Culturain memoriam

Memorie – Volume secondo, parte quarta

Certo di fare cosa gradita, LoSpeakersCorner.eu pubblica a puntate il secondo volume delle memorie di guerra del preside Sante Grillo, che durante il secondo conflitto mondiale, nel 1943, era in Siclia, Sottotenente del 454° Nucleo Antiparacadutisti.

Dedico questa mia piccola fatica ai miei cari lettori. Pochissimi, per la verità, ma non per questo meno cari e a … coloro che sono oggetto del mio affetto anche se non non tutti, oggi, possono percepirne il calore in questa nostra dimensione terrena.

                                                                         Sante Grillo

Qua, qua, qua

Comunque andassero le cose nel campo esisteva in ogni modo un fuoco fatto di dignità che covava sotto cenere e la cui esistenza si avvertiva in manifestazioni che si esteriorizzavano in piccoli annunci che venivano scritti clandestinamente ed affissi poi altrettanto clandestinamente nella bacheca ufficiale del campo.

Gli americani si indignarono per questo, addirittura con maggiore virulenza, e cominciarono i primi tentativi per individuare i redattori del foglietto di fortuna.

Erano comunicati semplici e precisi che invitavano a non dimenticare la propria dignità e la serietà di chi sa soffrire senza mortificare la propria personalità. Erano suggerimenti che avrebbero dovuto essere accettati anche dagli americani perché, in ultima analisi, nel rispetto della dignità e della personalità era implicito il senso dell’ordine e della disciplina, ma per loro significava che esisteva qualcosa che sfuggiva al controllo e che pertanto andava soppresso per evitare una brutta figura.

In effetti la cosa fu veramente gradita alla maggioranza perché nelle poche e stilizzate parole si avvertiva il desiderio di conforto e di ripresa della propria immagine, ormai purtroppo quasi distrutta del tutto. Il foglietto volante era intitolato “Qua,Qua,Qua” ed aveva la sua giustificazione in un precedente che aveva del gustoso, fondamentalmente dell’ironico e dello scanzonato.

Lo steccato

Lo steccato aveva una sua configurazione alla maniera degli antichi Romani, solo che le tende erano molto piccole e gli spazi erano di gran lunga inferiori, anche se perfettamente sistemati secondo criteri geometrici. Le tende infatti erano disposte in filari secondo la lunghezza dello steccato e quindi risultavano perfettamente allineate con tutti gli altri filari. Per cui, se si voleva individuare una tenda bastava dire: fila x, tenda y cominciando a contare come punto di riferimento dall’entrata allo steccato stesso.

Come al solito però gli Italiani andavano sempre al di fuori delle regole: chi voleva trovare un amico alla tenda 40 della fila C o O o E che fosse, non si prendeva la briga di iniziare una conta che andava di per sé stessa contro il suo carattere e cominciava a chiamare a gran voce l’amico che magari in quel momento non stava proprio a sentire. In risposta si levava da tutte le tende un coro di voci che sembravano essersi messe d’accordo per rispondere all’unisono e quindi si levava nel cielo un ”Qua! Qua!Qua!”che confondeva oltre ogni dire chi per contro avrebbe desiderato ricevere solo la voce dell’amico. Da qui venne poi il titolo del giornaletto clandestino e di tutto ciò che assumeva via via un simbolismo antiamericano.

Così, come per Radio Latrina, cominciò il calvario degli interrogatori, delle minacce e delle promesse da parte del responsabile americano del campo. Quindi tornarono le estenuanti conte dei prigionieri messi in fila e lasciati in quelle condizioni per ore e ore sotto un sole a voler dire poco addirittura fulminante.

Nessuno parlò in quell’occasione, d’altra parte erano certamente pochi a saperlo ma moltissimi ad approvarlo. Per la prima volta ci fu uno spirito di omertà che ci restituiva fiducia e che in un certo senso ci dava più forza. Questo ci portò di conseguenza anche un maggior rispetto ed una maggiore considerazione e cominciammo a poco a poco ad avere la possibilità di giocare, di amministrarci da soli nell’ambito della disciplina e dei regolamenti interni. Non si seppe mai chi fosse il redattore di “Qua,Qua,Qua” ma gli furono tributate molte simpatie e moltissimi consensi.

Settembre, mese dell’armistizio

Da quel momento le cose cambiarono radicalmente e per il tempo che rimanemmo in quel campo ed io stesso recuperai moltissimo sia nel corpo che nello spirito. Cominciammo a mangiare un poco di più, avemmo la possibilità di trascorrere il nostro tempo nel gioco, soprattutto a palla a volo, nel quale mi ritenevo un esperto giocatore, e cominciai a partecipare a piccoli tornei che finalmente mi distraevano dalla realtà certamente ancora molto dura.

Ogni tanto si verificava qualcosa di inconsueto e certamente, in quella calma piatta, costituiva un buon motivo di discussione qualche volta anche vivace. Un giorno, considerando che non ci veniva cucinata mai la pasta, venimmo a sapere che gli americani non l’avevano mai fornita e che al suo posto vi erano ammonticchiati nel deposito delle cucine sacchi e sacchi di farina. Era un ben di Dio che minacciava di perdersi inutilmente a causa dell’ignavia di coloro che avrebbero dovuto lavorarla. I cucinieri si scusarono che erano troppo pochi per provvedere a lavorare la farina per convertirla in pasta e così un bel numero di volontari ufficiali, più numerosi di quanti ne occorressero, si offrirono volontari per quella nobile incombenza.

Lavorarono per più di quindici giorni ma non riuscirono a fare la quantità necessaria per offrirla in modo esauriente a tutta la comunità. Cominciò a circolare nel campo l’idea che, come era accaduto a Penelope tanti secoli prima con la tela, si consumassero gnocchi più di quanti se ne producesse e la cosa sembrava comprensibilissima a causa della fame arretrata che ciascun volontario aveva accumulata prima di mettersi al lavoro. Ma un bel giorno venne il fatidico annunzio: la domenica successiva avremmo mangiato oltre al resto anche gli gnocchi “ fatti in casa”.

L’aspettativa si tramutò in grande delusione quando ciascuno di noi, passando a prendere la propria razione, si accorse che gli gnocchi, nella gavetta, si potevano contare a vista. C’era da aspettarselo, ma non si poteva prevedere che alcuni di coloro che erano stati preposti alla sorveglianza della produzione uscissero dalle cucine con una gavetta perfettamente coperta ed altrettanto piena di gnocchi

Accadde un putiferio: coloro che si erano abbuffati per tanto tempo furono cambiati con un numero uguale di volontari. Pur essendo ancora molto giovane e quindi  non con la stessa esperienza di oggi, ebbi il buon senso di sorriderci sopra perché pensai subito che, se fossero rimasti i primi, ad un certo momento si sarebbero sentiti sazi, mentre coloro che erano subentrati non mancavano certo di buon appetito per non sentire la necessità di soddisfarla, ora che finalmente ne avevano avuto la buona occasione.

Una sera, a tarda ora accadde un fatto inatteso: si sentiva che i prigionieri presi da fortissimi dolori intestinali, corressero per quanto potevano verso le latrine per liberarsi dall’ingombro intestinale che premeva freneticamente verso il basso. Alcuni, purtroppo, non riuscivano neppure ad arrivare alle latrine per cui si liberavano dove e come potevano con un effluvio pestilenziale che si espandeva ingenerosamente verso le tende.

Che cosa era avvenuto: erano state distribuite delle scatolette di corned beef che certamente non erano perfette, come ci accorgemmo anche se con un certo ritardo. Io che avevo accettato dai miei compagni di tenda la loro razione senza chiedermi il perché della loro generosità e per soddisfare una fame arretratissima non ebbi neppure un dolorino di pancia.

Il ridicolo o il drammatico – a seconda da quale punto di vista si voglia guardare – fu che i poveri sventurati sembravano, nella corsa, dei veri canguri perché procedevano a balzelloni e con le brache in mano. Fu chiarissima la motivazione che determinò l’accaduto ma fu meno chiaro il fatto che io abbia attraversato indenne l’avventura, malgrado avessi ingollata una quantità di carne che altri non si sognarono neppure di odorare.

Altre cose accaddero, ma molto meno significative. L’ avvenimento più importante fu che, suddivisi per compagnia, partimmo dal 127° campo di concentramento.

La nostra compagnia con il numero 7109 fu subito smistata per una località non molto lontana dalla costa algerina e si iniziò subito il nostro servizio presso un campo base dove giungevano truppe dall’America e da dove dopo un brevissimo tempo di ambientamento venivano successivamente inviati sui vari fronti di guerra.

Ci fu assegnato come collegamento un graduato italo-americano che parlava benissimo la nostra lingua e che non venne mai meno al perfetto stile della comprensione e della gentilezza. Non so se gli altri gruppi furono altrettanto fortunati ma noi non potemmo mai lamentarci, anche perché la collaborazione si estese al campo sportivo, alla ricreazione in genere e con l’organizzazione di tornei si intensificarono le visite da un campo agli altri per diversi incontri di calcio o di palla a volo.

La nostra cara terra martoriata

Si era da poco aperto il fronte di Salerno con una importantissima testa di ponte in quel di Paestum, dove però gli americani trovarono subito una agguerritissima resistenza nelle truppe tedesche, che nel frattempo si erano schierate sui contrafforti naturali delle montagne che circondavano la pianura presso Salerno.

Noi conoscevamo tutte queste cose perché gli americani ci fornivamo il giornale Stars and Stripes, che noi, a nostra volta traducevamo per merito di un nostro ufficiale, che fungeva da interprete. Attraverso questo giornale noi da quel momento non perdemmo più una battuta sugli avvenimenti dei vari fronti di guerra.

Notavamo che nel campo delle truppe americane c’era un certo nervosismo per una ansia che noi già conoscevamo e che precedeva qualunque nuova intrapresa. C’era infatti nell’aria qualcosa di nuovo che tutti sentivano ma che nessuno conosceva.

Forse era per questo che i soldati si affollavano nei pressi delle nostre tende per farci delle domande che vertevano principalmente sul modo di combattere dei tedeschi, soprattutto sulle loro armi e principalmente sul loro heithy heiht cioè sul loro famosissimo “ottantotto”, cannone da ottantotto millimetri che si era dimostrato micidiale come arma anticarro, come contraerea e per ogni altro impiego a cui fosse stato chiamato per il suo uso migliore.

Noi italiani avevamo un cannone da novanta millimetri, che però nell’impiego non aveva trovato la stessa efficienza perché, per la verità, non aveva la stessa agilità sia nel movimento sia nella rapidità e nella efficacia.

Non potevamo certo spiegare loro che, per una strana coincidenza, gli americani sceglievano le zone più difficili. Vedi il caso di Paestum: è vero che avevano dinanzi a sé una pianura sulla quale poter dispiegare l’abbondanza dei propri mezzi ma è anche vero che davanti a loro c’era sempre un collo di bottiglia dal quale dovevano passare o per dove i tedeschi li costringevano a passare.

Per altro la testa di ponte conquistata con una certa facilità soprattutto con il supporto delle batterie navali che per questo risultavano micidiali, diventava ben presto un alveare di mezzi e di truppe sui quali i tedeschi non avevano grandi difficoltà per piazzare i loro colpi diabolici.

Come Dio volle i salernitani e poi i napoletani cominciarono a dare segni di insofferenza, specialmente a Napoli, dove la popolazione tutta insorse contro i tedeschi.

Non avendo più le spalle sicure, i teutonici pensarono fosse più utile cercare una nuova linea difensiva molto più a nord e lasciando finalmente libero tutto il meridione.

Cassino e le sue propaggini divennero la nuova roccaforte dei tedeschi e lì il collo di bottiglia divenne ancora più stretto. Per diversissimo tempo gli americani restarono attestati lungo le pendici del monte.

Noi, dalla prigionia, seguimmo con apprensione la decisione degli americani di superare l’ostacolo tentando di spianare la montagna, convinti, come erano che lo stesso convento di Cassino ospitasse chi sa quale numero di combattenti tedeschi.

Quando compresero che non ci sarebbero riusciti in alcun modo, si decisero a preparare una diversa testa di ponte che chiudesse Cassino in una grossa tenaglia, là dove neppure l’armata di Mongomery era riuscita a superare le propaggini del monte Conero risalendo tutta la costa adriatica.

Dopo mesi di preparazione, senza fare esperienza dallo sbarco di Salerno, gli americani si lanciarono nella impresa di Anzio, da dove si aprivano, sì, le porte per arrivare a Roma ma le trovarono chiuse da uno spiegamento impensabile di carri armati tedeschi.

La battaglia, lunghissima, e con esito sempre incerto, fu aspra, dura e sanguinosa. Alla fine prevalse il grandissimo dispiegamento di mezzi, enorme per una battaglia che avrebbe dovuto essere rapida e di semplice risoluzione. E invece finì soltanto quando i tedeschi decisero di arretrare la loro linea di difesa sugli Appennini tosco-emiliani.

Come gli americani, anche i tedeschi subirono gravissime perdite, che ormai non riuscivano più a rimpiazzare. Pertanto la prospettiva di ritirarsi divenne una necessità.

Noi, col cuore in mano, seguivamo le vicende non solo dalle informazioni che ci venivano date dal giornale americano ma soprattutto dalle apprensioni dei soldati  che dovevano raggiungere quelle zone di guerra.

Fra i nostri soldati c’erano rappresentate tutte le regioni d’Italia e ognuno temeva per la propria famiglia. Si immaginava che spesso si trovassero incagliate in mezzo alle grandi battaglie senza che potessero far nulla per evitare il peggio. Le paure crescevano anche per noi in parallelo con quelle dei soldati americani che dovevano raggiungere quelle zone.

Prima che si chiudesse la linea Gotica, come seppi al mio ritorno dalla prigionia, mio fratello, il più grande, ex capitano di artiglieria era sceso fino a Pesaro dove aveva trovato rifugio presso una cugina, nipote di mia madre, che era nata proprio in quelle zone e precisamente a Fano. Proprio a Fano nascosto in una buca trascorse tutto il tempo che impiegarono i tedeschi per ritirarsi da Anzio, grazie soprattutto all’aiuto di una famiglia contadina e da mia cugina che gli procurava tutti i rifornimenti possibili.

È quasi inutile chiarire quale fosse il nostro stato d’animo, mio e di tutti coloro che non sapevano assolutamente nulla delle loro famiglie. Vi era un toscano fra i miei soldati che era più apprensivo degli altri e mon mancava di stare vicino a me per comunicare questa sua apprensione. Faceva le funzioni di attendente a me e ad un altro collega e questo lo favoriva moltissimo per raccontarmi tutto ciò che poteva raccontare sulla sua famiglia, sulla sua composizione e su quello che temeva di più.

Era un contadino, di famiglia contadina, e ne conosceva a fondo le abitudini, le tradizioni per cui non finiva mai di parlarne. Trovava poi terreno fertile con me che avevo origini contadine e conservavo nel profondo del mio animo tutto ciò che può formare una coscienza perfettamente contadina. Per questo lo ascoltavo soprattutto quando mi parlava di allevamenti: delle galline che correvano per l’aia, dei maiali che crescevano nel porcile, della mucca che forniva loro il latte anche per la formazione di formaggi che servivano al loro consumo familiare.

In modo particolare mi affascinava il racconto che univa alle dimostrazioni di come si allevavano le api. A questo punto la mia attenzione diveniva contemplazione ed assorbivo ogni sua parola come se parlasse un oracolo. Non mi facevo sfuggire un particolare e quando non ero soddisfatto cominciavo con i perché questo e perché quello e lui aveva tanta pazienza per spiegarmeli tutti. Non credo però che fosse soltanto pazienza perché qundo ne parlava vedevo che gli brillavano gli occhi, forse non solo per la commozione. Riviveva con me quello che in quel momento non gli era dato di vivere a causa della prigionia. In quegli istanti tanto per lui quanto per me gli orizzonti si allargavano oltre i reticolati e correvano su sentieri che ognuno per conto proprio aveva percorso in tempi certamente migliori.

Poi venne la totale liberazione dell’Italia e i nostri reparti costituiti per la collaborazione furono chiamati ad altra destinazione. La nostra condizione di prigionieri, anche di fatto, ebbe finalmente termine.

Addestramento per la cooperazione

La nostra compagnia,  composta da un capitano, da due tenenti e tre sottotenenti  ebbe, come dicevo, un numero di riconoscimento che determinò anche una nostra personalità: pertanto diventammo la 7109 cooperators company. Ancora oggi questo “seventy one o nine” mi risuona sempre nella memoria e fino a qualche tempo fa ero riuscito a conservare un tesserino che certificava quella mia appartenenza.

Dalle divise scomparvero le scritte “P.W.” e sul braccio sinistro della giacca  comparve lo “stivale” stilizzato che indicava la nostra provenienza italiana. Ci furono consegnati una maschera antigas, un elmetto di acciaio ed uno di cartone pressato, quest’ultimo destinato a supportare quello pesantissimo, un fucile, una coperta imbottita, un cappotto, due coperte di lana color marrone chiaro, che ancora oggi conservo fra le reliquie della prigionia, due paia di pantaloni, un giubbotto, una giacca a vento ed altro che non ricordo più. In altri termini fummo equipaggiati come non ci saremmo mai aspettati.

Cominciammo anche l’istruzione di ordine chiuso, cosa che ci riportò ai tempi della naia dalla quale ci separavano ormai anni e anni di vita militare. Lo facemmo in buona allegria pertanto in maniera sopportabilissima, ma quello su cui si insisteva  moltissimo fu l’esercitazione della salita e della discesa attraverso grandi reti di corda per superare dislivelli notevoli. Era chiaro che queste esercitazioni riguardavano lo sbarco da grandi navi su qualunque altro tipo di imbarcazione più piccola.

Quello che ci veniva più difficile da comprendere era come mai ci avessero armati con fucile a ripetizione, anche se sprovvisto di munizionamento.

Nessuno ci diede peraltro delle spiegazioni e noi non potevamo che fare voli pindarici sull’impiego a cui ci avevano destinato gli americani. Che ci volessero impiegare in operazioni armate era assolutamente escluso: forse in operazioni di sorveglianza, e questa era la cosa più probabile. Non ci sorprese poi il fatto che insieme a noi anche se un poco più distante truppe americane si esercitavano alla stessa maniera. Comunque l’ipotesi più probabile restava quella di essere impegnati in uno sbarco. Dove e come a nessuno era dato di saperlo. però quella restò la probabilità maggiore che poi risultò quella vincente.

Intanto, lo stare insieme, il condividere le stesse fatiche, l’operare a più stretto contatto aveva fatto sì che sorgesse fra di noi, ufficiali, sottufficiali e soldati di truppa, una maggiore coesione ed una maggiore comprensione reciproca che era mancata assolutamente all’inizio della prigionia, soprattutto nei plotoni dove i gruppi risultavano più omogenei e più compatti.

Intanto avevo ricevuto una ventina di lettere dalla mia famiglia: erano tante, e tutte insieme. Era proprio quello che ci mancava di più, le notizie dei nostri cari, di cui ancora molti non sapevano assolutamente niente perché appartenevano a regioni che erano state liberate da poco. I miei stavano bene e mi comunicavano che mio fratello Franco rimpatriato dall’Albania molto prima dell’armistizio e godeva di ottima salute. Non avevano ancora notizie del più grande, mio fratello Cristofaro che come avevano saputo dalla famiglia, moglie e figli, rimasti a Palermo aveva oltrepassato lo stretto di Messina ed aveva raggiunto con il suo reparto il Nord dell’Italia. Dove, in quale regione? Era una domanda alla quale non sapevano rispondere per la complicazione dell’avvenuto armistizio che aveva diviso in due l’Italia. C’era certamente motivo di grande preoccupazione che in assoluta assenza di comunicazioni si ingrandiva a dismisura.

Ci fu un momento che fra di noi si diffuse la notizia che saremmo andati in Italia visto che ormai eravamo certissimi che non saremmo rimasti in alcun modo in Africa. È inutile dire che fu una notizia shock per tutti noi ma non venne conferma da nessuna parte e perciò rimase fine a se stessa.

In quel frangente quello che ci mancava di più era la ricezione della posta, servizio che gli americani usavano con una cura particolare ma soltanto per le loro truppe ed  in modo allora del tutto originale: facevano fotografie in partenza ed in arrivo per ridurre in pellicole fotografiche i sacchi e sacchi di posta che diversamente avrebbero dovuto trasportare con decine e decine di aerei. In questo modo velocizzavano anche il servizio, perchè non volevano che si perdesse mai il contatto fra i loro soldati e le loro famiglie.

(Fine quarta parte del II volume)

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