Nome e Cognome: Ponzio Pilato
A questa nuova versione della vicenda della gens romana cui apparteneva Quinto Ponzio Aquila sabato 7 settembre nella Sala della Ragione del Palazzo dei Capitani, nell’ambito del Premio Letterario Nazionale Città di Ascoli Piceno, è stata attribuita la Segnalazione Speciale della Giuria nella sezione racconti storici
di Lucio Sandon
Nel tempo in cui la città d’Ercolana fioriva in grandezza, era uno de’ luoghi di delizie della nobiltà romana. Nell’anno di Roma 640 e 110 anni prima della nascita di Cristo, Quinto Ponzio Aquila, ch’era de’ più nobili cittadini di Roma, edificò un podere ne’ Borghi d’Ercolana. Marco Tullio Cicerone, scrivendo al suo Pomponio Attico, chiama quel podere Neapolitanum Quintii, e comunemente veniva chiamato Villa Pontii. Poscia per corruttela li è rimasto il nome Villa Portici.
Così asserisce Benedetto Falco nel Trattato degli Amenissimi Luoghi di Napoli. Qualcun altro pensa invece che il luogo fosse chiamato Portici perché ivi era il porto della città d’Ercolano.
Nell’anno quarantaquattro dopo la nascita di Cristo, il pronipote di Quinto, Lucio Ponzio Aquila, congiurò insieme a Bruto e Cassio contro Giulio Cesare, trafiggendolo infine in senato alle idi di marzo con ventitré coltellate. Le cose però andarono male per loro: Ottaviano Augusto, Marco Antonio ed Emilio Lepido riuniti nel triumvirato si impadronirono dell’impero e perseguitarono i congiurati, confiscandone alla fine tutti i beni loro e delle loro famiglie.
In questo modo la villa di Portici dei Pontii restò in potere degli imperatori, assieme con Ercolano. Essendo poi tale città sepolta dall’eruzione del Vesuvio al tempo di Tito, settantanove anni dopo la nascita di Cristo, restò Portici un luogo aperto, e non atto ad esser difeso: cadde così in potere della repubblica napoletana, come più vicina, e venne poi sempre assoggettata ai padroni di Napoli.
Nel 1738, durante alcuni lavori di scavo per le fondazioni di un palazzo, venne rinvenuto uno strano reperto: dalle viscere della terra spuntò un capitello con una scultura raffigurante un’aquila dalle ali spalancate, che stringeva sotto gli artigli uno scudo scolpito con le lettere QPA.
Quinto Ponzio Aquila aveva la sua splendida villa sulla riva del mar Tirreno, edificata sulle pendici di una dolce collina ricoperta di alberi di melograno e con vista su Capri.
Le sue enormi proprietà confinavano sul lato rivolto a meridione con quelle dei Pisoni, che a loro volta si erano fatti costruire la residenza più grande e lussuosa di Ercolano, e dove il genero di Lucio Calpurnio Pisone, Giulio Cesare, veniva a consultare la più stupenda collezione privata di papiri mai vista nell’impero.
Lucio Ponzio Aquila come luogotenente di Decimo Bruto, dopo l’attentato a Cesare venne subito preso di mira dai nuovi padroni di Roma, che scatenarono il terrore con un’opera di epurazione radicale dei traditori assassini. Essa prevedeva l’esecuzione immediata dei sovvertitori e l’elaborazione di liste di proscrizione, volte ad eliminare definitivamente potenziali nemici e oppositori.
Lucio Ponzio Aquila venne così ucciso da un manipolo di sicari nel 43 a.C. nel corso della battaglia di Modena, dopodiché ristabilito l’ordine pubblico i componenti delle varie famiglie dei congiurati vennero in qualche modo dispersi presso le colonie romane.
I superstiti di quanto rimaneva della potente famiglia dei Pontii vennero inviati in un luogo sufficientemente lontano dalla capitale, per evitare che potessero riorganizzarsi e tornare all’antica opulenza e pericolosità. Essendo tale famiglia di origine sannita, gli uomini del Triumvirato li rispedirono vicino al loro luogo di origine, territorio che all’epoca era conosciuto con il nome di Palestina Piceni in quanto era stato già da tempo colonizzato da popolazioni mediorientali, provenienti da Canaan.
La presenza documentata della famiglia dei Pontii, insieme con l’antica popolazione di Canaan, fa pensare che le origini del giovane Ponzio Pilato possano quindi rintracciarsi nella Regio IV Sabina et Sannium, e che possa esser stato proprio questo ambiente a formare il futuro prefetto della Giudea.
Grazie alla conoscenza degli usi delle tradizioni ebraiche, Ponzio potrebbe avere appreso l’aramaico, e furono quasi certamente queste le ragioni che spinsero l’imperatore Tiberio a conferirgli la nomina come Procuratore della V Provincia della Giudea.
Una scelta ragionata quindi, dettata oltre che dallo spirito guerriero sannita della famiglia dei Pontii, dalla conoscenza di una lingua tanto complicata, nonché della cultura dei popoli mediorientali, apprese dal giovane Ponzio Pilato nel vivere in un luogo colonizzato da tempo immemorabile dagli ebrei.
Amiternum è un sito archeologico abbandonato, meraviglioso e semisconosciuto: lo si incontra percorrendo la strada statale 80, che dall’Aquila conduce verso Amatrice.
Alle Idi di marzo del 1580, faceva parte del regno di Napoli che era sotto il dominio spagnolo, e i soldati castigliani erano stati inviati dal loro re alla ricerca di un tesoro nascosto di cui da tempo aveva inteso favoleggiare. Quel giorno, il pesante risuonare ritmico dei picconi dei militari proveniente dalle rovine di Amiternum, riecheggiava tra le ancora innevate colline che contornano la valle del fiume Aterno. L’antichissima e nobile città sabina era già stata razziata di ogni cosa trasportabile, compresi gli imponenti leoni in marmo dei templi, ed era già sparito anche il famoso calendario amiternino.
All’improvviso, un tonfo sordo del ferro incuriosì uno dei tombaroli, che richiamò gli altri, invitandoli a scavare con maggiore lena: alla fine i loro sforzi vennero coronati: dal terreno di Amiternum gli spagnoli estrassero un pesantissimo scrigno.
Le urla di giubilo degli scavatori ruppero la quiete della valle: il singolare rinvenimento fece pensare subito al famoso tesoro di Amiterno, a monete d’oro sonante, a preziosi gioielli custoditi da secoli all’interno del forziere.
Con enormi sforzi il pesante sarcofago venne issato fuori dalla buca, poi come scatole cinesi, una volta rotto avidamente l’involucro in pietra, spuntarono fuori una prima cassetta in ferro, poi una seconda nuovamente di marmo. Purtroppo per loro però nell’ultima cassa gli scavatori trovarono solo un rotolo di pergamena, scritta in una lingua sconosciuta.
Nessuno dei presenti conosceva una parola né di ebraico e né tantomeno di aramaico, così venne mandato a chiamare il vescovo, noto teologo ed erudito conoscitore delle lingue mediorientali.
L’alto prelato, strappato con suo enorme fastidio da una ricca tavola imbandita, prese a srotolare con evidente disgusto e sussiego quel puzzolente rotolo di cartapecora, ma dopo pochi momenti il papiro gli cadde dalle mani. Era sbiancato in volto, e nei suoi occhi i soldati lessero uno sbigottimento immenso.
«Cosa c’è scritto, Vostra eminenza di così grave?»
Il vescovo, bianco come un cencio non rispose, ma chiese di venire portato immediatamente al cospetto del re di Spagna Filippo II. La cosa non era così semplice, all’epoca non esistevano né i voli di stato né quelli low cost, così il viaggio fino a Madrid durò quasi un mese, periodo durante il quale il prelato come mai gli era successo in vita sua, osservò digiuno e astinenza. Arrivato di fronte al re, il vescovo si inginocchiò e consegnò due rotoli: uno era l’originale, e il secondo la sua traduzione.
Lanno 17 de Tiberio Cesare Enperador romano et di tutto il mondo monarcha invittissimo et nelle olimpiade 121 et nelle Chiade 84 et nella Creiacione del Mondo sotto lo conzole pontefice Romano Lucio Pisone, sotto il riggimento et governo dela Cita de Jerosalem, governadore de giudeia Quinto Flavio presidente gratissimo, de Herode Antipatriarcha et pontefice del sacerdocio Hanna et Caifas et Alesmael, il venticinquesimo giorno del mese di marzo.
Io Ponzio Pilato presidente de Linpero Romano dentro al palazo de larchiresidenza, giudico condanno sentenzio a la mortte Jesu chiamato Christo Nazareno de la turba de patria Galilea homo sedicioso dela legge Mosaica Contra lo Magnio Imperador Tiberio Cesare, ditermeno et pronunzio per questo che la morte sua sia nella Croce con chiodi a hosanza di criminali et malfatori. per che qui congregatosi molti homini richi et poveri non ha cessato di conmovere tumulto per tutta la Galilea facendosi figliolo de iddio, Re de Israel con minaciar la roina di Jerusalem e del Saqro Inperio, con dinegare lo tributo a Cesare doversi, et averio ancora auto ardite de intrare con palme e triunfo e conpaquiato de la turba come Re dentro de la Cita de Jerosalem nel sacro tempio. Onde comando al mio Centurione Quinto Cornelio conduca publicamente por la Cita di Jerosalem esso Jesu Christo ligato e di porpora vestito e coronato di spine, flagellato e con la propia Croce ne li omeri, accio sia esenpio a tutti li mali fattori e con lui voglio siano condotti doi ladroni homicidi et uscirano de la porta Giacarola ora detta Antoniana, conduca seco Giesu al plubico monte di scelirati chiamato Calvario dove crucifisso e morto il corpo resti su la Croce come spettacolo di tutti i malvaggi et su la Croce sia posto il titolo in tre linguagi. Ebreo, Iehudim Melech nosrij Ieschua, greco Lisos Nazaraios o’Vasileston Iodaion, et latino iesus nazarenus rex iudeorum. Comandamo ancora che nesciuno de qual si voglia stato sosia ardischa temerariamente impedire tal giusticia per noi comandata administrata et esiguita con ogni rigore, secondo li decreti e legge del Romani come ebrei sotto pena de Rebelione a linpero Romano.
Nell’anno successivo, il 1581, venne pubblicato un manoscritto francese con la traduzione del verdetto rinvenuto, dal lunghissimo, ma chiarificatore titolo:
“Tesoro ammirevole della sentenza pronunciata da Ponzio Pilato contro Nostro Signore Gesù Cristo, rinvenuta miracolosamente scritta su pergamena in caratteri ebraici dentro un vaso di marmo, racchiuso in due o tre vasi di ferro e di pietra, nella città di Aquila nel Reame di Napoli, verso la fine dell’anno 1580. Tradotta dall’italiano al francese, sia per la pubblica utilità e l’esaltazione della nostra santa fede.”
Amiternum balzò così alla ribalta di tutte le cronache italiane ed europee. Su Ponzio Pilato, peraltro, vi era già una ricca tradizione: molti paesi rivendicavano o rigettavano allo stesso modo la nascita del console romano di Palestina. Gli si danno natali tra l’altro a Ponza per il cognome, o in Abruzzo, ma alla fine è praticamente certo fosse originario di Bisenti, in provincia di Teramo: l’antica Berethra. Berethra, viene dal greco baratron che vuol dire “valle stretta e profonda”.
A Bisenti è visitabile il luogo che la tradizione indica come la casa natale del prefetto, e dove sotto l‘impluvium, è ancora perfettamente conservato un Quanat, cioè un antico sistema di distribuzione idrico molto diffuso in medio oriente, ma sconosciuto nel resto del territorio italiano. È facile dedurne che Ponzio Pilato avendone appreso la tecnologia costruttiva in Giudea, una volta tornato in patria abbia pensato di costruire un sistema idrico del genere per captare le acque da una falda, incanalarle mediante una galleria sotterranea per alcuni chilometri, e prelevarla per le proprie esigenze personali.
All’epoca, anche la traduzione francese della sentenza di Pilato andò perduta: il manoscritto è stato ritrovato solo pochi anni fa, sotto un ammasso di carte dimenticate e corrose dai secoli, nei meandri dell’Hotel de Soubise. Fu in tale palazzo, nel cuore del quartiere del Marais parigino, che Napoleone Bonaparte decise di far conservare tutti i documenti che fin dal medioevo hanno costituito il patrimonio storico e culturale della Francia.
Sulla sacra Sindone, intorno al viso del Cristo, vi sono delle strane scritte a spirale che sembrano formare una decina di parole. Dapprima vennero interpretate da alcuni studiosi come caratteri greci, latini o aramaici, ma a quanto pare sono invece iscrizioni nell’antico linguaggio dei Piceni, un popolo italico di origine sannita, di cui si hanno tracce a partire dal 1500 a.C.
Gesù Nazareno sta in questo sepolcro, in quanto re dei Giudei
L’ipotesi che nell’antica Palestina, al tempo della crocifissione di Gesù, qualcuno parlasse il piceno, una lingua misteriosa e sconosciuta, non è affatto peregrina. Infatti alla corte di Ponzio Pilato vi era personale di origini sabine e picene, gente portata con lui dalla sua terra d’origine.
Nel 1738 Carlo III di Borbone, subito dopo aver conquistato agli austriaci il regno di Napoli, decise di costruirsi una villa al mare, e scelse una bassa collinetta a sud di Napoli, ricoperta di melograni, chiamata Granatello. La voce che correva all’epoca, era che l’illuminato sovrano si fosse innamorato di quei luoghi dopo essere riparato nel porticciolo naturale distante pochi passi da lì, allo scopo di sfuggire a una tempesta di mare, scoppiata improvvisamente durante una gita in barca nel golfo di Napoli.
Ospite insieme alla sua giovane consorte, Maria Amalia di Sassonia, nella casa che il duca D’Elboeuf e principe di Lorena si era fatto costruire sulla spiaggia poco distante, re Carlo che era nato a Madrid e vissuto a Parma, rimase affascinato da quel mare, e dal panorama che si godeva dalle boscose rive. Nondimeno sicuramente il giovane sovrano, abile e appassionato cacciatore, già si immaginava protagonista di indimenticabili battute nelle boscaglie che risalivano fino alla bocca del Vesuvio, ottimo terreno per l’agguato alle quaglie e ai fagiani che vi approdavano, stanchi dopo avere sorvolato il Mediterraneo.
Questa storiella però non ha mai convinto nessuno dei ben informati. La realtà è che il re aveva deciso di costruire la reggia di Portici proprio sui terreni di alcuni nobili tra cui Marino Caracciolo principe di Santobuono, il marchese Mascabruno e il D’Elboeuf, la cui villa era strapiena di antichi busti di marmo rubati chissà dove, perché aveva avuto notizia dai suoi servizi di informazione, che un nutrito gruppo di nobili locali aveva costituito una società segreta con il nome di Rosacroce, e tra essi in modo particolare il principe Raimondo di Sansevero aveva il progetto di sovvertire l’ordine costituito.
Per tale motivo, per affermare la sua preminenza regale sui suoi sudditi, espropriò le ville dei nobili più ricchi, e fece costruire la reggia di Portici. Appena iniziati gli scavi per le fondazioni del meraviglioso palazzo però, i genieri militari fecero due scoperte: la prima fu il capitello di Quinto Ponzio Aquila, che ora costituisce l’emblema del comune di Portici, e l’altro fu un cunicolo dal quale si accedeva a un’enorme villa sepolta sotto quaranta metri di lapillo vulcanico: la Villa dei Papiri della famiglia di Giulio Cesare, e l’avanguardia di quelli che sarebbero diventati gli scavi di Ercolano.
La scoperta della città sepolta di Pompei avvenne solo nel 1748, dieci anni più tardi, mentre del papiro di Amiternum invece si è perduta per sempre ogni traccia. La sacra Sindone è ancora lì: un mistero da interpretare.
Lo scrittore Lucio Sandon è nato a Padova nel 1956. Trasferitosi a Napoli da bambino, si è laureato in Medicina Veterinaria alla Federico II, aprendo poi una sua clinica per piccoli animali alle falde del Vesuvio. Appassionato di botanica, dipinge, produce olio d’oliva e vino, per uso famigliare. Il suo ultimo romanzo è “La Macchina Anatomica”, un thriller ambientato a Portici, vincitore di “Viaggio Libero” 2019. Ha già pubblicato il romanzo “Il Trentottesimo Elefante”; due raccolte di racconti con protagonisti cani e gatti: “Animal Garden” e “Vesuvio Felix”, e una raccolta di racconti comici: “Il Libro del Bestiario”. Il racconto “Cuore di figlio”, tratto dal romanzo “Cuore di ragno”, in prossima uscita, ha ottenuto il riconoscimento della Giuria intitolato a “Marcello Ilardi” al Premio Nazionale di Narrativa Velletri Libris 2019. Il romanzo “Cuore di ragno” è risultato vincitore ex-aequo al Premio Nazionale Letterario Città di Grosseto “Cuori sui generis” 2019. Sempre nel 2019 il racconto “Nome e Cognome: Ponzio Pilato” ha meritatola Segnalazione Speciale della Giuria nella sezione racconti storici al Premio Letterario Nazionale Città di Ascoli Piceno.
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