Raffaele e Adelaide, due Statue unite
NAPOLI – Sarà il Teatro Sannazaro a ospitare venerdì 10 aprile alle 21 (repliche, dal venerdì alla domenica, fino al giorno 19), il debutto partenopeo di “Statue unite” di Eduardo Tartaglia, che oltre a firmare testo e regia è protagonista della commedia con Veronica Mazza, con la partecipazione di Giuseppe De Rosa.
Scene di Luigi Ferrigno e costumi di Mariarosaria Riccio.
Presentato da Ente Teatro Cronaca Vesuvioteatro in collaborazione con Festival Benevento Città Spettacolo, “Statue unite” racconta di Raffaele e Adelaide, due scapestrati artisti di strada che chiedono l’elemosina a via Toledo.
Si esibiscono come statue viventi, sperando di attirare l’attenzione dei passanti di ritorno da teatri, cene e uscite mondane, grazie alla particolare posizione di Adelaide che si trova sospesa nel vuoto, sopra la testa di Raffaele il quale sorregge, in maniera inspiegabile, il corpo della donna attraverso un’asta di legno.
Un “brevetto” – così denominato dal protagonista – che spera un giorno possa essere preso in considerazione, cambiando le sorti economiche della propria esistenza. L’obiettivo principale dei due artisti è destare curiosità e attenzione negli occhi del passante, che purtroppo è distratto da altro.
Ma la strada rimane deserta, pervasa da una tristezza disperata, affogata nel buio e nel silenzio, rotto solo dalla voce di un brigadiere, che tormenta i due artisti minacciandoli sistematicamente di multarli. Una rappresentazione sconsolata e desolante di una via Toledo, che ormai nulla ha a che vedere con la «gaia e popolosa» strada decantata da Stendhal, ma che per il pubblico (napoletano e non) è riconoscibilissima.
In questo spazio sospeso, l’autore colloca i dialoghi dei suoi personaggi, tra comicità e satira, dipingendo i protagonisti di una vita dignitosa e, per certi versi, estrema, tacitando la coscienza di chi non si arrende alla condizione ultima di “mendicante”.
L’atto unico di Tartaglia è una continua e sagace metafora, che, con ironia e leggerezza,evidenzia le ferite delle malattie endemiche napoletane: immobilismo, illusione, presunzione.
Nota dell’autore. Napoli, Via Toledo. Anno 2013. Quasi duecento anni sono passati, da quando il grande scrittore francese lasciava la nostra città con la morte nel cuore. Chissà, è lecito chiedersi, se oggi ancora Napoli apparirebbe ai suoi occhi e senza paragone alcuno la città più bella dell’universo”.
Qualche dubbio, in verità, lo nutriamo. Soprattutto, temiamo, stenterebbe a riconoscere proprio la storica centralissima via, da lui così tanto amata. E non vogliamo qui unirci al fin troppo facile coro di chi si lamenta del degrado, dell’incuria, del disordine da suk mediorientale a cui essa pare irrimediabilmente condannata.
Al contrario, ciò che a nostro avviso maggiormente contrasta con quella definizione del 1817, è proprio quell’aggettivo: “gaia”. Che così difficilmente, adesso, anche l’animo più ben disposto assocerebbe alla strada. Popolosa ancora, certo; ma priva, ahinoi, di quel sentimento di letizia che pure doveva evidentemente caratterizzare il suo glorioso passato. Piuttosto spiace, per meglio farci intendere, doverci appropriare di altre parole celebri.
Spese, in verità, per descrivere tutt’altro luogo in tutt’altro tempo. Ma che, invece, per curiosa coincidenza, meglio forniscono un ritratto di ciò che a noi, oggi, appare la moderna Via Toledo.
«Si può dire decisamente che Essa non rappresenta più per nessuno un fine, ma costituisce solo un mezzo. Piano piano si riempie di persone che hanno le loro occupazioni, le loro cure, i loro grattacapi, ma che a Lei non pensano affatto».Lo scriveva, nel 1835, Nikolaj V. Gogol, così tratteggiando la famosa Prospettiva Nevskij nei suoi racconti di Pietroburgo.
Ecco: una raffigurazione migliore di quel che a noi sembra nel 2013 la via Toledo a Napoli, non la sappiamo davvero trovare. Così, tra ambulanti venditori di ogni sorta di mercanzia contraffatta, giocolieri tristi, malinconici suonatori, improvvisati artisti di strada, quasi tutti provenienti da un altrove lontano e tutti vanamente alla ricerca di un’attenzione che stenta ad arrivare da parte di chi è preda solo dei propri affanni, facciamo finalmente il nostro incontro con Raffaele ed Adelaide.
Artisti? Maghi? Illusionisti? Mimi? Cialtroni? Chissà… Interpreti, forse, di un copione antico e modernissimo. Offrire, in assenza di altro, lo spettacolo di sé. Fare del proprio corpo un’esibizione. Dare della propria materialità una sorta di rappresentazione. Una modalità dignitosa e per certi versi estrema: per tacitare la coscienza di chi non vuole arrendersi alla condizione ultima e definitiva di “mendicante”.
Li troviamo, così, in decoroso silenzio, nella curiosa posizione di statue viventi, Statue unite, per la precisione.
Avvolti da ampi camicioni di un vistoso colore arancio; ricoperti da turbanti dal sapore vagamente orientale; con le gambe conserte nella tipica postura siddhàsana; catturano l’attenzione dei passanti (o questo almeno nei loro auspici) grazie ad un misterioso artificio, una magia, un prodigio nascosto. Che, quasi in spregio ad ogni legge fisica, consente ad Adelaide di galleggiare nel vuoto, proprio sopra la testa di Rafaele.
Sorretta, questo è evidente ma, non di meno, ugualmente inspiegabile all’apparenza, dal solo esile bastone che Rafaele mantiene saldo con la destra. Il trucco c’è, ma non si vede! Ed è questo che conta. Da sempre. Tutto farebbe pensare ad una coppia di artisti provenienti dall’Est del mondo: il colore alquanto scuro dell’incarnato (in Raffaele piuttosto naturale, in Adelaide frutto di un sapiente maquillage); la foggia dei costumi; il tappetino arabescato su cui siede Raffaele; il vaso in simil ceramica in cui vengono raccolte le offerte degli avventori; una nenia particolarmente ipnotica che proviene dal piccolo e malandato registratore (sapientemente “vintage”) …
Ed invece, al termine di un prolungatissimo silenzio, sin dalle prime battute scopriamo l’origine inequivocabilmente vesuviana dei due protagonisti. Che rompono la quiete della notte, di una Via Toledo desolatamente spettrale e deserta.
Eduardo Tartaglia