Mistica e Filosofia nel pensiero di Sohravardῑ
Il sistema filosofico del pensatore orientale Shihab al-din Yahya Sohravardῑ
di fra Salvatore Robustelli
Il nostro studio ha l’obiettivo di rilevare i contenuti più significativi della filosofia persiana, attraverso i quali sarà possibile estrapolare le linee guida per contestualizzare il tessuto storico-sociale della Persia (odierna Iran), ponendo in esame le massime filosofiche del pensatore orientale Shihab al-din Yahya Sohravardῑ.
Tuttavia, la nostra ricerca verterà su due livelli: come primo aspetto la storicizzazione del climax filosofico che caratterizzava la Persia partendo dalle sue origini e in seconda analisi le influenze impresse a quel sistema filosofico dall’autore persiano.
La ricerca non ha dato tanto fruttuosi esiti da permetterci di approfondire più nel dettaglio l’argomento, a causa della mancata trasmissione delle opere dell’autore in occidente e non solo. Eccetto L’Angelo Purpureo, tradotto in italiano, molti altri suoi lavori non sono mai stati pubblicati da nessuna casa editrice. Restano quindi solo i manoscritti che la storia ci ha trasmesso.
Di conseguenza, l’indagine che intraprenderemo pone come suo prezioso fondamento la presente informazione attinta da Giuseppe Romanelli, nel suo studio intitolato Storia della filosofia antica. Orientale italica e ionica, edita nel 1874, attraverso cui comprendiamo che il codice religioso in uso nel circuito iraniano delle origini, (l’autore non specifica il periodo storico) era chiamato Zend Avesta, attribuito a Zoroastro, (da una ricerca supplementare riscontriamo che gli studiosi collocano il mistico e profeta antico tra il IX e l’VIII secolo a. C.), ultimo riformatore del Magismo (complesso di conoscenze e pratiche esoteriche e occulte).
Il testo dell’Avesta che testimonia l’orizzonte teologico persiano, mette in luce l’unità di Dio, ineffabile, padre della luce increata, potenza e virtù spirituale, la quale non può essere vista altrimenti che dall’intelletto e sentita che dal cuore. Nell’immediato si comprende razionalmente l’accostamento all’Uno (neoplatonico) e il concetto di creazione, che sono entrambi resi esprimibili mediante la rivalità di Ormus e di Arimane. Due entità divine che si combattono a vicenda, infatti come ciascun movimento gnostico rilevato dalla critica filosofica ha come sua caratteristica il dualismo espresso nella contesa tra il bene e il male, così Romanelli dice: … poiché l’Uno, cioè il principio del bene, è da sé ed eterno, l’altro, cioè il principio del male, è temporaneo e compariscono nel mondo. E un giorno, sconfitto da Ormus, egli e i dei suoi, essenzialmente malvagi, saranno annichilati, ovvero purificati da torrenti di fiamme, riappariranno sulla terra rinnovellata, quali sacerdoti dell’Eterno a celebrarne le lodi, consumarvi il sacrifizio e compiere il regno della sua santa legge.
Un richiamo alle antiche cosmogonie del mondo greco che tentano di dare una risposta alla domanda persistente dell’umanità: Come ha avuto origine il mondo?
Il nostro autore spiega più da vicino queste due entità mitologiche del circuito persiano delineando le loro caratteristiche asserendo: … come Ormus, che è la perfezione, il giusto, il puro, cioè il Buono e il Bello, creò tutte le cose buone e belle, sensibili e soprasensibili, ed una miriade di Ferveri o geni amici dell’uomo, che essendo angeliche personificazioni di tutto le virtù e di tutti i beni creati, cooperano al conseguimento dello scopo ultimo della creazione; tutt’all’opposto Arimane che è detto il Delitto e pieno di morte produsse innumerevoli invidie le quali personificate ancor esse, come i Ferveri, divengono cacodemoni o Dei, che propagano errori e miserie.
Si evince la netta separazione tra il mondo sovrasensibile, quale etereo, puro e perfetto; al quale è possibile giungere mediante un cammino di ascesi culminando nella la totale unione con l’Uno, e il mondo sensibile in cui domina la corruttibilità della materia e il decadimento dei valori morali per poi giungere alla totale perdita del proprio sé. Pertanto, Romanelli riporta veloci pennellate sul versante storico-filosofico ampiamente diffuso nel circuito persiano, puntualizzando il concetto di Unione con il Bene che permarrà nel pensiero iraniano anche nei secoli XII -XIII, in cui compare Sohravardῑ. Fu infatti, il primo rappresentante della filosofia Illuminazionista (ishrāqiyya) che nacque nel 1153 in un villaggio situato al nord della Persia.
Sohravardῑ entrò in contatto con la tradizione avicenniana, la filosofia neoplatonica e aristotelica e con i maestri sufi (la critica filosofica li ha ritenuti come guide e divulgatori di un pensiero fortemente esistenzialista diffusosi in Oriente nel periodo preislamico).
Fu anche maestro del figlio di Saladino in Siria, dove fu imprigionato per volontà del sovrano curdo a causa di un’erronea interpretazione delle sue opere. Morì di morte violenta ad Aleppo, forse soffocato, e meritò così dai suoi seguaci il titolo di martire.
Alcune notizie ci riportano che Sohravardῑ ebbe in visione Aristotele anche se il cammino della sua vita è avvolto dalla leggenda, infatti gli si attribuiscono anche poteri miracolosi.
Dai suoi scritti comprendiamo non solo la sua vicinanza alla filosofia greca ma soprattutto la critica che Sohravardῑ stesso attribuisce agli autori greci, ovvero di essere giunti ad una sola comprensione parziale e superficiale del sapere ermetico; per tanto egli decide di perpetuare l’eredità dell’antico zoroastrismo. Di conseguenza per sviluppare il suo sistema filosofico decise di mantenere l’eredità aristotelica attraverso cui gli sarebbe stato possibile compiere l’accurata distinzione tra la filosofia teoretica (che studia le entità immateriali e l’essere assoluto) e la filosofia pratica suddivisa in etica, domestica e politica.
In assenza di riferimenti diretti alle sue opere riportiamo il sunto del suo pensiero tratto dallo studio compiuto da Baffioni, reperibile in Filosofie nel tempo. Storia filosofica del pensiero occidentale e orientale: Per Sohravardῑ, l’Occidente è il mondo della materia, l’Oriente quello delle luci arcangeliche, e fra i due esiste uno stato intermedio conosciuto dai cieli e dalle sostanze separate. Egli recupera dunque la successione avicenniana delle intelligenze celesti, rileggendola però in termini di luce. Nella composizione di ogni entità entra la luce; tutto quanto non è pura luce è sostanza oscura, in grado però di accogliere la luce in maggiore o minore misura. I corpi, ricettivi sia della luce che della tenebra, si dicono istmi. Punto di partenza di tutto il processo, la Luce delle luci non può che essere una: se ce ne fosse una seconda, ci sarebbe una terza entità da cui entrambe dipenderebbero. Essa genera, per un processo di emanazione, la prima luce. […] in quanto la prima luce apprende la propria pienezza in relazione alla Luce delle luci, dà luogo alla seconda luce. Questa a sua volta genera una luce e un istmo (cioè una sfera celeste), e il processo continua ad arrivare al nono istmo o sfera, e al mondo degli elementi sotto di esso.
Rispetto al pensiero di Avicenna, Sohravardῑ introduce nel suo sistema un nuovo ordine chiamato latitudinale: … si tratta di luci reggenti, di archetipi celesti che muovono, ma non causano, le sfere. Esse costituiscono il mondo immaginale, livello ontologico intermedio fra mondo materiale e mondo superiore, garante della riascesa delle anime umane verso la loro prima matrice. Egli elabora … il carattere illuminativo della conoscenza, alla quale è possibile ascendere verso la Luce pura mediante il passaggio a tre diversi gradi rappresentati dai mistici che si fermano ad una conoscenza intuitiva, dai filosofi che pur perfezionando la conoscenza discorsiva restano estranei alla gnosi e in fine coloro che cercano la conoscenza ma non l’hanno ancora conseguita. Dai diversi livelli conoscitivi dipende il grado di felicità di ciascun individuo. Lo spirito santo conferisce all’embrione la luce umana, o anima. Ad essa corrispondono le facoltà passionale e appetitiva.
Il contatto con la materia aliena la luce terrestre (o spirito) dal mondo delle luci e le costringe a successive reincarnazioni.
Attraverso questa tripartizione dei soggetti che sono in cammino verso la Luce della conoscenza per poi giungere al massimo grado di unione con la Luce pura, si riscontrano vicinanze con il pensiero platonico.
Nel III capitolo della Repubblica infatti, Platone compie la tripartizione dello Stato in tre classi che corrispondono in perfetta sintonia con la sua tripartizione dell’anima individuale in tre elementi: l’elemento razionale; l’elemento concupiscibile, … che le fa provare amore, fame, sete e che ne eccita gli altri appetiti, irrazionale e appetitivo, compagno di soddisfazioni e piaceri materiali: l’elemento irascibile, l’istinto aggressivo, che talvolta contrasta i desideri.
Sohravardῑ ritiene che l’esercizio della sola ratio non favorisce la crescita intellettiva, di conseguenza non definisce i filosofi come nel sistema filosofico elaborato da Platone. Infatti, mentre il filosofo greco definisce i filosofi come coloro che sono chiamati a prendere su di sé le redini del governo dello Stato poiché dedicano tutta la loro vita alla ricerca della verità e al servizio di essa comunicandola al popolo, Sohravardῑ diversamente sostiene che i filosofi non giungono alla profondità della conoscenza poiché limitati dalla sola ragione, mettendo dunque, al punto più altro del cammino di perfezione da lui elaborato la figura dei mistici.
Espressamente si ringrazia fra André Marie Rahbar, frate minore conventuale iraniano, studente a Roma presso il Collegio Internazionale dell’Ordine Seraphicum, per avermi condotto alla conoscenza dell’affascinante pensiero di Sohravardῑ.
Articolo assai interessante, nel quale l’autore ha il merito di presentare, in forma rigorosa ma al tempo stesso comprensibile anche per il lettore sprovvisto di conoscenze specialistiche, la cultura filosofica persiana, mostrandone gli intrecci con la cultura filosofica greca (platonica, aristotelica, neoplatonica), ma anche le peculiarità e le specificità. Il dialogo, talvolta ostacolato ma mai veramente interrotto, tra Oriente e Occidente, può senz’altro fondarsi su queste basi culturali comuni, entro le quali ciascuno degli interlocutori può riconoscere la propria identità e fondare la propria diversità, che tuttavia non corrispondono in alcun modo ad una sorta di intangibilità e di incomunicabilità.