Cultura

Napoli e le sue tradizioni: i dolci di Natale

di Michele Di Iorio

Si avvicina il Natale e già si pensa a confezionare i dolci tradizionali, soprattutto quelli della pasticceria della propria regione.

In particolare a Napoli ci si può sbizzarrire a spaziare nel preparare dolci: è una città che da secoli vanta una grande varietà di specialità, nate con gli apporti delle diverse dominazioni che si sono succedute e nei tanti monasteri che si trovavano sul suo territorio e dintorni.

È perciò interessante fare un breve excursus sulla squisita pasticceria natalizia napoletana.

Il mostacciolo, deriva dal mosto o mostato romano nuziale ai tempi di Catone del 200 a.C. Per realizzarlo si impiega farina, grasso, cumino, miele, foglie di alloro tritate. Un dolce antico che viene ricordato dal cuoco romano Apicio nel 400 d. C. nel suo trattato De Coquinaria. Con un tocco personale Apicio aggiunse alla preparazione l’anice e dice che era molto diffuso nell’impero in occasione di feste nuziali e religiose. Saranno poi gli arabi a diffondere il mostacciolo in tutta Europa, finché nel ‘600 arrivò a Napoli e diventò pian pano la delizia che gustiamo ancora oggi, profumato, speziato in versione bianca con la glassa o nera con il cioccolato, imbottito o semplice.

E che dire del roccocò, il dolce monastico per eccellenza di Napoli? Venne “creato” nel 1320 tra le monache del Real Convento della Maddalena, vicino al ponte omonimo sulle sponde del fiume Sebeto. Con mandorle o senza, duro o morbido, il roccocò non può mancare sulle tavole imbandite per il Natale.

Tra i dolci quattrocenteschi sfornati dalle alacri suore del monastero di Donna Regina, vanno segnalati i susamielli e di raffiouli. Vennero elaborati rispettivamente dai monaci di Montevergine e dai monaci di San Raffaele di Amalfi, diventando famosi a Napoli tra il ‘400 e il ‘600.

Passiamo agli struffoli: anche se con nomi differenti e in diversi periodi dell’anno vengono preparati in altre città italiane. Di derivazione in parte greca e in parte spagnola, in Abruzzo gli struffoli vengono chiamati cicerchiata,e in Sicilia pinolata, ma gli struffoli veri e propri sono nati a Napoli nel 1200 nel monastero di Santa Chiara.

Arriviamo al babà, ‘o babbà, dolce popolarissimo non solo a Napoli ma in tutto il mondo. Nacque dall’idea del re polacco Stanislao Leszczyński, gran ghiottone, nel suo secondo esilio a Königsberg, Prussia. Non era soddisfatto dal dolce locale kugelhupf: per miglioralo lo inzuppò nel suo rum preferito. Dopo averlo assaggiato lo battezzò babà in omaggio alle favole di Ali Baba.

La nuova versione del dolce ebbe successo, specialmente alla corte francese. Con il matrimonio di Maria Amalia di Sassonia e Carlo Borbone re di Napoli e di Sicilia, nel 1738 , il babà prese piede alla Reggia napoletana e subito si diffuse tra nobili e popolo per la sua bontà.

La mitica sfogliatella,  merita un discorso a parte. La sua antenata fu la santarosa, che nacque nel ‘600 nell’amalfitano. In un monastero di suore tra Furore e Conca dei Marini pare che la consorella fornaia si dispiacesse a sprecare i ritagli dell’impasto di altri dolci, e insieme alla Madre superiora decidesse di venderli ai contadini, Qualcuno s’ingegnò a dar loro forma di cono ed infornali, qualcun altro li farcì con quello che aveva a disposizione e ben presto questo dolce “povero” si diffuse in costiera per poi arrivare a Torre del Greco, da dove in periodo murattiano arrivò a Napoli.

Giuseppe Pintauro di Napoli, fornaio, aveva lavorato da giovanissimo nella pasticceria Startuffo in piazza San Domenico Maggiore, facendosi le ossa. Nel 1785 aprì una osteria in via Toledo, angolo via Santa Brigida. Da tempo studiava di fare una sua variante della famosa santarosa e vi riuscì nel 1818.  Le varianti erano due: sfogliatella riccia – detta così dal tipo di pasta sfoglia usata per l’involucro – e la frolla,il cui ripieno – ricotta,semolino,cedro,zucchero e essenza di fiori d’arancio, – era racchiuso nella pastafrolla.

Pintauro trasformò l’osteria in pasticceria. Presto cominciò una gara con un altro pasticciere di via Toledo, Caflisch, per chi facesse la sfogliatella più buona. Pare l’allievo superò il maestro e vincesse Caflish, perché dalla proverbiale ironia dei napoletani nacque il detto: Se fruscia Pintauro, d”e sfugliatelle jute ‘acito, ovvero Pintauro si vanta delle sfogliatelle inacidite. Nato da una disavventura occorsa al pasticciere, il modo di dire si riferisce a chi si vanta anche quando le sue realizzazioni non hanno più il primato.

E da via Toledo la sfogliatella, assurta a simbolo di Napoli, più del babà, della pastiera e di tutte le altre specialità dolci della cucina partenopea messe insieme, si è diffusa in ogni pasticceria. Addirittura ve n’è qualcuna che è specializzata solo nello sfornare sfogliatelle.

Adesso vi starete chiedendo chi fa quelle più buone, vero? Non c’è risposta: la sfogliatella, come la pizza, è buona dovunque la consumiate!

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