatro per poter raccontare la vita, la storia, i fatti, le vicende, gli avvenimenti, gli episodi accaduti, le avventure, le fiabe, gli amori, le favole, le illusioni nel grande gioco di far credere di essere reale in una farsa teatrale, svanisce ancora una volta.
Spero comunque nel futuro, spero che ci sarà chi saprà raccontare i fatti di oggi dando loro l’amore di una novella, condendoli con il sale della ragione, mettendo quel pizzico di pepe con l’ironia annaffiata da un po’ di vino per l’allegria e accompagnata dal pane per la pazienza di saper aspettare.
Per il momento io sogno:
Suonno ca quanno viene
me piglie pe’e mane e me puorte
dove vulesse stà
Suonno che quanno viene nun busse
nun fai rumore
nun appicci‘a luce.
Suonno ca daje ‘na pausa
a tutt‘e turmiente
a tutt’e paure
Suonno ca quanne te cerco
Tu non ce staje
Suonno ca scumpare
E po’ accumpare
Suonne ca esiste
Ma io nun te veco
Famma ‘na grazia
Famme scetà d’o suonno.