Memorie – Volume secondo
Certo di fare cosa gradita, LoSpeakersCorner.eu pubblica a puntate il secondo volume delle memorie di guerra del preside Sante Grillo, che durante il secondo conflitto mondiale, nel 1943, era in Siclia, Sottotenente del 454° Nucleo Antiparacadutisti.
Dedico questa mia piccola fatica ai miei cari lettori. Pochissimi, per la verità, ma non per questo meno cari e a … coloro che sono oggetto del mio affetto anche se non non tutti, oggi, possono percepirne il calore in questa nostra dimensione terrena.
Sante Grillo
Prologo
È un prologo particolare perché si riferisce ad una seconda parte che non ha soluzione di continuità con la prima, essendone la sincronizzata prosecuzione. Certamente cambia lo spirito, cambia la condizione giuridica del soggetto che è e rimane sempre la mia persona, anche se un poco più intimamente presa e per questo più intensamente provata, perché affonda le sue radici nel più profondo del mio animo.
Non voglio anticipare niente, ma volendo parlare della mia prigionia di guerra prima di iniziare indicherò, per coloro che volessero conoscerne la storia, tutte le tappe che come turista forzato mi hanno fatto percorrere dal momento in cui mi sono trovato nella prefettura di Ragusa insieme ad alcuni ufficiali del Distretto Militare del posto che subivano la stessa mia sorte.
Non vorrei indicare le tappe come per un giro d’Italia ma non vorrei neppure cominciare con il raccontare i particolari, che invece menzionerei nel prosieguo del racconto.
Dopo Ragusa, feci la prima sosta nei pressi di Ispica, poi una corsa al porto di Siracusa e successivamente allo stesso porto dopo una breve sosta sulle colline della città e dopo un disastroso viaggio Siracusa-Priolo- Siracusa.
Quindi l’imbarco su una piccola nave da trasporto e successivamente ad Enfideville nei pressi di Sfax in Tunisia. Poi, passando per Tunisi, una lunga corsa in treno fino a Costantina, in Algeria, e sosta forzata nei campi di concentramento di Ouled Rahmoun.
Qui ci siamo fermati per molto tempo e, dopo aver mutato le condizioni giuridiche da PW a Cooperators, siamo stati condotti prima sulla costa algerina in località di cui non ho mai saputo il nome e quindi dal porto di Algeri, da cui con la nave Liberty siamo giunti a Marsiglia con stazione al Lac du Berry. E quindi dopo alcuni mesi siamo partiti attraverso la valle del Rodano e con sosta brevissima in quel di Lione fino a Epinal nel dipartimento di Vosges, verso i confini con la Germania, nelle vicinanze di Strasburgo.
Una lunga sosta anche qui, e successivamente la strada del ritorno per Marsiglia su una “ nave-trappola” italiana. Attraversando le Bocche di Bonifacio giungemmo alla vista del Vesuvio alla cui ombra ebbe fine il mio stato di guerra.
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Ispica
Ci immisero in uno spiazzo circondato da filo spinato dove già altri prigionieri erano in sosta. Tutti ufficiali e nessun militare di truppa o sottufficiali. Non mi rendevo conto del fatto, ma qualcuno al quale avevo mostrato la mia perplessità mi spiegò che a mano a mano che gli uomini venivano catturati erano rilasciati quasi automaticamente dopo averne accertata la identità con un lasciapassare che definirei insolito: stampigliavano sul dorso o sul palmo della mano un bollo con inchiostro indelebile e li lasciavano in libertà.
Chiesi anche dove ci trovavamo perché non mi ero ancora reso conto del percorso fatto fino a quel momento né avevo visto luoghi che potessero costituire per me punti di riferimento.
Non cercai in nessun modo di fare conoscenza con qualche collega. Il mio stato d’animo continuava ad intorpidire i miei pensieri ed i miei sentimenti. Così come era accaduto che non avessi avvertito minimamente come e quando ero pervenuto ad Ispica, la mia assenza dalla realtà era quasi totale. Non sentivo neppure alcuna necessità, non cercavo di bere ed ancor meno di mangiare. Non ne sentivo la esigenza, come se quella esigenza non mi appartenesse. Nemmeno mi preoccupavo del corredo delle cose che portavo con me racchiuse nel mio zaino, di cui non avevo proprio contezza, visto e considerato che non sapevo neanche che cosa vi fosse racchiuso: dello zaino facevo uso solo perchè mi fungeva da sedile. In quelle condizioni di spirito non riuscivo neppure a pensare e quindi a valutare nella piena drammatica realtà la posizione nella quale disgraziatamente ero venuto a trovarmi.
Quando venne il tramonto lo spettacolo che da quella collina si presentò ai miei occhi mi diede una sensazione di struggimento e di dolore intenso che invase il mio essere. Compresi con una tremenda stretta al cuore che ormai per me era finita, che la voglia di andare avanti si allontanava dalla mia anima, che il mio pensiero non guardava più al futuro come un futuro vivibile, almeno per me.
Il grande cerchio del sole si inabissò nel mare sulla linea dell’orizzonte come penso che accada negli orizzonti africani. Quando non potei vedere più lontano dal mio naso cominciai a percepire delle stranissime cose, dei movimenti che non riuscivo a focalizzare ma che comunque avvenivano intorno a me. Piano piano, abituandomi all’oscurità cominciai a concretizzare le mie percezioni. Vedevo, ormai vedevo delle ombre che si muovevano verso un preciso punto del campo improvvisato.
Erano persone che correvano curve verso una determinata direzione e solo dopo qualche momento cominciai finalmente a capire che alcuni dovevano aver scoperto un varco attraverso cui poter scappare eludendo completamente la sorveglianza delle sentinelle, che come finalmente potei capire non erano poi molte.
Quelle immagini che si confondevano quasi del tutto col buio della notte erano prigionieri che fuggivano via e così avendoli osservati e finalmente percepiti mi svegliarono da quel semi-torpore che aveva dominato i miei sensi e la mia capacità di considerare tutto ciò che mi circondava e che mi era accaduto fino a quel momento. Cominciarono in me le considerazioni che la scoperta mi portava a valutare.
Certamente il fuggire dalla prigionia era un atto doveroso anche giuridicamente accettato dalle regole della guerra, ed io perché non fuggivo, perché non seguivo il loro esempio, perché seguendo la loro stessa direzione non mi curvavo su me stesso e via a tutta velocità verso un’avventura di cui non conoscevo la fine?
In effetti il fatto che non si sentissero sparare colpi di fucile faceva pensare che l’avventura che quelle ombre avevano intrapreso era andata a buon fine, almeno nelle immediate vicinanze di tempo oltre che di spazio.
«Ora fuggo anch’io …», cominciai a pensare e «… Dove vado,dove mi rifugio? Chi potrebbe ospitarmi fino a quando non avessi trovato opportunità diverse e plausibili? » E poi «Fuggi, idiota, fai come fanno quelli più coraggiosi di te, lanciati senza stare a tormentarti sul si o sul no!»
Forse era augurabile che quel precedente stato di ipnosi continuasse più a lungo e non mi facesse entrare in un altro stato di intenso malessere che caratterizza il dubbio e l’incertezza. Le ragioni del no alla fine prevalsero, immaginando che coloro che avevano deciso di fuggire avevano mete da raggiungere molto più vicine di quanto potessi averne io.
Comunque l’alternanza dei sentimenti mi portò alla totale prostrazione ed ebbi appena la percezione che al tutto si aggiungesse una grande percentuale di debolezza fisica dovuta alla mancanza assoluta di cibo. Fu così che perdendo ogni percezione mi allungai sul terreno e con la testa appoggiata allo smagrito zainetto mi addormentai.
L’ordine di adunata ci fu dato di buon mattino con un piglio, direi, bersaglieresco ed in pochi minuti ci fecero salire su un numero di camion che neppure allora riuscii a precisare. Mi ero rifatto un poco dalla stanchezza fisica ma non molto da quella psicologica: ero come in una specie di intontimento che non mi dava la possibilità di vedere bene la situazione e le condizioni in cui, non solo io, ci trovavamo.
Non ci volle molto per iniziare il nostro viaggio di avvicinamento a Siracusa ed in una giornata completamente tersa con un sole splendente, un cielo intensamente azzurro c’era tutta la disponibilità ad essere ottimisti. Per lunghi tratti ci fu dato di vedere il mare, il mare che divide, il mare che unisce. Un mare, purtroppo, che ci aveva portato in casa un nemico, non certo feroce, ma sempre un nemico.
Non c’era tanto da dialogare: le sentinelle dislocate al fondo dei carri non erano certamente tranquille ma, al contrario, molti di noi lo erano perché penso che avessero risolto tutti i loro dubbi e tutte le loro incertezze. Ormai per loro – o Dio, anche per noi – la guerra era finita con tutte le sue frustrazioni, le sue tribolazioni, i suoi terrori, i suoi dolori, le sue ferite anche se non si sarebbero rimarginate in breve tempo.
Ebbi modo, e mi servì anche da distrazione ristoratrice, di ammirare le bellezze delle zone attraversate che conservavano anche dopo il passaggio della guerra la loro infrangibile trasparenza. Ora più che mai apprezzavo la quasi verginità dei luoghi come bellezze incontaminate ed i paesaggi erano straordinariamente pittorici. Soltanto quando attraversavamo i centri abitati potevamo osservare che la guerra era passata da lì con particolare violenza.
Mi fu dato di notare come gli americani avessero trasformato alcuni nostri oliveti in campi di atterraggio per caccia ed aerei più piccoli e come ne partissero e ne arrivassero molti in rapida successione. Provai molta pena per i numerosissimi ulivi che erano stati estirpati senza pietà. Ma queste erano e sono le leggi della guerra.
Comunque, malgrado quelle dolorose constatazioni, il mio animo si era alquanto rinfrancato e cominciai a sentire i morsi della fame.
Eravamo intanto arrivati a Siracusa e precisamente nella zona portuale che secondo il mio parere era anche la meta dei camion che da lì avrebbero dovuto ripartire carichi di materiale utile per rifornire il fronte. Il porto di Siracusa offriva loro tutte le qualità necessarie ad ogni tipo di sbarco e di imbarco essendo anche un punto strategico per i rifornimenti di truppe e di materiale per i fronti aperti di Catania, di Ragusa ed oltre.
Siracusa e dintorni.
Il nostro soggiorno in quella città prima di essere trasferiti a Priolo era stato alquanto breve: ci eravamo giunti trasportati da camion militari dalla provincia di Ragusa, proprio in quel capoluogo di provincia dove io ero stato dislocato con un nucleo antiparacadutisti con compiti speciali ma con un armamento di cui era meglio non discutere in quel momento.
Avevo conosciuto in quel frangente due tenenti e due capitani che avevano prestato il loro servizio nel distretto militare di Ragusa: erano abbastanza anziani rispetto ai miei ventitré anni ma ricordo la loro simpatia, in nodo particolare di un capitano di origine napoletana che non aveva perso il suo smalto ed il suo ottimismo malgrado tutto ciò che ci circondava. Da loro conobbi un particolare che colmò in parte un vuoto di conoscenza che malgrado ogni sforzo non ero riuscito a riempire fino a quel momento: tutti gli ufficiali, i sottufficiali ed i soldati del Distretto erano stati mobilitati improvvisamente ed avviati su due camion a liberare e successivamente a presidiare il posto di blocco al quadrivio Ragusa-Marina di Ragusa e Scicli-Santa Croce Camerina. Quei signori non avevano mai sparato un colpo di fucile ma furono mandati ugualmente a liberare dai paracadutisti armati fino ai denti l’importante quadrivio. Arrivando sul posto non ebbero il tempo di scendere dai mezzi perché furono immediatamente falcidiati da violentissime raffiche di mitra.
Il racconto di cui non ebbi neppure il sospetto che potesse non rispondere a verità mi fece fare automaticamente una considerazione: come mai non ero stato mandato io con il mio reparto invece di essere impegnato soltanto a presidiare la strada che portava da Ragusa a Marina di Ragusa col compito preciso di evitare qualunque tipo di infiltrazione verso il capoluogo di provincia? Forse il diverso impegno mi salvò la vita ma non avrei potuto dire il contrario perché la prova del nove non era assolutamente possibile.
A Siracusa, con mio grande dispiacere, li avevo persi di vista e, limitati nei movimenti come eravamo, non avevo potuto neppure entare di rintracciarli.
La prima notte trascorsa in un improvvisato campo trincerato nel porto di Siracusa e con il riparo di un basso caseggiato che era forse servito agli stessi operai del porto, potrei definirla come la notte delle streghe. Una notte terribile che non riesco a ricordare nelle sue giuste sequenze, in considerazione del fatto che io stesso vissi – direi disgraziatamente – la coscienza delle mie sensazioni ed il controllo della mia stessa paura. Un pizzico di incoscienza in quella circostanza mi avrebbe certamente favorito e forse avrei potuto evitare quell’immenso sforzo per non uscire fuori dai binari della ragione.
Mi domando se in quel frangente sia stato un vigliacco o un coraggioso: il fatto di conservare quasi intatte le mie percezioni e vedessi intorno a me – per quello che era possibile vedere – e sentissi – per quello che era possibile sentire – quanto accadeva in quella specie di girone dantesco mi fa pensare che la mia non fosse del tutto vigliaccheria e che lo stesso terrore si avvalesse anche dell’impossibilità di reagire in qualche modo per contribuire al collasso delle forze non solo fisiche ma principalmente psicologiche.
Fuori c’era l’inferno: il bagliore non aveva alcuna soluzione di continuità, per cui potevo vedere dal mio punto di osservazione uomini, si fa per dire, e cose. Ero sistemato su una cucinetta in muratura mentre con le braccia mi tenevo strette le ginocchia in un tentativo di difesa come se avessi potuto riprendere la posizione del feto e ritrovarvi la stessa sicurezza del ventre materno. Intorno era un brulicare di corpi che si contorcevano nei tentativo di trovare al di sotto di altri corpi la salvezza della propria vita.
C’era chi invocava la mamma ed era proprio questo grido che mi tormentava maggiormente, perché era esattamente quello che avrei voluto urlare io con un grido che mi sarebbe uscito dalle viscere in un suono certamente inumano.
Fuori, come dicevo, era l’inferno: centinaia di cannoni, di mitragliere, di mitragliatrici più leggere, gli scoppi vicini, le vampate di luce che annullavano la notte, gli urli, le maledizioni e le preghiere si incrociavamo in un maledetto rincorrersi di boati assordanti al di là e al di sopra di ogni sopportabilità.
L’incursione aerea dei tedeschi aveva provocato una reazione infernale. Poi un immenso boato sconvolse tutto, anche il nostro pur labile pensiero ed io non fui più in grado di sentire e di vedere: era subentrata l’incoscienza e l’incapacità di fare un gesto, di emettere una parola. Penso che fossimo giunti sull’orlo dell’insania proprio nel momento in cui tutte le nostre, tutte le mie forze cercavano di aggregarsi per resistere e per vincere la paura.
Come Dio volle finì la tregenda e passò anche la notte. Fummo trasferiti sulle colline e rivedemmo i tedeschi prigionieri che davano saggio della loro disciplina: continuavano nel loro addestramento agli ordini di alcuni solerti sottufficiali. Noi … pur ufficiali … non riuscivamo neppure ad organizzarci per la divisione del cibo che intanto era stato distribuito.
La sera e successivamente la notte ebbi la prova che anche i tedeschi quando non erano osservati avevano paura: durante un ennesimo allarme aereo io mi ero rifugiato sotto il tronco contorto di un ulivo che la natura aveva fatto crescere in posizione obliqua. Non era molto ma mi avrebbe certamente salvato dagli spezzoni dell’antiaerea che si sentivano cadere intorno. Ebbene! Non ebbi l’opportunità di restarvi perché fui letteralmente buttato via da due militari tedeschi che evidentemente avevano più paura di me.
Da Siracusa a Priolo
Era sera quando arrivammo a Priolo in una radura i cui confini non erano facilmente definibili. Ci eravamo arrivati in una interminabile colonna di prigionieri italiani messi abbastanza male, sbrindellati, in massima parte, anzi tutti, ufficiali dell’esercito in assetto visibilmente malridotto. Non sapevamo perché ci eravamo venuti, i quindici chilometri da Siracusa ci avvicinavano al fronte di combattimento nella piana di Primosole nelle vicinanze di Catania da dove si sentiva rimbombare il cannone con feroce insistenza.
In genere i prigionieri venivano allontanati dal fronte incrociando i mezzi che invece affluivano verso la prima linea. Fummo rinchiusi in un riquadrato circondato da fitto filo spinato e con sentinelle niente affatto ben disposte. L’atmosfera era torbida, direi mefitica, forse perché ci trovavamo in una specie di acquitrino dai depositi in decomposizione e con una umidità, resa nebbiosa da una straordinaria densità che rendeva quasi invisibile il compagno vicino.
Ci avvolgemmo in coperte da campo per tentare di salvarci da quella specie di acqua sospesa nell’aria. Intorno un nugolo di zanzare inferocite in cerca degli angolini di pelle che inevitabilmente lasciavamo scoperti: se stringevi il pugno all’improvviso potevi ucciderne un grandissimo numero, ma non ne valeva la pena. La nostra mente era distratta: non ci rendevamo conto del perché di quel trasferimento dalle adiacenti colline di Siracusa, fra gli ulivi, dove eravamo stati convogliati con i tedeschi.
Un po’ di fatalismo ci aiutava a sopportare, ma quello che non riuscivamo a superare era l’incertezza, il dubbio sulla nostra sorte: perché ci avevano portati fin lì invece di allontanarci dal fronte?
La notte passò lentissima. Al rombo dei cannoni si accompagnavano vividi lampi di luce: direi che era l’unica a consentirci di vedere le nostre sagome accovacciate per terra in considerazione del fatto che non ci era possibile nessuna altra posizione. A volte il boato delle esplosioni sembrava più vicino e, per assurdo, un briciolo di speranza correva per tutto il nostro essere: non importava che si avvicinasse anche il pericolo. E se i nostri avessero ricacciato indietro i nemici? Tutto era possibile, ma soltanto nella nostra fantasia.
Alle prime luci sapemmo, che dovevamo muoverci ancora: per dove? Non era soltanto un dubbio amletico perché i tempi erano già diversi: non più “essere o non essere” ma “ci saremo o non ci saremo?”, con tutto quello che poteva comportare la diversità di direzione. Logica avrebbe voluto che, se eravamo appena venuti da lì, non si andasse più a Siracusa, ed invece fu proprio quella la direzione di strada che illogicamente imboccammo.
Lasciammo finalmente quella mefitica piana dove fortunatamente, eravamo rimasti una sola notte.
Ci mettemmo in movimento con i nostri fardelli quando ancora la luce del giorno non era piena, e cominciai a vedere quelli che forse erano stati vicini a me durante la memorabile notte. Ancora mi rimbombava nelle orecchie il tuono dei cannoni in continua ed interminabile sequenza, e sfavillavano ai miei occhi le luci vivide delle esplosioni che sagomavano la linea irregolare delle colline circostanti. Si può dire che io in quei momenti non avessi pensieri: erano talmente tanti che non riuscivo a fissarne uno soltanto. Si susseguivano con straordinaria velocità le immagini di mio padre, di mia madre, di mio fratello che vivevano in quella stessa mia terra: che cosa sarebbe accaduto di loro in quella bolgia infernale che si spostava di metro in metro e che inesorabilmente passava su tutto e su tutti come un rullo compressore! I miei amici dove erano?
Non avevo più nessuno vicino a me, vedevo solo visi sconosciuti e soprattutto stravolti dal dolore, dalla delusione, dalla sofferenza fisica e mentale. Non bevevo dal giorno precedente e non avevo borraccia: qualcuno ne aveva due a tracolla e qualche altro addirittura tre. Li invidiavo un poco e mi domandavo come mai fossero stati così previdenti: sicuramente non erano stati colti alla sprovvista come me che vivevo al momento senza prevedere quello che potesse succedere subito dopo.
Peraltro, confesso, non mi sarei mai sognato quella mia condizione di prigioniero. Se lo avessi fatto non mi sarei certamente fatto trovare con i calzettoni sfondati, con gli scarponi aperti lateralmente e che si erano spaccati del tutto in quei pochissimi giorni di trambusto e di marce forzate. Ad un certo momento, quando avevo creduto di averne la possibilità, mi ero tolto gli scarponi ed avevo immerso i piedi in una vicina pozzanghera. Là per là avevo trovato refrigerio ma successivamente le bolle mi si erano spaccate e non riuscivo a poggiare i piedi per terra. Non so più se sia stata la volontà o la sopravvenuta insensibilità a non farmi più sentire il dolore e perciò ripresi il cammino, anche se avvertivo una certa dolenzia alle gambe: il giorno prima avevamo fatto, come Dio aveva voluto, quindici chilometri ed ora ci accingevamo a farne altrettanti, sempre che la meta fosse Siracusa.
Ritorno a Siracusa.
Uscimmo sulla strada con direzione Siracusa, venendo fuori da quella pozzanghera mefitica che potrei definire esattamente come una bolgia dantesca. Certamente non sapevamo che cosa ci avrebbe serbato il futuro, però il venir fuori ci sembrò un buon segno e sicuramente non immaginavamo quello che sarebbe avvenuto da lì a qualche momento. La colonna fu subito presa in consegna da militari indiani che senza perdere molto tempo cominciarono ad infastidire la retroguardia della colonna.
Io, intanto avevo avuto l’opportunità di rivedere il capitano discretamente anziano del Distretto militare di Ragusa e fui felice di incontrarlo, ma un po’ meno nel constatarne le condizioni fisiche. Era molto abbattuto forse più nello spirito che nel fisico, comunque non era più disponibile alla battuta ed alla barzelletta dei primissimi momenti in cui ci eravamo conosciuti. Probabilmente era finito l’effetto che lo teneva elettrizzato per essere uscito indenne dal fatto d’arme di Marina di Ragusa. Lo lasciai in compagnia di un collega che mostrava di essere solidale con le sue condizioni e cominciai a guardarmi intorno con lo spirito critico di sempre.
Notai più cose che mi dettero un certo fastidio. Un ufficiale della sussistenza che portava con sé due sacchi di materiale e cercava implorando che qualcuno lo aiutasse a portare almeno uno dei due suoi sacchi promettendo un compenso in sigarette che certamente arricchivano il corredo del suo carico. Lo guardai con una certa commiserazione così come gli altri facevano guardandolo quasi con sdegno e rifiutando la sua offerta con sorrisi di scherno.
Intanto dal centro della colonna cominciai a vedere la coda della stessa e, poiché non mi rendevo conto del come e del perché ciò fosse accaduto, osservai meglio e mi accorsi che le sentinelle che ci accompagnavano usavano il calcio del fucile per spingere i ritardatari a muoversi con maggiore sollecitudine. Accadeva così come per un gregge il cui pastore volesse spingere più velocemente le sue pecore lanciando contro le ultime il cane pastore che ringhiando ed abbaiando faceva correre a posizionarsi davanti a quelle che poco prima erano state in coda. Mi sentii profondamente umiliato e mortificato osservando lo stesso movimento delle pecore dei miei colleghi che per timore di essere colpiti dal calcio dei fucili se ne sottraevano correndo in avanti.
Fu così che rimasi ultimo. Che cosa avrei dovuto fare, come avrei potuto comportarmi per non subire la stessa umiliazione per me terrificante. C’era un rimedio ? E se c’era, qual era? In nessun caso avrei subito la mortificazione di essere spinto in avanti con il calcio del fucile. Tutti i miei nervi erano tesi fino allo spasimo, pensai alla morte che in quel momento aveva perso persino di significato, ebbi la percezione di essere arrivato al capolinea. E così, senza pensare a niente ed a nessuno, sentendo arrivare un soldato indiano arrivare da presso, lo guardai negli occhi. Anche lui mi guardò, a lungo, forse interrogandosi su ciò che sarebbe stato necessario fare in quella contingenza. Non mi toccò e non mi dette il tanto temuto colpo, passò oltre a sollecitare quelli che stavano davanti a me. Non nascondo di aver tratto un grosso sospiro di sollievo. Se fossi riuscito a mantenerlo lontano da me avrei vinto.
Fu quello il momento in cui mi accorsi che il capitano di mia conoscenza camminava a stento sostenuto da un collega che non conoscevo. Mi avvicinai per saperne qualcosa di più ed ebbi il tragico invito del mio collega di sostituirlo nell’aiuto al capitano perché egli stesso non ce la faceva più. Non ci pensai due volte, porsi al collega il mio zainetto e mi sostituii a lui nel sorreggere il capitano, che mi riconobbe e mi rivolse uno sguardo di ringraziamento. Mi disposi nel miglior modo possibile sostenendolo con il braccio destro alla vita e portando il suo braccio sinistro sulla mia spalla sinistra ripresi a camminare in avanti con qualche disagio perché non era facile tenere dritta una persona ed indurla a camminare quando la stessa si rifiutava di farlo, non certo per negligenza ma perché non aveva più forza nelle gambe. In ogni modo con un grande sforzo di volontà riuscì a fare dei passi chinando un po’ il busto in avanti e tirando oltre il necessario le ginocchia in alto alternativamente.
Compresi da questo ultimo movimento quasi innaturale che ce la stava mettendo tutta in fatto di volontà ma fisicamente era ormai allo stremo. La cosa non mi rassicurò anche perché nel frangente avevo perso il contatto con la colonna e non mi riusciva più di raggiungerla.
All’improvviso mi ritrovai il mio indiano vicino a me che cercava di mantenere il mio passo e la mia velocità. Dopo una cinquantina di metri cominciai a capire che il peso del capitano cominciava ad essere insostenibile e che le mie forze non erano più integre. Cominciai a disperarmi e non sapevo più a quale santo rivolgermi per chiedergli aiuto. Non vedevo più perché il sudore che scendeva dalla fronte non veniva più diviso verso le gote dalle sopracciglia e mi entrava a rivoli negli occhi. Con un sforzo indicibile ed evitando che il capitano mi scivolasse per terra arrivai e prender il mio fazzoletto e con la mano sinistra cercavo di detergere la fronte. Qualche volta ci riuscivo, qualche volta no. Era quello i momento della mia maggiore sofferenza, temendo che se avessi ceduto e lo avessi lasciato per terra avrebbe potuto essere ucciso.
E intanto la distanza fra me e gli ultimi della colonna si era allungata e sarebbe stato impossibile coprirla. Tra l’altro, allungandosi sempre di più, mi rendeva assolutamente impossibile chiedere a qualcuno dei colleghi di sostituirmi. Mi sentii perso pur continuando nei miei tentativi di asciugarmi gli occhi e vidi il mio indiano più segaligno che mai avvicinarsi ancora. Che cosa poteva volere da me? Non avevo neppure la forza di alzare lo sguardo e fissare il suo viso come avevo fatto precedentemente.
Credo che qui si sia compiuto il miracolo: afferrò il mio fazzoletto e cominciò a detergere la mia fronte liberandomi dalla mia quasi completa cecità. Mi aiutò ad afferrare meglio il capitano che ormai riusciva solo a trascinare i piedi abbandonandosi interamente sul mio corpo. Tentai un’ultima carta facendo capire al “mio indiano” che avevo bisogno di acqua da bere. La sua risposta non si fece attendere molto, corse avanti prese a volo la borraccia di un prigioniero e cercò di versarmene il contenuto fra le labbra ormai screpolate.
Non fui molto fortunato perché soltanto poche gocce caddero fra le mie labbra, ma lo guardai ugualmente con riconoscenza, sperando che capisse che lo stavo ringraziando. Buttò via la borraccia ma non si arrese, corse, questa volta verso il ciglio della strada, ed afferrò un grappolo d’uva che un contadino stava offrendo ai prigionieri. Mi offrì, acino per acino tutto il grappolo di uva e non si allontanò più da me. Mi seguì per tutto il mio percorso anche quando la colonna di prigionieri tedeschi che ci seguiva ci fagocitò intruppandoci fra le sue fila. Avevano una marcia ben diversa dalla nostra, intendo dire da quella di noi tre, io il capitano e il mio indiano.
Forse i tedeschi non sapevano che io potessi comprenderli perfettamente e perciò si divertivano ad insultare gli Italiani con gli epiteti più strani e più infamanti. Io pur avendone il desiderio non pensai proprio di rispondere. Avevo ben altra gatta da pelare e non era certo il caso di iniziare una polemica che poteva finire in modo ben diverso da quello che in quel momento poteva essere desiderabile.
Come Dio volle, arrivammo sulla banchina del porto di Siracusa che si apriva alla mia vista. Il porto implicava diverse riflessioni e nessuna a nostro vantaggio. Comunque rividi i miei compagni affollati nei pressi di una piccola nave che poi mi risultò essere greca. Gli stessi marinai si adoperavano ad offrire ai nostri dell’acqua che sgorgava da un grosso tubo di gomma. Finalmente qualcuno di loro mi scorse mentre stavo per arrivare e mi venne incontro per prendere in consegna il capitano completamente stremato. Era il collega a cui avevo dato il cambio che mi restituì lo zaino che gli avevo dato in consegna. Avvertii un senso di ristoro e persino la mia grande stanchezza sembrò diminuire, mi restava soltanto una grande sete che cercai di soddisfare avvicinandomi alla imbarcazione greca.
Non dimenticai il mio indiano, che si era fermato quando erano venuti ad aiutarmi ed a prendere in consegna il capitano, mi voltai e lo vidi fermo a gambe larghe come se aspettasse per vedermi giungere a buon fine e non volli deluderlo perché dopo qualche attimo di esitazione alzai il braccio e lo mossi in segno di saluto e di ringraziamento. Mi rispose con uguale gesto poi si volse e sparì allontanandosi lentamente. Era stato straordinario e mi sembrò ingeneroso l’averlo giudicato un po’ ridicolo in quel suo incedere dinoccolato in quella sua statura sproporzionata resa ancor più evidente dalla lunghissima baionetta che sbucava da un fucile troppo lungo ed infine da un elmetto che sembrava un piatto rovesciato sul capo risultando troppo piccolo in proporzione a tutta la sua conformazione fisica. Forse se fosse stato più vicino e mi avessero liberato prima del mio gravoso fardello lo avrei abbracciato. Si, era un nemico, ma io lo avrei abbracciato lo stesso. Maledetta guerra!
Imbarco con destinazione ignota.
Ci imbarcarono a Siracusa su una piccola nave da trasporto truppe abbastanza velocemente e io fui uno dei primi a scendere sottocoperta, per cui non mi fu dato di vedere chi fossero i trasportati e se ci fossero persone di mia conoscenza. Ci divisero in diversi scomparti sorvegliati ciascuno da doppie sentinelle. Insomma furono così istituite delle divisioni che non ci consentirono in maniera più generalizzata di vederci, sentirci e scambiare in maniera più ampia le nostre impressioni.
Fra i miei compagni di scomparto non riconobbi alcun conoscente, cosa che mi fece sentire ancora più isolato, però, come spesso accade in determinate circostanze, non passa molto tempo per iniziare anche ex novo conoscenze che consentano almeno lo scambio di vedute, di considerazioni e presumibilmente di previsioni.
C’era nella molteplicità delle considerazioni una che aveva il crisma dell’inappellabilità e cioè che stavamo allontanandoci dall’Italia. Era una realtà dura e crudele per chi sentiva il dolore del distacco e soprattutto l’assoluta impossibilità di evitarla. Era un fatto da cui in nessun modo potevi allontanarti, dovevi necessariamente subire, si, subire e subire. Era questa una condizione derivante dal tuo nuovo stato di prigioniero di guerra, che non era, intendiamoci una volta per tutte, una condizione fisica , ma eminentemente psicologica alla quale non era possibile, almeno per il momento, aderirvi senza alcuna sofferenza, io penso, come per il nascituro che viene espulso dalla placenta ed è violentato dalla terribile realtà della vita.
Nel mio caso non mi era neppure possibile tradurre il mio profondo dolore in un grido fatto di pianto e di delusione perché non avrei saputo, mai e poi mai, accettare il mio nuovo stato giuridico e morale. Non ho mai saputo se i miei compagni di sventura provassero quello che io provavo in quella precisa, determinata circostanza.
Sentivo che mi assillava una grande sete, sete che non avevo saputo e potuto soddisfare durante la marcia da Priolo a Siracusa e che neppure l’acqua dei marinai greci aveva potuto neutralizzare. L’acqua a disposizione e di cui potevi usufruire quasi senza limiti sgorgava dai rubinetti della nave ed era eccessivamente calda. Ma la temperatura non poté impedirmi di farne uno straordinario rifornimento che mi procurò perfino un rigonfiamento dell’addome come per un tamburo troppo teso. Solo così potei ritenermi soddisfatto, ma da allora non mi poté più abbandonare la paura della mancanza d’acqua. Ancor oggi non c’è cosa che mi preoccupi di più.
Il tremolio della nave sotto i piedi ci informò che stavamo salpando, abbandonando definitivamente la terra italica per un destino impossibile da capire, almeno in quel momento. Guardando gli altri potevo sapere quale fosse l’espressione del mio viso, quello che nessuno diceva non era impenetrabile e ci accomunava un dolore indicibile, che non ci permetteva neppure di parlare.
Soltanto dopo molto tempo – e non sapevamo se ancora fosse giorno o se fosse sopravvenuta la notte – qualcuno di noi si espresse con un quasi lamentoso «Dove andiamo?»
Nessun punto di riferimento, nessuna parola carpita a volo, ci permetteva di trarre un segno che ci consentisse un nome, una meta qualunque. C’era la certezza tratta dalla considerazione che, imbarcati su una piccola nave, il viaggio fosse relativamente breve. Per questo prevalse l’opinione che fossimo destinati in terra d’Africa, ma in quale sua parte: la Libia, l’Egitto, la Tunisia, l’Algeria o il Marocco?
Le luci, ad un certo momento, diventarono bleu: forse era il segno che bisognava pensare a dormire ed infatti ciascuno di noi vi si adeguò prendendo la posizione più adatta per addormentarsi.
Io non riuscivo ad adattarmi alla nuova esigenza ed il pavimento in ferro, anche se non freddo, mi aiutava pochissimo e smaniavo girandomi ora di qua ora di là. Era il momento dei pensieri, non quelli teleguidati ma quelli che da soli si imponevano, forse perché moltissimi erano i dubbi e le incertezze che sostenevano le mie riflessioni. Ora, certamente non le ricordo tutte, ma qualcuna si affermò sulle altre.
C’erano cose che non ero riuscito a spiegare del tutto e che avevano bisogno di una rettifica alla luce di alcune brevissime notizie che nel frattempo avevo acquisito dalle parole e dalle discussioni che si facevano fra di noi. Mi tornava a mente e non soltanto in quella occasione la vicenda dei militari inviati allo sbaraglio per liberare il quadrivio di Santa Croce Camerina con la strada di valore strategico di Ragusa-Marina di Ragusa. Il quadrivio era stato occupato da paracadutisti alleati e i militari raccattati dal Distratto militare di Ragusa vi erano stati spediti con il disegno velleitario di liberarlo. Infatti, lo dico con molto dolore, appena giunti sul posto la massima parte di loro fu annientata ed il resto fatto prigioniero, molti furono anche i feriti.
Come mai non vi era stato inviato il mio Nucleo antiparacadutisti? E come mai, attestato sulla strada per Marina di Ragusa non avevo notato alcun passaggio di truppe, né da una direzione né dall’altr? Erano interrogativi che mi assillavano: finalmente dopo varie rigirate sul fianco destro e sul fianco sinistro trovai la soluzione del rebus.
Soluzione che non trovava riscontro ma che sembrava, almeno a me, plausibile e verosimile: pensai che la notizia dell’avvenuta occupazione alleata del quadrivio non fosse giunta al comando se non dopo che il mio Nucleo era stato spedito verso la stazione ferroviaria di Genise e che per questo, non avendo altre truppe da inviare vi furono spediti i poveri distrettuali. Mi pare di aver raccontato che Ragusa era stata completamente evacuata già mesi prima da ogni tipo di militari e che ero rimasto soltanto io con il mio reparto composto da trenta uomini a presidiare un grosso centro di smistamento tanto importante da poter fare affluire sulla spiaggia reparti di qualunque genere in caso di necessità.
Oggi posso assicurare che nessun militare passò per andare a dare man forte ai poveri reparti che erano stati intrappolati dal fortissimo bombardamento navale sul così detto “bagnasciuga” e con alle spalle foltissimi gruppi di paracadutisti lanciati nelle immediate retrovie.
Questi pensieri invece che conciliarmi il sonno accrescevano un nervosismo che mi faceva spalancare gli occhi in quel poco di luce blu che non riusciva neppure a farci distinguere fra di noi. Poi, senza neppure averne la percezione mi addormentai. Credo che accada così tutte le volte che si raggiunga il massimo della stanchezza unita il massimo del nervosismo: non ne conosci i confini ma stai là, vicino alla incapacità di intendere e cadi nell’incoscienza.
Non era stato un sonno riparatore e mi svegliai all’improvviso in pieno stato di confusione perché non capivo neppure dove fossi e perché. Ben presto la stessa realtà mi venne incontro in tutta la sua drammaticità. I miei compagni si erano svegliati prima di me ed avevano già superato lo stato di incoerenza nel quale io ancora mi trovavo. Non ci volle molto però per riprendermi del tutto e così feci quello che molti altri prima di me avevano fatto: si erano dati una pulita, una lavata insomma una buona rinfrescata che tuttavia non li aveva tolti dalla sensazione negativa in cui ci eravamo trovati la sera prima.
Non indossai la giacca perché faceva molto caldo ma nel calzare le scarpe ebbi modo di constatarne la quasi impossibilità di essermi ancora utili. Non c’erano alternative e così con le aperture laterali in buona evidenza le infilai ai piedi ugualmente ma il fatto unì tristezza a tristezza.
Cercai una distrazione e potei avvicinarmi ad un gruppo di colleghi che in un corridoio strettissimo intavolavano con i soldati di sorveglianza contrattazioni per lo scambio di oggetti. Non si capivano, nessuno parlava la loro lingua né, per contro, nessuno di loro parlava la nostra, tuttavia qualche contrattazione andò a buon fine.
Io avevo un grandissimo desiderio di trovare una sigaretta, una sigaretta, non di più, per togliermi quella voglia che mi tormentava. Fu così che sparì dal mio polso l’unica cosa di valore che ancora mi portavo appresso: un “omega” che avevo acquistato durante gli studi universitari quando, avendo venduto gli appunti di letteratura latina ai miei compagni di studi, ero riuscito a mettere da parte un buon gruzzoletto. L’orologio, ricordo ancora, mi costò ben trecento lire, un vero capitale. Ne ebbi in cambio, ed oggi ricordo il fatto con grande disdoro, un pacchetto da dieci sigarette. Più in basso di così non si poteva.
Inaspettatamente ci invitarono a salire in coperta e finalmente potemmo uscire all’aperto e vedere il sole. Vedemmo anche il mare con il suo magnifico colore caratteristico del Mediterraneo. Fu un’ottima occasione per incontrarci tutti ed infatti con grandissimo piacere rividi i due tenenti che avevo conosciuto alla prefettura di Ragusa. Non incontrai il capitano napoletano, forse era stato ricoverato in infermeria o addirittura lasciato a Siracusa per il suo stato di salute. Neppure i due miei colleghi ne sapevano nulla, avendolo perduto di vista.
Discutemmo molto sulla nostra sorte ma tutte le nostre supposizioni erano destinate a restare tali. Io, per la verità, manifestai il mio timore per il mare, non perché le sue condizioni destassero preoccupazioni, infatti sembrava una tavola, ma perché io non sapevo nuotare ed il pericolo di essere colpiti da un siluro non era del tutto impossibile, anche per il fatto che la piccola nave non aveva scorta e sembrava solcare il mare con la stessa velocità di una lumaca.
Avemmo la possibilità di salire in coperta una seconda volta il giorno successivo, ma all’orizzonte non si profilava alcuna sagoma di costa e perciò doveva essere lontana l’eventualità di uno sbarco per toccare finalmente terra. Quando i motori si fermarono doveva essere notte o almeno lo supponemmo. Voglio dire, supponemmo che fosse notte ma era chiaro che la nave avesse attraccato da qualche parte. Dove? Era quasi ridicolo fantasticarci sopra. Lo avremmo saputo certamente ed a tempo debito e quello che era evidente era che nessuna notizia trapelava dalle bocche cucite dei nostri amabili aguzzini.
Malgrado questo ad un certo momento venne fuori il nome della Tunisia, non so come si fosse concretizzato questo nome ma certamente non per divinazione. Si insisteva su Tunisi anche perché era il punto più vicino alla Sicilia ma non voglio insistere su questa ipotesi che poteva anche essere un errore geografico pacchiano, ma, forse, perché certamente era il più conosciuto.
Comunque l’ipotesi fu del tutto errata ed infatti, la mattina successiva sbarcammo a Sfax e da lì condotti ad Enfideville, cittadina non molto lontana, ma sempre sul mare. E qui nuovo territorio, nuovo paesaggio, nuova situazione fisica: fummo chiusi – o forse è meglio dire rinchiusi – in un campo trincerato, molto ben sorvegliato e altrettanto ben difeso da diverse fughe di filo spinato avvolto in spirali strettissime e disteso per tutto il perimetro del campo.
Fatto certo: eravamo in mano agli Inglesi ed il comandante del campo era un sottufficiale, che sembrava un generale per la mole e per la divisa straordinariamente gallonata e con in pugno un bastone istoriato che teneva con molto sussiego sotto il braccio. Ci fece capire subito che il comandante era lui e che la disciplina era il suo primo impegno, impegno certamente non per sé ma per tutti noi. In effetti non si dimostrò molto severo e quando poteva mostrava un certo sorriso ben “disponente” che però non andava mai al di là della stessa maschera di superficialità. La sua condiscendenza ci consentiva molte domande alle quali rispondeva con altrettante risposte, risultate poi conformate alla bugia più cattiva. Il suo scopo, secondo me,era quello di tenerci buoni e speranzosi.
E noi, ad ogni buona notizia facevamo castelli in aria che poi risultavano fragilissimi al contatto con la realtà che spesso era completamente opposta a quella che ci era stata propinata. “Ci sarà la probabilità che possiate tornare in Italia”. “C’è in porto una nave ospedale che ha portato in Tunisia molti feriti, e che, tornando in Sicilia, potrà trasportarvi di nuovo in Italia”, “I Siciliani saranno certamente rimpatriati” ed altre notizie dello stesso tipo che fecero al contatto con la verità l’effetto dolorosissimo della più feroce delle docce scozzesi. L’alternarsi delle informazioni continuò fino a quando, invece di condurci al porto, ci portarono ad una piccola stazione ferroviaria dove, alla rinfusa, ci caricarono su carri adatti al trasporto animali.
Il soggiorno in Tunisia mi insegnò molte cose e soprattutto quanto io stesso fossi impreparato allo stato di prigioniero. I colleghi, dopo essere arrivati, si organizzarono in gruppi di sei o sette unità ed insieme provvedevano a tutto quello di cui si aveva bisogno. Io rientrai in un certo gruppo ma dovetti subito riconoscere che sapevo fare ben poco.
Gli Inglesi ci fornirono gasolio in abbondanza, cibo in natura come verdure varie, cipolle, patate, pomodori, fagioli e tante altre cose utili a far massa, in più ci fornirono olio a volontà. Occorreva che noi ci organizzassimo per cucinare il materiale a disposizione ed in questo i miei colleghi furono all’altezza della situazione.
La prima cosa che mi colpi fu la facilità con cui provvidero a mettere insieme i fornelli che rispondevano, almeno secondo me, all’originalità più assoluta. Spero di riuscire a descriverlo: Il tutto si basava sul fatto che il gasolio non si infiamma come la benzina e che per poterlo fare occorre che si riscaldi convenientemente.
Così che il fornello veniva organizzato in questo modo: il gasolio veniva raccolto in un grosso recipiente come una grande latta dotata di un piccolo foro nelle vicinanze della base, mentre l’uscita del gasolio veniva regolata da un piccolo pezzo di legno che paragonerei ad uno stecchino in modo che potesse uscire dal recipiente quasi goccia a goccia. Il gasolio così regolato scendeva in un piccolo canale inclinato per raggiungere una piccola piattaforma dai bordi molto bassi colma di sabbia piuttosto grossolana. La piattaforma naturalmente distava sufficientemente dal contenitore in modo da non surriscaldarlo. Completato il marchingegno si accendeva uno stoppino fino a riscaldare il gasolio della piattaforma e quindi accenderlo in una bella fiammata alimentata dalle gocce che scendevano dal contenitore per mezzo del canale inclinato.
Dei recipienti di latta abbastanza grandi ci consentirono di sostituire le marmitte ed il giuoco fu fatto. Tutti noi eravamo forniti di gavette con il corredo di qualche posata. A me mancava soltanto la borraccia che potei sostituire con un po’ di fortuna con una bottiglia di tre quarti di litro adatta alla bisogna e poi, poi non mi mancava l’appetito, e che appetito!
Ci fu anche un’altra cosa che mi colpì moltissimo: la sabbia non era friabile e piuttosto vicina al tufo per la sua consistenza per cui era possibile scavare senza che franasse. Infatti potemmo vedere dei fossi quasi quadrati non più grandi di due metri per due metri e profondi appena un metro disposti in perfetto allineamento tanto per la latitudine quanto per la longitudine. Non ci rendevamo conto del perché fossero stati scavati ma lo comprendemmo bene la sera quando cominciammo a sentire sibilare colpi di fucile ad altezza d’uomo.
Coloro che ci avevano preceduto, e dovevano essere stati in molti, avevano pensato bene di evitare di essere colpiti durante la notte riparandosi al di sotto del livello del terreno.
Facemmo altre ipotesi, ma quella ci sembrò la più attendibile. Ci lasciava però perplessi la regolarità geometrica degli scavi, che sicuramente non erano stati fatti in fretta e dovevano avere avuto certamente un’unica guida.
Un’altra sorpresa, questa volta molto gradita fu la concessione di recarci sulla spiaggia, dopo l’apertura di un varco nel filo spinato, per un bagno ristoratore. In verità avemmo la stessa possibilità per diversi giorni e questo ci portò ad una condizione di ripresa non soltanto fisica. Ci servì servì moltissimo per poter sopportare tutto quello che ci venne dopo.
Viaggio verso occidente
Alla grande delusione di una destinazione diversa da quella che ciascuno di noi sognava si aggiunse la disperata constatazione di un trasferimento fatto su mezzi che non avevano niente a che fare con gli uomini. Si sentiva da lontano il puzzo lasciato dalle bestie che vi erano state trasportate, forse pecore, forse cammelli, non sapevamo indovinare, ma di sicuro c’era il fatto che non eravamo trattati come uomini. Si aggiunse poi che in un vagone furono sistemate ben trenta persone che sarebbero state strettissime in un carro normale delle nostre ferrovie e quelli erano carri di gran lunga più piccoli facendo parte di una ferrovia a scartamento ridotto.
Comunque, ciascuno di noi fece del suo meglio per adattarsi alla nuova situazione, voglio dire che ciascuno di loro, tranne me, si adattò al meglio. Io come sempre non compresi neppure quella volta ciò che era necessario fare e ciò che invece non si doveva fare. Mi meravigliavo infatti che pur essendo ancora giorno pieno i miei compagni di sventura si sistemassero per la notte come per dormire stendendosi per quanto erano larghi e lunghi. Mi accorsi della mia ingenuità quando sul fare della notte non trovai la possibilità di stendermi in tutta la mia lunghezza: ogni spazio era occupato e quando facevo per allungare le gambe mi sentivo ringhiare da tutte le parti.
Il mio animo non era disposto a litigare con nessuno per cui cercai di adattarmi come meglio potevo e lo feci sedendomi vicino alla sentinella inglese che invece più comodamente se ne stava seduto vicino al portellone su una cassetta da imballo capovolta. Era l’unico posto disponibile e per quanto cercassi non mi riuscì mai di allungare le gambe: mi tenevo strette al petto le ginocchia circondandole con le braccia e cercando di appoggiare appunto sulle ginocchia la testa che ciondolava ora di qua ora di là come il batacchio di una campana stonata.
Fu una notte di tormento, solo verso il mattino per la stanchezza stesi le gambe e non saprei dire su chi e come perché non ne ebbi la percezione ed era tale il sopore nel quale ero caduto che non avvertii proteste e se ce ne furono.
Comunque fino a quando ebbi coscienza del mio esistere non feci altro che accavallare pensieri su pensieri, incertezze su incertezze, considerazioni su considerazioni che, era facile capire, non avevano le caratteristiche dell’ottimismo.
Anzi, accadde un fatto che non è semplice da raccontare e soltanto in questo stesso momento ho deciso di esternarlo. Avevo paura di raccontarlo persino a me stesso ma oggi non ce la faccio più, occorre che qualcuno sappia, che qualcuno mi giudichi al di là ed al di sopra del mio stesso giudizio: forse le leggi della guerra non sarebbero disposte a comprendermi ed a scusarmi.
Eccomi pronto al giudizio: ero dunque semiaddormentato con la testa appoggiata alle ginocchia quando mi senti colpito da un oggetto molto duro. La mia vicinanza al soldato inglese non mi dava la possibilità di propendere verso pensieri buoni. Fu così che mi trovai in mano il fucile della sentinella che diversamente da me era riuscita a prendere sonno in modo molto pesante tanto da lasciarsi sfuggire dalle mani proprio la sua unica arma di offesa o di difesa, secondo il punto di vista da cui si voglia guardare. Lo guardai, o per meglio dire cercai di guardarlo in quella oscurità in cui solo i gatti avrebbero potuto scorgere le cose e le persone: dormiva profondamente tanto che non avvertì neppure il mio contatto.
E allora? Allora che dovevo fare? Da carcerato ero diventato per un giuoco assurdo del destino carceriere e come tale, quale avrebbe dovuto essere il mio atteggiamento? Non lo seppi allora e non lo so ancora oggi. Mantenni il fucile fino a quando il soldato non si svegliò ed io glielo consegnai. Mi guardò con sorpresa e gioia, forse avrebbe voluto esprimermi la sua gratitudine ma non riuscì a fare altro che offrirmi una sigaretta.
Io, che avevo barattato il mio orologio per un miserabile pacchetto di dieci sigarette, gli feci capire che lo ringraziavo ma che non potevo accettare perché non avevo il vizio del fumo. Glielo feci capire alla meglio con i gesti, e lui comprese, allungò la mano e volle stringere la mia, forse aveva capito anche che non avevo accettato per orgoglio.
Di che cosa avrei dovuto vergognarmi, della restituzione del fucile o dell’orgoglio dimostrato nel rifiuto della sigaretta? Forse è un po’ difficile rispondere. Io però ero a posto con la mia coscienza, avevo restituito ad un soldato, sia pure di nazionalità diversa, quello che avevo ricevuto dal “mio soldato indiano”.
Non vi furono molte novità nei giorni che seguirono ad eccezione del fatto che furono tolte le sentinelle all’interno dei carri che furono bloccati dall’esterno. Inoltre sentimmo durante le soste che gli uomini di sorveglianza erano cambiati: gli inglesi erano spariti ed avevano lasciato il posto agli americani. Ce ne accorgemmo perché abbaiavano in modo del tutto diverso.
Le soste le facemmo preferibilmente di notte e così potevamo scaricare le nostre ultime propaggini dell’intestino giù sulle scarpate della ferrovia sotto i raggi scrutatori delle torce americane. In quelle occasioni venivano svuotati i bidoni già pieni di urina e ci venivano forniti il cibo e l’acqua necessari per le ulteriori ventiquattro ore.
Io mi ero conquistato un poco di spazio per un tacito accordo fra colleghi, accordo che non era stato possibile fare prima perché il problema non si era ancora configurato.
Ci fu un certo affiatamento fra noi compagni di sventura e fu anche possibile uno scambio di notizie che mi permise di conoscere particolari che avevo solo immaginato. Conobbi così le ragioni per cui avevo avuto vere e proprie perplessità in occasione della mia perlustrazione nelle immediate vicinanze della stazione di Genisi nelle vicinanze di Ragusa.
Come ho avuto modo di raccontare in un’altra occasione, il rombo dei cannoni che ora si avvicinava ed ora si allontanava era dovuto al fatto, così come mi fu raccontato da un collega che era stato appunto in quel settore, che l’esito della battaglia nel retroterra di Gela subiva continui mutamenti dovuti al contrasto fortissimo che aveva opposto la divisione Livorno all’avanzata delle truppe americane con il sostegno delle bordate delle batterie navali.
Fino a quando fu valido il sostegno dei cannoni a lunghissima gittata. le truppe americane riuscivano ad avanzare e perciò il fronte della battaglia si spostava verso l’interno. Quando invece gli americani non potevano più usufruire di quel sostegno la divisione Livorno sostenuta da alcuni carri Tigre della divisione corazzata Goering tornava a sospingerli verso la spiaggia. Trovai così le motivazioni reali di una supposizione che mi aveva tenuto per lungo tempo nell’assoluta incertezza.
Seppi anche che la 206° Divisione costiera di cui faceva parte il reggimento a cui ero stato aggregato durante la mia permanenza a Scicli si era battuta con furore per contrastare l’avanzata deli alleati. Era una notizia che mi riempiva di orgoglio perché anche quando ero stato trasferito alle dipendenze della 9° sottozona di Ragusa non mi ero mai staccato né con il cuore né con la mente da un reparto che avevo servito non soltanto con spirito di servizio ma anche con tutta l’anima.
Mi vennero alla mente tutte le località che conoscevo alla perfezione da Pozzallo a Santa Croce Camerina e che purtroppo avevano subito un tremendo trauma che difficilmente avrebbe potuto essere risanato. Ed, io, avrei avuto la possibilità di rivederle ancora ? E gli uomini che vi avevo conosciuto, dove erano andati a finire? Quale era stata la loro sorte, dal comandante all’ultimo dei suoi poveri fantaccini? E il mio caro ufficiale medico, il mio caro amico fraterno artificiere, il capitano , aiutante maggiore del reggimento, il caro tenente cappellano, sempre pronto a correre da per tutto anche quando non ce n’era bisogno pur di essere il primo a consolare e a dare conforto, dove erano andati a finire ? La grande tragedia li aveva tragicamente coinvolti o, meno sfortunatamente , erano ancora in vita ?
Erano questi i pensieri che scorrevano veloci nel mio cervello nei momenti in cui ciascuno di noi, passata la voglia di comunicare, si chiudeva nel suo guscio e rifletteva sulle persone, sulle cose, sugli avvenimenti reali o supposti che mi avevano coinvolto direttamente o indirettamente.
E sì, perché ogni qualvolta un piccolo tassello di realtà si univa alle mie precedenti esperienze anche i miei ricordi subivano delle profonde modifiche. Era come un grandissimo palcoscenico che si apriva davanti a te ma non potevi avere occhi per tutte le cose e quando ne prendevi coscienza tutto ciò che prima era stato in ombra si illuminava. Tuttavia era una luce che non diminuiva per niente la drammaticità dei fatti e lasciava nel tuo animo una traccia indelebile di dolore e di delusione.
Arrivammo a Ouled Rahmoun nel primo pomeriggio e finalmente potemmo scendere dai famigerati e puzzolentissimi carri merci. Fummo subito inquadrati e quando sembrò che fossimo pronti ci fu dato l’ordine di metterci in marcia. Ci fu un piccolo inconveniente dovuto al fatto che il primo della colonna ero proprio io, che non riuscivo nella maniera più assoluta a capire ciò che il “mastino” addetto al nostro trasferimento mi abbaiava addosso. Più lui gridava più io non mi muovevo e capii soltanto che lui cominciò certamente a bestemmiare.
Finalmente, con un tantino di intelligenza in più, mi prese per mano e mi fece gesti più comprensivi per farmi capire che occorreva mettersi in movimento. Per la verità non era che io non avessi del tutto capito quello che bisognava fare ma avevo un alibi perfetto per non eseguire quello che poteva essermi detto con maggiore umanità e rispetto: Non era scritto da nessuna parte che io dovessi capire l’americano e mi feci forte di questo per restare fermo ed impassibile dinanzi al suo furibondo e gesticolato latrare.
Intanto i miei compagni di sventura, quasi spasmodicamente mi facevano segno di muovermi ed io, per evitare ulteriori danni, finalmente mi mossi e dietro a me tutta la colonna. Sentii il mastino gridare ulteriormente e finalmente si svelò il mistero : «You non essere officiala italiana, you essere pricioniera.»
Per carità! i nostri migliori amici erano proprio gli americani di origine italiana e questo non fu un esempio isolato ma si protrasse , ad eccezione di alcuni casi, per tutto il periodo della prigionia.
Fummo condotti in un recinto molto ampio dove il filo spinato regnava sovrano in ogni angolo ed in tutti lati dello spazio a noi riservato: nessuna tenda, nessun ricovero e quando fu sera e subito dopo notte profonda in pochi attimi sentimmo immediatamente l’umidità gelata caratteristica delle notti africane. Su di noi, raccolti in gruppo e seduti come di consueto sulle nostre gambe ripiegate su se stesse, si riverberavano i raggi indiscreti dei fari accesi dai soldati di sorveglianza.
Era quello il momento tragico che “ai naviganti intenerisce il core “. In quel medesimo momento come per miracolo comparve una fisarmonica e da quella come da un fiume di intensa tristezza le note delle più belle canzoni italiane. Vi prevalevano alcune dolci canzoni napoletane ma tutte, dico tutte, risuonavano di una infinita mestizia che ti riportava alla famiglia, a tutti coloro che ti erano profondamente cari, ed altrettanto dolorosamente ti facevano sentire ancor più grave la pesantezza della situazione reale in cui ci trovavamo tutti, tutti, nessuno escluso.
«È questa di Katin la fossa e noi, qui, lasceremo le ossa.»
Erano versi improvvisati là per là, ma che rendevano in modo straordinariamente reale e tragico la nostra situazione. Io, con il viso chiuso fra le mani lasciavo scorrere le lacrime come da un ruscello: per la prima volta uscivo dal torpore aggravato dalla incredulità ed avevo finalmente la percezione della tragedia nella quale ero precipitato, non certo per colpa mia. Fu un modo finalmente liberatorio per farmi uscire da quella abulia insensibile e nello stesso tempo incomprensibile in cui ero caduto.
Campo di concentramento n° 127
L’indomani venne la pioggia. Fenomeno che non si verificava in quelle regioni da centinaia di anni ed invece cadde copiosa sulle nostre teste e sulle nostre spalle e, purtroppo, non avevamo niente che potesse ripararci. Poi venne qualcuno a portarci delle tendine da mettere insieme per ogni quattro persone e così di gran furia potemmo potemmo riparare almeno le nostre teste.
Ci accorgemmo poi che l’acqua scorreva copiosa al di sotto dei nostri corpi e così dovemmo correre ancora una volta fuori sotto una doccia battente per scavare intorno alla tenda un solco che impedisse alla pioggia di penetrare subdolamente. Quando finimmo, avemmo finalmente la possibilità di conoscerci mentre le gocce pesanti della pioggia scrosciavano sul tessuto del nostro riparo. Eravamo come pulcini bagnati e non certo di buon umore. Tirammo fuori dalle sacche quanto ancora era rimasto all’asciutto e cercammo di cambiarci per quello che ognuno di noi poteva.
Ci scambiammo racconti, umori, opinioni. Un sottotenente ancora più giovane di me – io avevo appena ventitré anni – divideva con noi la tendina e raccontò come, appartenendo alla Divisione Folgore, fosse stato paracadutato, in un estremo tentativo di difesa, nella piana di Catania per cercare di diminuire la tremenda pressione che le truppe dell’ottava armata inglese esercitavano per aprirsi la strada verso Messina. Era straordinariamente commosso perché sentiva nel cuore tutta la delusione che l’impresa fallita aveva creato nella sua mente.
Il lancio, preparato con molta approssimazione, aveva fatto sì che i paracadutisti non fossero riusciti ad adunarsi in gruppi numerosi per costituire un valido appoggio. Infatti solo qualche coppia riuscì a costituirsi, per altro braccata dalle truppe alleate come da segugi famelici. Fu una fortuna per loro, che una volta individuati in aria non fossero divenuti oggetto di facile bersaglio. Lo sfortunato collega si sentiva straordinariamente mortificato per essere stato catturato quando ancora cercava di liberarsi dal paracadute. Ed ora era con noi lì, sinceramente amareggiato per essere prigioniero di guerra e per non essere morto di una morte che egli stesso giudicava eroica ma che noi tutti compagni di tenda, dopo le esperienze vissute, pensavamo sarebbe stata assolutamente inutile se si fosse disgraziatamente verificata.
La giornata successiva si mostrò splendente e così potemmo sciorinare al sole tutti i nostri stracci. Intanto militari italiani alzavano in fila perfettamente ordinata tende piramidali che avrebbero dovuto accogliere tutti coloro, ed erano moltissimi, che il giorno prima avevano subito il tremendo nubifragio. Non so se per ordine ricevuto o per qualche altro motivo che non mi era dato di comprendere nessuno dei militari rivolse a noi lo sguardo, come se noi ufficiali facessimo parte di una categoria di appestati.
Se avessi voluto approfondire forse avrei potuto spiegarmi la vicenda con il distacco che avevamo creato nel diretto contatto con gli inferiori, scavando un solco di incomprensione reciproca, che con ogni probabilità si era tramutato in rancore. Forse ero nel giusto. ma io ne soffrivo perché fra me e i miei soldati non c’era stato mai un minimo distacco e conoscevo, perché me ne facevano confidenza, tutti i loro pensieri, tutte le loro preoccupazioni e tutte le vicende familiari che spesso li tenevano in apprensione
Quando entrammo nelle tende piramidali a gruppi di otto ci distribuimmo quattro da una parte e quattro dall’altra, posizionandoci a caso, segnando ciascuno il proprio posto collocandovi l’eterno nostro compagno, lo zaino. D’altra parte non c’era alcuna differenza se non per la vicinanza dell’entrata che però, durante la notte, sarebbe stata certamente chiusa. Qualcuno si procurò un recipiente che applicò diligentemente al palo centrale lo fornì di stoppini vi mise dentro una porzione di margarina e “inventò” la luce notturna, per nutrire la quale ci impegnammo di fornire a turno la nostra razione giornaliera che ci veniva fornita con molta parsimonia alla distribuzione del rancio.
Da un gran mucchio di scarpe legate a coppia dagli stessi legacci potei finalmente fornirmi di scarpe, rinunciando definitivamente alle mie che mostravano con la loro bocca spalancata una fame da leone. Potei con lo stesso metodo fornirmi di altri indumenti che però evidenziavano in modo molto marcato la scritta “Prisoner of war”: era proprio quello che sopportavo di meno ma non potevo più fare diversamente.
Ci fornirono anche due coperte di cui una aveva la perfetta marca italiana e con queste potei disporre di una copertura notturna più confacente alle necessità che si evidenziavano in maniera sostanziosa nella differenza di temperatura fra la notte, freddissima, ed il giorno, caldissimo.
Le cose cominciavano a prendere una piega abbastanza favorevole se non fosse stato per la fame che mi torceva le budella e la testa che ruotava vertiginosamente quando cercavo di alzarmi dalla posizione seduta, ormai era divenuta fissa proprio per quella debolezza che sentivo ogni giorno più consistente. Intanto, notte dopo notte, eravamo riusciti ad asciugare con il calore dei nostri corpi l’umidità del terreno. A questo punto fummo trasferiti in un’altra “gabbia”.
Gabbia n° 10
Per la verità non sono poi tanto sicuro che si trattasse della gabbia numero dieci o della gabbia numero nove. In effetti non è neppure tanto importante precisarlo, poiché le gabbie, innumerevoli, erano tutte uguali per cui sarebbe assolutamente inutile volerle descrivere tutte. Basta tratteggiarne soltanto una per sapere come erano fatte tutte le altre.
Si trattava di un grande rettangolo segnato perimetralmente da doppio reticolato, diviso in due parti di cui la prima, molto più piccola, serviva per tutti i servizi come la cucina, l’infermeria i campetti di giuoco come la palla a volo, la palla a canestro, separata dal resto del campo da un doppio reticolato con l’apertura di una grande cancello anch’esso di reticolato che consentiva l’entrata al campo vero e proprio che allineava tutte le tende del tipo piccolo come quelle in uso all’esercito tedesco.
In fondo si trovavano le latrine coperte e chiuse lateralmente costituite nella loro parte essenziale in grandi buche rettangolari chiuse da cassoni in legno con opportune aperture rotonde. Nel fossato sostanze chimiche per neutralizzare le materie biologiche.
Lateralmente vi erano grandi vasche con i rubinetti per lavare i panni e ancora più lateralmente le ghirbe per l’acqua potabile. Vi erano anche le docce ma risultavano poche e mal servite con acqua salmastra.
Le tende risultavano divise da un viale centrale che consentiva tutto il percorso ad autocarri anche molto grandi. Tutto intorno al riquadrato delle tende e alla distanza di due metri dallo steccato vero e proprio un solo filo spinato che segnava il limite entro cui noi potevano avvicinarci allo steccato.
Agli angoli completavano il desolato paesaggio le grandi torri per le sentinelle destinate a sorvegliare ogni nostro movimento: non potevamo assemblarci in numero maggiore di due e la notte l’oscurità era continuamente falciata da grandi fasci di luce che noi vedevamo trasparire persino dai teli delle nostre tende.
Le amicizie si facevano e si disfacevano con la massima naturalezza: non c’era affetto nelle convivenze forzate e non si andava mai al di là dei racconti delle nostre più recenti vicende belliche. Le famiglie, come per uno strano accordo, non erano mai menzionate ed in genere i discorsi vertevano sulle ricette di cucina che ciascuno di noi sognava durante la tormentata notte di quasi sonno.
Io mi sentivo sempre più solo e sempre più debole per la mancanza del cibo occorrente alle mie esigenze fisiche. Un metro e ottantacinque di altezza in un complesso fisico ventitreenne potevano ben dirsi assolutamente insoddisfatti da un mestolo di acqua tiepida con misture forse di verdure di cui non ho mai capito la composizione, una fetta di pane bianco talmente sottile da far vedere le persone in trasparenza, un mezzo cucchiaio di margarina che noi a turno trasferivamo per l’esigenza della luce notturna, un cucchiaio di legumi, spesso fagioli, e poi? Poi … amore e fantasia, soddisfatti dalla memoria delle ricette che ciascuno di noi con buona parte di umorismo portava sul desco del pranzo, della colazione e della cena.
Consumavo il tutto buttando i componenti insieme nella gavetta con l’aggiunta di un poco di acqua fresca per aumentarne le proporzioni e con l’ausilio della fetta di pane per rendere più consistente la paccottiglia. Cominciavo a mangiare soltanto quando, mescolando e mescolando, riuscivo ad amalgamare tutte le componenti del pranzo ed un cucchiaio dopo l’altro finivo con il pulire del tutto la gavetta che a quel punto non avrebbe avuto neppure il bisogno di essere lavata. Tutta questa perdita di tempo era in contrasto con l’esigenza di correre a lavare i recipienti sporchi e le posate appena usate. Se arrivavi per ultimo era molto difficile che potessi usare l’acqua pulita dove tanti altri avevano immerso e strofinato le loro “suppellettili”.
La realtà psicologica
Non era facile superare condizioni che io consideravo di completo isolamento pur essendo in mezzo a migliaia e migliaia di altre persone. Come prigioniero di guerra, ero indotto a sentirmi estraneo nei confronti di tutti coloro che mi circondavano e che rappresentavano una umanità eterogenea ed incapace di risolvere i propri problemi collegati all’esistenza. Era certamente impossibile risolvere i problemi miei al di fuori dei problemi degli altri, ma quando osservavo che proprio gli altri non riuscivano a determinare una linea di condotta approssimativamente valida mi sottraevo all’incontro e rimuginavo in me stesso pensieri tutt’altro che ottimistici.
Vedevo prevalere gli egoismi più sfacciati, sentivo la vacuità di determinate prese di posizione da parte di una minoranza sciocca ed inconcludente ed allora mi rintanavo sempre più in me stesso. Così si ingigantiva il desiderio del passato, la nostalgia dell’ordine, della capacità dell’organizzarsi, del sentirsi uomini pieni di giusta dignità affermandola anche con il sacrificio, se questo era necessario.
Tuttavia vi erano scene che a volte potevano definirsi sfiziose. Soprattutto nei primi tempi di quella nostra permanenza si verificava l’istituzione di una comunicazione spontanea senza fili fra una gabbia e l’altra separate da una ampia intercapedine.
Non appena si chiariva la luce del giorno ed il sole cominciava ad alzarsi sull’orizzonte si cominciavano a levare alti nel cielo i primi richiami fra i prigionieri di uno steccato verso l’altro e viceversa. «C’è Tizio nel tuo steccato?», si gridava da una parte e dall’altra si rispondeva con altrettanta vivacità: «Hai visto Caio?»
E così sì continuava e a mano a mano le voci si levavano più alte e poi più alte ancora perché si doveva superare il frastuono che, a poco a poco diveniva insostenibile. «Sei tu! Come mi fa piacere saperti vivo! lo sono Sempronio; ho saputo della tua prigionia per puro caso.»
Ma era un vero miracolo se si riusciva a sentire, perché ormai erano di più i «Grida più forte, non sento niente!» che gli stessi discorsi fatti di frasi spezzate dal gridare insieme, dall’alzare sempre di più la voce fino a farla divenire un urlo quasi inumano nella frenesia di trasmettersi cose importanti, cose che erano ritenute determinanti nella vita degli stessi prigionieri.
Si andava avanti in questo modo insistendo stupidamente tutti insieme finché il sole alto non ti stordiva e ti faceva desistere per sfinimento totale del fisico che fra l’altro era già debilitato dalla mancanza di cibo.
America o rimpatrio?
Ci si trasmettevano così le voci che provenivano da “radio latrina” e questo soltanto nelle primissime ore del giorno, quando ancora le voci non erano divenute urli ed erano soltanto in pochi a trasmettersi le novità. «Chi te lo ha detto?», «È sicuro ?» si sussurrava poi fra i prigionieri.
Erano notizie che oggi si confermavano e domani si smentivano sulle sorti di noi prigionieri che secondo “radio latrina” avremmo dovuto essere rimandati in patria o al contrario essere trasbordati all’altro capo del mondo, in America.
A volte le notizie prendevano corpo per la loro consistenza o per una verosimiglianza quasi tangibile. In quel caso le speranze andavano in cielo o si smorzavano in una delusione amara e dolorosa.
Le voci, che dico voci, gli urli si spegnevano con l’alzarsi del sole e con il sollevarsi di un pulviscolo che non riuscivo a capire di che cosa fosse fatto visto che polvere non se ne alzava anche per mancanza di qualsiasi tipo di movimento. Lo capii a mie spese quando in una notte insonne mi accorsi di essere invaso dai pidocchi.
L’infestazione era oramai al colmo : i peli del pube e delle ascelle erano brulicanti di esseri minuti e schifosi che come tanti funesti vampiri si buttavano a suggere gli ultimi residui di sangue. ll prurito mi frastornava e non sapevo più a che santo votarmi, visto che non c’era speranza che l’infestazione diminuisse, anche per il fatto che la mia tendina era proprio ubicata in vicinanza del reticolato e quindi quasi dentro la nuvola pestifera di insetti che il caldo portava in alto con il pulviscolo. Non potevo capacitarmi come la cosa potesse verificarsi ma, volente o nolente, la nuvola stava là gli insetti pure ed io in mezzo.
Ad un certo momento le cose si complicarono ulteriormente: gli Americani captarono l’esistenza di una radio posizionata con prontezza ed intelligenza fra le assi dei gabinetti e cosi le ispezioni da sporadiche diventarono esasperate alla ricerca di radio latrina.
Quando le ricerche non dettero alcun risultato i prigionieri furono costretti a radunarsi lontano dalle tende, si diceva per la conta, ma erano conte che non finivano mai per dare tempo alle perquisizioni nelle tende. Quando anche le perquisizioni non dettero alcun risultano cominciarono gli interrogatori separati con minacce ed allettamenti. Durante le cosiddette conte qualche prigioniero non resisteva oltre al martellare dei raggi solari e finiva per terra.
Vita molto grama nel campo 127
In genere accadeva ai più anziani di cadere in avanti come corpo morto. Solo allora i nostri aguzzini si ricordavano di avere esagerato e ci mandavano nelle tende. Era l’unico riparo che ci consentisse di ripararci dai raggi del sole e quando questo picchiava, e picchiava sempre, le tendine si surrìscaldavano e l’effetto sole si faceva sentire anche al di sotto del tenue riparo. In quei casi non c’era proprio rimedio e occorreva affidarsi a Dio per non essere vittima di un colpo di calore o di altra macchinazione africana.
L’escursione termica raggiungeva differenze che alle nostre latitudini erano impensabili se non in casi assolutamente straordinari. Se azzardavi a tirar fuori la testa dalla tendina nelle ore in cui il sole era allo zenit potevi osservare piccole trombe di aria che si sollevavano dal suolo senza che vi fosse un alito di vento percepibile. Erano certamente turbini di calore che vedevi succedersi interminabilmente che però non avevano effetti diversi da quelli dovuti alla grande calura che ti opprimeva e ti asfissiava, anche se fortunatamente, si era in assenza di grande umidità. Forse era questo che ci consentiva di sopravvivere.
Acqua per lavarsi ce n’era ben poca e quella stessa era comprensibilmente razionata. Quella potabile, poi, era distribuita nelle prime ore del giorno e chi arrivava a prenderla poteva bere, almeno per quelle 24 ore. Chi invece non faceva a tempo per un motivo qualsiasi aveva di che rimuginare, ma difficilmente avrebbe potuto rimediare un poco di acqua, visto che chi ce l’aveva se la teneva preziosamente in serbo. La questione era che i carri botte per il rifornimento delle ghirbe arrivavano all’improvviso e all’improvviso l’acqua si esauriva: perciò occorreva improvvisarsi sentinelle a tempo pieno per poter fare il rifornimento che naturalmente prendeva le proporzioni dalla capacità dei recipienti di cui potevi disporre.
lo potevo usufruire soltanto di una bottiglia. Era una bottiglia un poco più piccola di un litro che io, per poter mantenere fresca, avevo avvolto con un pezzo di coperta da campo ritagliata appositamente e cucita opportunamente intorno con un filo di spago. Lo scopo era raggiunto ma non potevo aumentarne il contenuto e pertanto permaneva il problema dell’insufficienza dell’acqua, problema gravissimo per me che avevo sempre sete, soprattutto in quel clima torrido.
Per pulirci ci avevano distribuito una saponetta ogni quattro persone, che noi avevamo diligentemente divisa per evitare poi contestazioni contro chi ne avesse usufruito in più, anche involontariamente. Erano cose prevedibili, e saggiamente occorreva provvedervi in tempo, cioè prima che si verificassero inconvenienti come per altro accadeva ad ogni piè sospinto in diversissime altre occasioni.
Si viveva insomma sul filo del rasoio per lo stato di tensione che si respirava addirittura come l’aria surriscaldata dai furiosi raggi del sole. L’acqua per lavarci era raccolta in certi serbatoi abbastanza capienti e poi distribuita a mezzo rubinetti nei lavatoi e nelle docce che però funzionavano soltanto in determinati giorni e per brevissimo tempo per cui, come era prevedibile, se riuscivi a trovare un posto sotto la doccia dovevi sbrigarti e non perdere tempo ad insaponarti se non volevi correre il rischio di restare soltanto insaponato senza più la possibilità di sciacquarti. Insomma, era come accade per la coperta corta: se ti copri i piedi resti con la testa scoperta e viceversa se ti copri la testa, perciò se ti insaponavi bene non potevi sciacquarti se invece ti insaponavi appena occorreva ugualmente molta acqua perché era salmastra ed avevi di che sfregarti senza riuscire nell’intento.
A ricordarsene oggi sembra tutto naturale e fatto di piccole cose ma in quel clima fisico e psicologico erano problemi di difficile soluzione. Era comunque il problema della sopravvivenza che purtroppo poteva risolversi in tuo favore solo se lo facevi a scapito degli altri.
Così per ogni giorno trascorso l’egoismo ti si impiantava nell’animo e non se ne andava più, anzi, le occasioni ti davano la possibilità di accrescerlo ed ingigantirlo oltre ogni misura. Le azioni altruistiche divenivano ogni giorno più rare e suscitavano persino meraviglia nel constatare che non era stato distrutto del tutto e che ancora la sua fiammella esisteva. Un buon segno, questo che avrebbe dovuto far bene sperare, ma come sempre accade nelle cose la meraviglia si trasformava a poco a poco in incredulità e si finiva per credere che fosse più una forma di egoismo mascherato da altruismo per fregare ancora una volta il prossimo. Conclusioni pessimistiche è vero ma giustificate dalla pesante realtà dura e perversa.
Qua, qua, qua
Comunque andassero le cose nel campo esisteva in ogni modo un fuoco fatto di dignità che covava sotto cenere e la cui esistenza si avvertiva in manifestazioni che si esteriorizzavano in piccoli annunci che venivano scritti clandestinamente ed affissi poi altrettanto clandestinamente nella bacheca ufficiale del campo.
Gli americani si indignarono per questo, addirittura con maggiore virulenza, e cominciarono i primi tentativi per individuare i redattori del foglietto di fortuna.
Erano comunicati semplici e precisi che invitavano a non dimenticare la propria dignità e la serietà di chi sa soffrire senza mortificare la propria personalità. Erano suggerimenti che avrebbero dovuto essere accettati anche dagli americani perché, in ultima analisi, nel rispetto della dignità e della personalità era implicito il senso dell’ordine e della disciplina, ma per loro significava che esisteva qualcosa che sfuggiva al controllo e che pertanto andava soppresso per evitare una brutta figura.
In effetti la cosa fu veramente gradita alla maggioranza perché nelle poche e stilizzate parole si avvertiva il desiderio di conforto e di ripresa della propria immagine, ormai purtroppo quasi distrutta del tutto. Il foglietto volante era intitolato “Qua,Qua,Qua” ed aveva la sua giustificazione in un precedente che aveva del gustoso, fondamentalmente dell’ironico e dello scanzonato.
Lo steccato
Lo steccato aveva una sua configurazione alla maniera degli antichi Romani, solo che le tende erano molto piccole e gli spazi erano di gran lunga inferiori, anche se perfettamente sistemati secondo criteri geometrici. Le tende infatti erano disposte in filari secondo la lunghezza dello steccato e quindi risultavano perfettamente allineate con tutti gli altri filari. Per cui, se si voleva individuare una tenda bastava dire: fila x, tenda y cominciando a contare come punto di riferimento dall’entrata allo steccato stesso.
Come al solito però gli Italiani andavano sempre al di fuori delle regole: chi voleva trovare un amico alla tenda 40 della fila C o O o E che fosse, non si prendeva la briga di iniziare una conta che andava di per sé stessa contro il suo carattere e cominciava a chiamare a gran voce l’amico che magari in quel momento non stava proprio a sentire. In risposta si levava da tutte le tende un coro di voci che sembravano essersi messe d’accordo per rispondere all’unisono e quindi si levava nel cielo un ”Qua! Qua!Qua!”che confondeva oltre ogni dire chi per contro avrebbe desiderato ricevere solo la voce dell’amico. Da qui venne poi il titolo del giornaletto clandestino e di tutto ciò che assumeva via via un simbolismo antiamericano.
Così, come per Radio Latrina, cominciò il calvario degli interrogatori, delle minacce e delle promesse da parte del responsabile americano del campo. Quindi tornarono le estenuanti conte dei prigionieri messi in fila e lasciati in quelle condizioni per ore e ore sotto un sole a voler dire poco addirittura fulminante.
Nessuno parlò in quell’occasione, d’altra parte erano certamente pochi a saperlo ma moltissimi ad approvarlo. Per la prima volta ci fu uno spirito di omertà che ci restituiva fiducia e che in un certo senso ci dava più forza. Questo ci portò di conseguenza anche un maggior rispetto ed una maggiore considerazione e cominciammo a poco a poco ad avere la possibilità di giocare, di amministrarci da soli nell’ambito della disciplina e dei regolamenti interni. Non si seppe mai chi fosse il redattore di “Qua,Qua,Qua” ma gli furono tributate molte simpatie e moltissimi consensi.
Settembre, mese dell’armistizio
Da quel momento le cose cambiarono radicalmente e per il tempo che rimanemmo in quel campo ed io stesso recuperai moltissimo sia nel corpo che nello spirito. Cominciammo a mangiare un poco di più, avemmo la possibilità di trascorrere il nostro tempo nel gioco, soprattutto a palla a volo, nel quale mi ritenevo un esperto giocatore, e cominciai a partecipare a piccoli tornei che finalmente mi distraevano dalla realtà certamente ancora molto dura.
Ogni tanto si verificava qualcosa di inconsueto e certamente, in quella calma piatta, costituiva un buon motivo di discussione qualche volta anche vivace. Un giorno, considerando che non ci veniva cucinata mai la pasta, venimmo a sapere che gli americani non l’avevano mai fornita e che al suo posto vi erano ammonticchiati nel deposito delle cucine sacchi e sacchi di farina. Era un ben di Dio che minacciava di perdersi inutilmente a causa dell’ignavia di coloro che avrebbero dovuto lavorarla. I cucinieri si scusarono che erano troppo pochi per provvedere a lavorare la farina per convertirla in pasta e così un bel numero di volontari ufficiali, più numerosi di quanti ne occorressero, si offrirono volontari per quella nobile incombenza.
Lavorarono per più di quindici giorni ma non riuscirono a fare la quantità necessaria per offrirla in modo esauriente a tutta la comunità. Cominciò a circolare nel campo l’idea che, come era accaduto a Penelope tanti secoli prima con la tela, si consumassero gnocchi più di quanti se ne producesse e la cosa sembrava comprensibilissima a causa della fame arretrata che ciascun volontario aveva accumulata prima di mettersi al lavoro. Ma un bel giorno venne il fatidico annunzio: la domenica successiva avremmo mangiato oltre al resto anche gli gnocchi “ fatti in casa”.
L’aspettativa si tramutò in grande delusione quando ciascuno di noi, passando a prendere la propria razione, si accorse che gli gnocchi, nella gavetta, si potevano contare a vista. C’era da aspettarselo, ma non si poteva prevedere che alcuni di coloro che erano stati preposti alla sorveglianza della produzione uscissero dalle cucine con una gavetta perfettamente coperta ed altrettanto piena di gnocchi
Accadde un putiferio: coloro che si erano abbuffati per tanto tempo furono cambiati con un numero uguale di volontari. Pur essendo ancora molto giovane e quindi non con la stessa esperienza di oggi, ebbi il buon senso di sorriderci sopra perché pensai subito che, se fossero rimasti i primi, ad un certo momento si sarebbero sentiti sazi, mentre coloro che erano subentrati non mancavano certo di buon appetito per non sentire la necessità di soddisfarla, ora che finalmente ne avevano avuto la buona occasione.
Una sera, a tarda ora accadde un fatto inatteso: si sentiva che i prigionieri presi da fortissimi dolori intestinali, corressero per quanto potevano verso le latrine per liberarsi dall’ingombro intestinale che premeva freneticamente verso il basso. Alcuni, purtroppo, non riuscivano neppure ad arrivare alle latrine per cui si liberavano dove e come potevano con un effluvio pestilenziale che si espandeva ingenerosamente verso le tende.
Che cosa era avvenuto: erano state distribuite delle scatolette di corned beef che certamente non erano perfette, come ci accorgemmo anche se con un certo ritardo. Io che avevo accettato dai miei compagni di tenda la loro razione senza chiedermi il perché della loro generosità e per soddisfare una fame arretratissima non ebbi neppure un dolorino di pancia.
Il ridicolo o il drammatico – a seconda da quale punto di vista si voglia guardare – fu che i poveri sventurati sembravano, nella corsa, dei veri canguri perché procedevano a balzelloni e con le brache in mano. Fu chiarissima la motivazione che determinò l’accaduto ma fu meno chiaro il fatto che io abbia attraversato indenne l’avventura, malgrado avessi ingollata una quantità di carne che altri non si sognarono neppure di odorare.
Altre cose accaddero, ma molto meno significative. L’ avvenimento più importante fu che, suddivisi per compagnia, partimmo dal 127° campo di concentramento.
La nostra compagnia con il numero 7109 fu subito smistata per una località non molto lontana dalla costa algerina e si iniziò subito il nostro servizio presso un campo base dove giungevano truppe dall’America e da dove dopo un brevissimo tempo di ambientamento venivano successivamente inviati sui vari fronti di guerra.
Ci fu assegnato come collegamento un graduato italo-americano che parlava benissimo la nostra lingua e che non venne mai meno al perfetto stile della comprensione e della gentilezza. Non so se gli altri gruppi furono altrettanto fortunati ma noi non potemmo mai lamentarci, anche perché la collaborazione si estese al campo sportivo, alla ricreazione in genere e con l’organizzazione di tornei si intensificarono le visite da un campo agli altri per diversi incontri di calcio o di palla a volo.
La nostra cara terra martoriata
Si era da poco aperto il fronte di Salerno con una importantissima testa di ponte in quel di Paestum, dove però gli americani trovarono subito una agguerritissima resistenza nelle truppe tedesche, che nel frattempo si erano schierate sui contrafforti naturali delle montagne che circondavano la pianura presso Salerno.
Noi conoscevamo tutte queste cose perché gli americani ci fornivamo il giornale Stars and Stripes, che noi, a nostra volta traducevamo per merito di un nostro ufficiale, che fungeva da interprete. Attraverso questo giornale noi da quel momento non perdemmo più una battuta sugli avvenimenti dei vari fronti di guerra.
Notavamo che nel campo delle truppe americane c’era un certo nervosismo per una ansia che noi già conoscevamo e che precedeva qualunque nuova intrapresa. C’era infatti nell’aria qualcosa di nuovo che tutti sentivano ma che nessuno conosceva.
Forse era per questo che i soldati si affollavano nei pressi delle nostre tende per farci delle domande che vertevano principalmente sul modo di combattere dei tedeschi, soprattutto sulle loro armi e principalmente sul loro heithy heiht cioè sul loro famosissimo “ottantotto”, cannone da ottantotto millimetri che si era dimostrato micidiale come arma anticarro, come contraerea e per ogni altro impiego a cui fosse stato chiamato per il suo uso migliore.
Noi italiani avevamo un cannone da novanta millimetri, che però nell’impiego non aveva trovato la stessa efficienza perché, per la verità, non aveva la stessa agilità sia nel movimento sia nella rapidità e nella efficacia.
Non potevamo certo spiegare loro che, per una strana coincidenza, gli americani sceglievano le zone più difficili. Vedi il caso di Paestum: è vero che avevano dinanzi a sé una pianura sulla quale poter dispiegare l’abbondanza dei propri mezzi ma è anche vero che davanti a loro c’era sempre un collo di bottiglia dal quale dovevano passare o per dove i tedeschi li costringevano a passare.
Per altro la testa di ponte conquistata con una certa facilità soprattutto con il supporto delle batterie navali che per questo risultavano micidiali, diventava ben presto un alveare di mezzi e di truppe sui quali i tedeschi non avevano grandi difficoltà per piazzare i loro colpi diabolici.
Come Dio volle i salernitani e poi i napoletani cominciarono a dare segni di insofferenza, specialmente a Napoli, dove la popolazione tutta insorse contro i tedeschi.
Non avendo più le spalle sicure, i teutonici pensarono fosse più utile cercare una nuova linea difensiva molto più a nord e lasciando finalmente libero tutto il meridione.
Cassino e le sue propaggini divennero la nuova roccaforte dei tedeschi e lì il collo di bottiglia divenne ancora più stretto. Per diversissimo tempo gli americani restarono attestati lungo le pendici del monte.
Noi, dalla prigionia, seguimmo con apprensione la decisione degli americani di superare l’ostacolo tentando di spianare la montagna, convinti, come erano che lo stesso convento di Cassino ospitasse chi sa quale numero di combattenti tedeschi.
Quando compresero che non ci sarebbero riusciti in alcun modo, si decisero a preparare una diversa testa di ponte che chiudesse Cassino in una grossa tenaglia, là dove neppure l’armata di Mongomery era riuscita a superare le propaggini del monte Conero risalendo tutta la costa adriatica.
Dopo mesi di preparazione, senza fare esperienza dallo sbarco di Salerno, gli americani si lanciarono nella impresa di Anzio, da dove si aprivano, sì, le porte per arrivare a Roma ma le trovarono chiuse da uno spiegamento impensabile di carri armati tedeschi.
La battaglia, lunghissima, e con esito sempre incerto, fu aspra, dura e sanguinosa. Alla fine prevalse il grandissimo dispiegamento di mezzi, enorme per una battaglia che avrebbe dovuto essere rapida e di semplice risoluzione. E invece finì soltanto quando i tedeschi decisero di arretrare la loro linea di difesa sugli Appennini tosco-emiliani.
Come gli americani, anche i tedeschi subirono gravissime perdite, che ormai non riuscivano più a rimpiazzare. Pertanto la prospettiva di ritirarsi divenne una necessità.
Noi, col cuore in mano, seguivamo le vicende non solo dalle informazioni che ci venivano date dal giornale americano ma soprattutto dalle apprensioni dei soldati che dovevano raggiungere quelle zone di guerra.
Fra i nostri soldati c’erano rappresentate tutte le regioni d’Italia e ognuno temeva per la propria famiglia. Si immaginava che spesso si trovassero incagliate in mezzo alle grandi battaglie senza che potessero far nulla per evitare il peggio. Le paure crescevano anche per noi in parallelo con quelle dei soldati americani che dovevano raggiungere quelle zone.
Prima che si chiudesse la linea Gotica, come seppi al mio ritorno dalla prigionia, mio fratello, il più grande, ex capitano di artiglieria era sceso fino a Pesaro dove aveva trovato rifugio presso una cugina, nipote di mia madre, che era nata proprio in quelle zone e precisamente a Fano. Proprio a Fano nascosto in una buca trascorse tutto il tempo che impiegarono i tedeschi per ritirarsi da Anzio, grazie soprattutto all’aiuto di una famiglia contadina e da mia cugina che gli procurava tutti i rifornimenti possibili.
È quasi inutile chiarire quale fosse il nostro stato d’animo, mio e di tutti coloro che non sapevano assolutamente nulla delle loro famiglie. Vi era un toscano fra i miei soldati che era più apprensivo degli altri e mon mancava di stare vicino a me per comunicare questa sua apprensione. Faceva le funzioni di attendente a me e ad un altro collega e questo lo favoriva moltissimo per raccontarmi tutto ciò che poteva raccontare sulla sua famiglia, sulla sua composizione e su quello che temeva di più.
Era un contadino, di famiglia contadina, e ne conosceva a fondo le abitudini, le tradizioni per cui non finiva mai di parlarne. Trovava poi terreno fertile con me che avevo origini contadine e conservavo nel profondo del mio animo tutto ciò che può formare una coscienza perfettamente contadina. Per questo lo ascoltavo soprattutto quando mi parlava di allevamenti: delle galline che correvano per l’aia, dei maiali che crescevano nel porcile, della mucca che forniva loro il latte anche per la formazione di formaggi che servivano al loro consumo familiare.
In modo particolare mi affascinava il racconto che univa alle dimostrazioni di come si allevavano le api. A questo punto la mia attenzione diveniva contemplazione ed assorbivo ogni sua parola come se parlasse un oracolo. Non mi facevo sfuggire un particolare e quando non ero soddisfatto cominciavo con i perché questo e perché quello e lui aveva tanta pazienza per spiegarmeli tutti. Non credo però che fosse soltanto pazienza perché qundo ne parlava vedevo che gli brillavano gli occhi, forse non solo per la commozione. Riviveva con me quello che in quel momento non gli era dato di vivere a causa della prigionia. In quegli istanti tanto per lui quanto per me gli orizzonti si allargavano oltre i reticolati e correvano su sentieri che ognuno per conto proprio aveva percorso in tempi certamente migliori.
Poi venne la totale liberazione dell’Italia e i nostri reparti costituiti per la collaborazione furono chiamati ad altra destinazione. La nostra condizione di prigionieri, anche di fatto, ebbe finalmente termine.
Addestramento per la cooperazione
La nostra compagnia, composta da un capitano, da due tenenti e tre sottotenenti ebbe, come dicevo, un numero di riconoscimento che determinò anche una nostra personalità: pertanto diventammo la 7109 cooperators company. Ancora oggi questo “seventy one o nine” mi risuona sempre nella memoria e fino a qualche tempo fa ero riuscito a conservare un tesserino che certificava quella mia appartenenza.
Dalle divise scomparvero le scritte “P.W.” e sul braccio sinistro della giacca comparve lo “stivale” stilizzato che indicava la nostra provenienza italiana. Ci furono consegnati una maschera antigas, un elmetto di acciaio ed uno di cartone pressato, quest’ultimo destinato a supportare quello pesantissimo, un fucile, una coperta imbottita, un cappotto, due coperte di lana color marrone chiaro, che ancora oggi conservo fra le reliquie della prigionia, due paia di pantaloni, un giubbotto, una giacca a vento ed altro che non ricordo più. In altri termini fummo equipaggiati come non ci saremmo mai aspettati.
Cominciammo anche l’istruzione di ordine chiuso, cosa che ci riportò ai tempi della naia dalla quale ci separavano ormai anni e anni di vita militare. Lo facemmo in buona allegria pertanto in maniera sopportabilissima, ma quello su cui si insisteva moltissimo fu l’esercitazione della salita e della discesa attraverso grandi reti di corda per superare dislivelli notevoli. Era chiaro che queste esercitazioni riguardavano lo sbarco da grandi navi su qualunque altro tipo di imbarcazione più piccola.
Quello che ci veniva più difficile da comprendere era come mai ci avessero armati con fucile a ripetizione, anche se sprovvisto di munizionamento.
Nessuno ci diede peraltro delle spiegazioni e noi non potevamo che fare voli pindarici sull’impiego a cui ci avevano destinato gli americani. Che ci volessero impiegare in operazioni armate era assolutamente escluso: forse in operazioni di sorveglianza, e questa era la cosa più probabile. Non ci sorprese poi il fatto che insieme a noi anche se un poco più distante truppe americane si esercitavano alla stessa maniera. Comunque l’ipotesi più probabile restava quella di essere impegnati in uno sbarco. Dove e come a nessuno era dato di saperlo. però quella restò la probabilità maggiore che poi risultò quella vincente.
Intanto, lo stare insieme, il condividere le stesse fatiche, l’operare a più stretto contatto aveva fatto sì che sorgesse fra di noi, ufficiali, sottufficiali e soldati di truppa, una maggiore coesione ed una maggiore comprensione reciproca che era mancata assolutamente all’inizio della prigionia, soprattutto nei plotoni dove i gruppi risultavano più omogenei e più compatti.
Intanto avevo ricevuto una ventina di lettere dalla mia famiglia: erano tante, e tutte insieme. Era proprio quello che ci mancava di più, le notizie dei nostri cari, di cui ancora molti non sapevano assolutamente niente perché appartenevano a regioni che erano state liberate da poco. I miei stavano bene e mi comunicavano che mio fratello Franco rimpatriato dall’Albania molto prima dell’armistizio e godeva di ottima salute. Non avevano ancora notizie del più grande, mio fratello Cristofaro che come avevano saputo dalla famiglia, moglie e figli, rimasti a Palermo aveva oltrepassato lo stretto di Messina ed aveva raggiunto con il suo reparto il Nord dell’Italia. Dove, in quale regione? Era una domanda alla quale non sapevano rispondere per la complicazione dell’avvenuto armistizio che aveva diviso in due l’Italia. C’era certamente motivo di grande preoccupazione che in assoluta assenza di comunicazioni si ingrandiva a dismisura.
Ci fu un momento che fra di noi si diffuse la notizia che saremmo andati in Italia visto che ormai eravamo certissimi che non saremmo rimasti in alcun modo in Africa. È inutile dire che fu una notizia shock per tutti noi ma non venne conferma da nessuna parte e perciò rimase fine a se stessa.
In quel frangente quello che ci mancava di più era la ricezione della posta, servizio che gli americani usavano con una cura particolare ma soltanto per le loro truppe ed in modo allora del tutto originale: facevano fotografie in partenza ed in arrivo per ridurre in pellicole fotografiche i sacchi e sacchi di posta che diversamente avrebbero dovuto trasportare con decine e decine di aerei. In questo modo velocizzavano anche il servizio, perchè non volevano che si perdesse mai il contatto fra i loro soldati e le loro famiglie.
M a r s i g l i a
Sbarcammo con il sistema che ci avevano fatto provare centinaia di volte e cioè con le grandi reti che pendevano dalle fiancate delle navi e che portavano sui mezzi da sbarco più agili nei movimenti ed attrezzati per giungere direttamente sulle spiagge basse dove bastava abbattere le paratie anteriori per consentire ai soldati di mettere piede a terra.
Non fu cosa molto facile sbarcare perché il porto di Marsiglia era quasi impercorribile almeno dai mezzi navali più grandi perché ne impedivano il passaggio decine e decine di fumaioli che spuntavano dalla superficie dell’acqua come funghi mai raccolti. Era uno spettacolo impressionante soprattutto per il numero di ciminiere che indicavano con una certa verosimiglianza il numero di navi affondate, probabilmente dai tedeschi prima di abbandonare la base portuale che avrebbe dovuto servire da base logistica alla testa di ponte americana. Noi infatti per poter giungere a riva fummo costretti a fare un percorso molto simile ad una difficilissima gimcana, ma alla fine toccammo la fatidica terra.
Come eravamo giunti fin lì? Lasciammo l’Africa all’improvviso per un ordine preciso: ci caricarono sui camion e via dal campo di addestramento fino al porto di Algeri. Fummo imbarcati su una nave Liberty e in un convoglio composto da sei navi partimmo per la Francia.
Noi non sapevamo quale fosse la nostra destinazione ma non fu difficile capirlo da qualche indiscrezione colta a volo dall’equipaggio americano che trovammo, ormai, molto disponibile al dialogo.
Il viaggio non fu semplice, perché il Mediterraneo in quella occasione non fu molto generoso e in modo particolare quando entrammo nel golfo del Leone. Il mare era da burrasca e le navi danzavano come fuscelli, per cui spessissimo non riuscivamo a vedere la seconda nave del convoglio perché sembrava inghiottita da una voragine aperta nell’acqua profonda. Successivamente tornavamo a vederla soltanto in cima ad una muraglia di acqua che sembrava una immensa montagna.
Molti di noi cominciarono a soffrire il mal di mare e li vedevi come spettri scivolare silenziosi verso le paratie e da lì svuotare il sacco dopo orrende convulsioni. Io non ne soffrii molto, tranne che per uno stato di nausea che non riuscivo a smaltire ma che mi dava insieme un senso di squilibrio dovuto anche alle pendenze alternate, di qua o di là, della nave in sospensione ora in cima all’onda ora nel profondo abisso della stessa.
Dal comando della nave ci giungevano numerosi consigli sul come comportarci, sulla necessità di mangiare, escludendo bibite di qualsiasi genere, per avere sempre nello stomaco qualcosa da poter rimettere. In seguito, cambiando rotta e finalmente tagliando la direzione delle onde, subimmo soltanto uno dei malesseri principali ed il disagio diminuì considerevolmente, ma quando questo accadde eravamo quasi giunti a destinazione.
Toccammo finalmente terra: non era certamente l’Italia, ma ormai eravamo molto vicini alla nostra Patria. Ne sentivamo l’odore ed era inebriante, le nostre condizioni giuridiche erano cambiate ed il pensiero del futuro cominciava ad essere meno pessimista anche perché, in definitiva, le sorti della guerra si delineavano con contorni meno foschi e più prossime alla fine.
Eravamo quasi sereni, ma non lo erano i nostri cugini francesi che cominciarono a starnazzare come polli spennati quando ci videro sbarcare con le armi. Certamente non potevano sapere che senza munizionamento non avremmo potuto usarle neppure per fare le bolle di sapone! I francesi non potevano dimenticare che gli italiani li avevano colpiti alle spalle quando stavano esercitando il loro sforzo maggiore contro la Germania e pertanto fecero di tutto perché fossimo disarmati. Ottennero quello che desideravano, e per noi fu un vero piacere esserci liberati da un fastidioso oggetto da portare a spasso solo per l’apparenza.
Così, dopo alcuni giorni di sosta nelle vicinanze di Marsiglia partimmo per altra destinazione. Tuttavia fu una parentesi piacevole, visto che un gruppetto di noi ebbe modo di incontrare famiglie italiane che si erano stabilite in quella zona e che ci accolsero con grandissima gioia. Fu come se fossimo in terra italiana e finalmente ci sentimmo veramente felici.
Ricordo ancora come in una di quelle sere ci offrirono una cena a base di coniglio cotto all’agrodolce e fu veramente una festa: non mangiavamo in quel modo da secoli, almeno così ci sembrava, e sentimmo l’odore ed il sapore delle nostre famiglie. Il calore con cui fummo accolti è rimasto impresso nella mia mente e nel mio cuore in maniera indelebile, tanto è vero che ricordo il particolare più di quanto non abbia potuto archiviare nella memoria tanti altri particolari che, forse, avrebbero potuto essere almeno citati in questo mio breve racconto.
Ci spostammo sulle rive del lago de Berre posto fra Marsiglia e Aix-en-Provence, e lì cominciammo a lavorare come negri. Certamente gli americani non ci avevano portati fin là per farci godere le bellezze della zona e neppure per farci riposare: eravamo collaboratori e come collaboratori fummo impegnati.
Il mio plotone fu impiegato come se fossimo degli specialisti nello smistamento del materiale. Qui ebbi la precisa idea della potenza dell’America sia per l’organizzazione bellica sia per la grandiosità dei materiali impiegati.
Il nostro compito fu molto semplice: disposti ai lati di un lunghissimo rullo su cui scorrevano tutte le specialità di manufatti che potevano essere utili in una guerra. Disposti in prossimità di deviazioni con rulli secondari ogni uomo doveva captare il materiale a lui assegnato e portarlo sul rullo che gli competeva. Questo succedeva per decine e decine di deviazioni al cui termine prendevano il materiale selezionato e lo disponevano in grossissime pile che si alzavano a vista d’occhio.
Il tutto veniva alimentato senza soste da camion e mezzi anfibi che scaricavano i manufatti che avevano preso direttamente dalle navi da trasporto.
Non era un lavoro massacrante ma massacrante era il turno di lavoro che per il mio reparto andava dalle diciannove alle ore sette del mattino, con un’ora di intervallo dalle ventitre alla ventiquattro. In quel lasso di tempo potevamo sorbire una tazza di caffè all’americana che serviva solo per scaldarci.Quando poi l’inverno fece sentire i suoi strali come non aveva fatto per decine e decine di anni nel passato, il caffè non servì neppure per questo, perché bastava il tempo per andare dal prelievo alla bocca per essere di già freddo: il gelo fu tanto intenso che alla sera al cadere del sole le pozzanghere diventavano di ghiaccio.
Un giorno alla settimana potevamo andare in permesso perché di riposo e molti di noi, compreso il sottoscritto, usarono quel giorno solo per riposare: effettivamente ce n’era bisogno. Io dormivo sotto una tendina singola che avevo ampliata scavando un fossato al di sotto del livello del terreno che mi consentiva almeno di stare in piedi. Il soldato addetto alla mia persona mi costruì un lettuccio di tavole e con l’aiuto di molta paglia riuscì a combinare un buon letto per dormire decentemente. Gli americani ci fornirono anche una piccola trapunta che fu veramente la salvezza.
La notte fra la vigilia e Natale nevicò abbondantemente ma io non ebbi la possibilità di godermi né la neve né la festa perché ero molto turbato dalla nostalgia e dal pensiero costante della famiglia.
Rognac (Marsiglia)
I mesi invernali non erano affatto adatti a conoscere il paese anche se a me era del tutto indifferente conoscerlo: il mio animo non era disposto a curiosare per le strade che fra l’altro sembravano deserte, in parte perché le temperature erano bassissime, e di gente per le vie se ne vedeva ben poca. Per altro non credo che gli abitanti del paese avessero una gran voglia di conoscerci e preferivano restarsene ben tappati in casa piuttosto che venire a curiosare nei pressi dell’accampamento. E poi io nei miei giorni di riposo preferivo riposare veramente perché l’impegno era fortissimo e non si poteva fare diversamente, non per coercizione, perché questa non esisteva, ma perché in quelle ore notturne si faceva di tutto per non restare inattivi.
Noi ufficiali, non avevamo l’obbligo di lavorare e il nostro intervento si limitava a vedere il da farsi e quindi farlo eseguire dai propri soldati. Ma io lavoravo insieme a loro, non certo per conquistarmi la loro simpatia – quella me l’ero conquistata per ben altri motivi – ma per disperazione in quel freddo intensissimo che non ti consentiva di star fermo per qualche attimo senza correre il rischio di congelarti. Le ore più difficili erano proprio quelle che precedevano il sorgere del sole: in quei momenti la temperatura si abbassava in modo pauroso e non bastava neppure il ricorrere al lavoro intenso per potersi tenere caldi.
Quando poi i rifornimenti dal mare cominciarono a diminuire e l’attività divenne meno frenetica il mio reparto venne adibito ad altro incarico: fummo addetti al caricamento dei treni che si fermavano dentro il campo di lavoro. Ci consegnavano un elenco di materiale da caricare su un carro merci e noi provvedevamo, quasi in maniera autonoma, a portare a termine il lavoro.
Vista la rapidità del lavoro che portavamo a buon fine prima del previsto, cominciai a chiedere di rientrare non appena avevamo completato quello assegnatoci. In questo modo ci eravamo conquistata la stima degli ufficiali americani addetti all’ufficio, che non mancarono di premiarci permettendo che andassimo a letto prima dell’orario stabilito, con grande gioia dei miei soldati e mia. Io credo che i condannati di Dante nel girone dell’Inferno sprofondati nel ghiaccio perenne soffrissero il freddo molto meno di noi.
Poi gli americani si fecero più furbi e cominciarono ad aumentare il numero dei carichi, prima due, poi tre ed infine, quando si accorsero che anche a quelle condizioni noi portavamo avanti il nostro lavoro, decisero di privilegiarci spontaneamente senza aspettare che noi glielo chiedessimo.
Qualche notte non c’era alcun lavoro da portare a termine e per evitare che sostassimo per molto tempo fra le cataste di viveri senza far niente e quindi a cercare di provvedere a rifocillarci senza averne il permesso, ci portavano in uno spazio sorvegliato dove restavamo fermi a tremare dal freddo.
Di tanto in tanto per qualche lavoro straordinario venivano direttamente da me per chiedermi di farlo ed io acconsentivo a patto che, finito il lavoro, potessimo tornare al campo per dormire. Era un compromesso che andava bene per noi e per loro, per cui ci capitò spessissimo di combinare il baratto.
In quel periodo accadde un fatto che fece tremare gli americani. Tremavano veramente e non solo per il freddo: certamente le Ardenne erano molto lontane, ma la grande battaglia che vi si consumò fu enorme e tremenda.
Ci fu proibito persino di accendere fuochi che ci consentissero di riscaldarci per timore che gli aerei tedeschi potessero individuarci per mezzo di quelle insolite luci. E pertanto i nostri baratti ci servirono ancora di più.
La notizia che i tedeschi avevano sfondato il fronte degli alleati e che stavano sciamando in tutte le direzioni con le loro divisioni corazzate non turbò soltanto gli americani. Eravamo preoccupati anche noi che conoscevamo quasi perfettamente la determinazione dei tedeschi e la loro velocità di esecuzione dei piani di battaglia prestabiliti.
Le Ardenne fecero drizzare i capelli a tanti americani e solo in virtù delle forze aeree fu possibile evitare il peggio. Comunque fu una batosta dalla quale si riebbero dopo molto tempo e con enorme sacrificio di vittime e consumo di materiali caduti in grandissima parte in mano ai tedeschi, che però non ebbero il tempo di utilizzarli come avrebbero voluto.
Poi, finalmente venne il bel tempo e gli aerei americani cominciarono a prendere il sopravvento scaricando sui mezzi corazzati tedeschi migliaia e migliaia di tonnellate di bombe. Dapprima la virulenza dell’attacco diminuì di molto, poi si fermò del tutto: la grande battaglia delle Ardenne ebbe termine e, dico la verità, respirammo tutti, noi insieme agli americani.
Purtroppo anche con il miglioramento del tempo, anzi forse a causa di questo, il freddo non accennò a finire e noi avemmo il privilegio di goderci l’inverno più gelido degli ultimi cinquanta anni.
Il lavoro continuò ad essere intenso per molto tempo ancora, poi cambiammo turno passando dalle ore notturne a quelle diurne e, grazie a Dio, venne la primavera, quella vera, con il tepore della temperatura, con il verde dei prati, con le distese di fiori che intessevano di colori straordinari i dintorni del lago. Mai avevo, nella mia vita, apprezzato tanto l’avvento di una stagione così bella, ed io non avendo più bisogno di riscaldarmi con il lavoro potevo, una volta date tutte le disposizioni possibili, ricrearmi ai generosi raggi di sole.
Ritornavo finalmente alla vita, come tutti gli altri esseri del creato, come in uno stato di beatitudine. Il tempo delle marce forzate, della sete, della fame, delle terribili ore di paurosa solitudine era ormai lontanissimo, dietro alle spalle. Il ricordo dello sbarco degli alleati sulle coste della marina di Ragusa, il lancio oscuro e terribile dei paracadutisti, la parossistica attesa di uno scontro inevitabile, la lunghissima serie di tappe di un percorso imprevedibile lungo tutto un viaggio fatto di umiliazione e di collassi psicologici per una situazione giuridica che di fatto che non riuscivo a digerire in nessun modo, non esistevano più nella mia memoria.
Esistevamo soltanto i tepori della primavera, i fiori che sbocciavano sul tappeto verde dei prati, la grande speranza della non più lontana fine delle tribolazioni. Tutto diceva che la guerra sarebbe finita presto, mentre le armate anglo-americane e quelle russe dall’altra parte dell’Europa dilagavano da est e da ovest su tutto il territorio tedesco ridotto in un’unica rovina e su un popolo distrutto fin nel più profondo dell’animo, caduto ormai dal più alto vertice della gloria alle più infime situazioni di miseria. Purtroppo la vita è così fatta.
A Rognac, però non ci fermammo per molto ancora e non andammo purtroppo verso est, verso l’Italia, ma fummo avviati verso una meta molto a nord ai confini della Renania, verso Strasburgo. Turisti per forza, potemmo goderci le bellezze della valle del Rodano che risalimmo fino a Lione e poi attraverso sterminate foreste giungemmo nelle verdi vallate di Epinal, nei Vosges.
Epinal
Per giungervi avevamo attraversato in treno una immensa regione di conifere che sembravano essere le propaggini della Selva Nera sulle rive di un fiume non molto ampio, perché vicino alle sorgenti, ma molto bello per le straordinarie sinuosità che aggiungevano splendore e bellezza ad un paesaggio già di per se stesso magnifico.
Forse era ancora l’effetto della primavera e soprattutto la fine dei mesi invernali che avevano pesato oltre ogni dire sul mio fisico e sul mio morale. Era come se avessi ripreso a vivere dopo un intorpidimento durato mesi e mesi.
Ricordo come in una di quelle notti in cui il gelo si faceva sentire di più mi colse un fortissimo mal di testa che mi costrinse a chiedere il permesso di tornare nell’accampamento. Avevo appena percorso il tragitto per uscire dal campo di lavoro quando nell’abbassarmi per evitare la traversa che serviva da entrata e da uscita non calcolai bene la distanza ed andai a sbattere violentemente con il capo sulla traversa stessa. Per un attimo mi sembrò di perdere l’equilibrio ma quando mi ripresi dalla botta tremenda il dolore di testa mi era passato. L’inevitabile afflusso di sangue che giunse repentinamente alla testa neutralizzò di colpo il gelo che aveva provocato il dolore.
Ormai non era più il caso di tornare al lavoro e così potei riposare tranquillamente senza neppure la preoccupazione per le ragioni che avevano potuto provocare il malessere. Per una volta tanto senza volerlo ero riuscito a farla franca.
Fummo accantonati in una vecchia fabbrica tessile su una collina, che sembrava cullarsi fra le braccia del fiume Mosella che la circondava per tre quarti della sua estensione. Eravamo peraltro circondati da alberi quasi centenari che ombreggiavano la zona oltre il necessario perché aggiungeva umidità all’umidità, un poco per l’altitudine, un poco per il gran verde che ci circondava. Fu quella la prima volta che ci fu data la possibilità di dormire fra quattro mura ma non potemmo usufruire di brandine anche se fatte molto, ma molto artigianalmente.
La sera, dopo le ore stabilite per il lavoro, potevamo andare in libera uscita e come dei buoni Italiani cominciammo a guardarci intorno e non solo per ammirare i dintorni. Io ero solito scendere per viottoli fino alla villa del comune dopo avere attraversato un ponte e sostavo volentieri su una panchina da cui era possibile godere di un paesaggio da cartolina. Mi ci fermavo anche per pensare e per meditare sul lavoro per il quale eravamo stati scelti e che non mi piaceva affatto: i soldati dovevano dipingere di bianco delle croci e segnarvi con uno spry adatto dei nomi e dei numeri di matricola. Servivano purtroppo per distinguere le tombe dei militari caduti, alla cui sepoltura provvedevano gli stessi nostri uomini.
Io non volli più farlo e chiesi al mio comandante di compagnia che mi cambiasse l’incarico e. poiché fino a quel momento non avevo mai discusso e mi ero sobbarcato ad oneri spesso pesantissimi, fui accontentato e divenni così il provost marshall della zona.
Che cos’era il provost marshall? Era una specie di sceriffo, per intenderci meglio, che sovrintendeva ad una specie di carcere dove venivano rinchiusi coloro che erano accusati di qualcosa. Naturalmente per gli americani la cosa era più grave perché i soggetti ad un giudizio di tempo di guerra permanevano nel carcere solo di passaggio, ma la disciplina alla quale erano sottoposti era veramente ferrea, quasi guardati a vista, sia per colpevolezze lievi sia per quelle più gravi.
Cercai di fare quello che ritenevo mio dovere fare. Dividevo il mio tempo con l’incarico di provvedere al prelevamento delle derrate necessarie alla cucina.
Condividevo quest’ultima incombenza con un sottufficiale molto sveglio che pensava a tutto. Poco più tardi compresi anche che tale sollecitudine che gli consentiva una certa importanza nelle relazioni con il pubblico. Sapeva arrangiarsi e lo faceva tanto bene da non lasciare traccia alcuna se non all’intuito di chi gli stava vicino. È necessario però aggiungere che lo faceva anche per il reparto, alla cucina del quale faceva pervenire più materiale di quanto non fosse prescritto. Tuttavia non lo colsi mai in fallo e non potrei mettere la mano sul fuoco sulla sua colpevolezza che, diciamoci pure la verità, in quelle condizioni ed in quello stato giuridico, non avrebbe potuto essere definito ladrocinio, almeno a guardarlo dalla nostra parte.
Per contro, quando eravamo a Rognac nello smistamento dei materiali che sbarcavano dalle navi anch’io avevo fatto la mia parte con il portar via dal deposito cassette di sigarette che gli americani custodivano con eccessiva attenzione, visto che a guardare le grandi pile di quelle cassette c’era un bel numero di Marocchini armati fino a denti.
Debbo dire la verità: un poco a mia discolpa, in quelle condizioni non si poteva parlare di ladrocinio perché occorreva una abilità straordinaria per farla in barba alle sentinelle che stavano lì, quasi con gli occhi sbarrati per evitare di essere fatti fessi. Si trattava appunto di questo, cioè di saper farli fessi senza che se ne accorgessero, usando una rapidità ed una destrezza che non era di tutti perché occorreva aggiungervi anche una buona dose di intelligenza e di tempestività. Non potevi assolutamente sbagliare se non volevi essere infilzato da quelle lunghissime baionettone, che in quell’occasione sembravano ancora più lunghe.
Oggi, ripensando a quelle cose mi viene da ridere, ma solo un giovane di ventitré anni poteva azzardarsi a fare quello che rischiavo. Una volta quando, avendo calcolato tutto compreso il tempo che occorreva alla sentinella per percorrere tutto il giro, mi lanciai come una catapulta per carpire la mia preda, in quello stesso istante percepii che la sentinella era tornata indietro per cui dovetti frenare il mio slancio con una stretta ai freni e chinarmi per fingere di allacciarmi le scarpe. Non potei verificare se la sentinella avesse sospettato qualcosa, ma il mio movimento non era stato del tutto naturale e penso di aver lasciato in lei un qualche sospetto ed io non tentai più l’avventura: sarebbe stato come voler sfidare ad ogni costo la fortuna.
In fin dei conti avevo già dimostrato a me stesso ed agli altri che, volendo, lo potevo e lo sapevo fare. Ero peraltro convinto che per ottenere il rispetto di coloro che mi attorniavano occorreva fare anche quello, dimostrando non solo destrezza ma anche un gran pizzico di coraggio. Il risultato mi sembrò evidente quando in tempi di ricusazioni varie i miei soldati non discussero mai quello che suggerivo di fare, non che comandavo di fare.
Ci furono anche altre occasioni per ottenere il rispetto e la fiducia dei miei uomini ed ormai, qualunque cosa facessi per loro andava sempre bene, soprattutto quando avevo a che dire con i coordinatori americani: mi facevo sentire anche a voce alta quando si permettevano di scavalcarmi e andavano a dare ordini direttamente ai miei soldati senza passare per il mio benestare. In effetti era del tutto inutile che lo facessero, perché i soldati non si muovevano affatto, se non dopo i miei ordini. Erano piccoli episodi che servivano ad aumentare il mio prestigio, ma per me non erano affatto piccoli, soprattutto per l’effetto che determinavano.
Comunque ad Epinal avevamo ottenuto una indipendenza che non si sarebbe potuto pensare per prigionieri di guerra, sia pure nelle vesti assolutamente nuove di collaboratori. Cominciammo anche ad organizzare feste di ballo alle quali partecipavano moltissime persone, così tante che gli stessi americani ci invidiavano fino a quando smisero essi stessi di organizzare le loro feste e vennero a partecipare alle nostre. Non mancarono inghippi, perché qualche americano dimenticava di essere lì in veste di ospite e pretendeva precedenze che regolarmente non otteneva.
Fu anche per me un particolare momento di tregua per le mie preoccupazioni di carattere psicologico: non era del tutto estraneo a quel miglioramento la speranza che la guerra cominciasse a mostrare la via della fine.
I tedeschi avevano subito una disfatta che non si sarebbero mai potuti sognare, il Giappone resisteva ancora, ma le sue conquiste stavano per cadere ad una ad una nelle mani degli americani sia pure con perdite enormi in uomini e materiali. Si aggiungeva il fatto che ci pervenivano notizie più dettagliate sulle condizioni dell’Italia e degli Italiani che miglioravano ogni giorno di più in forza della loro volontà di risollevarsi dalle grandi distruzioni che li avevano prostrati più di quanto non si potesse pensare.
Ci giungeva notizia che un certo signor De Gasperi stava guidando l’Italia nel miglior modo possibile. Anche da questo punto di vista le cose stavano prendendo il verso giusto: si allontanava dalle nostre menti il pensiero che tornando in patria potessimo assistere al più tremendo degli spettacoli con una Italia assolutamente prostrata e nelle condizioni di non aver più neppure la speranza di risollevarsi.
Fu purtroppo il mio fisico che cominciò a dare segni di stanchezza. Le mie gambe e la mia schiena cominciarono a non reggermi più e il medico dell’infermeria si espresse su una prognosi di fortissima forma di artrosi lombo-sacrale con ripercussione sul nervo sciatico di entrambi le gambe. Mi prescrisse una cura con sei pasticche di aspirina al giorno che, sì, mi fece passare i dolori, ma mi procurò una forma di gastrite acuta che non riuscii mai ad eliminare.
Di notte ricaddi negli incubi più disastrosi che sconvolgevano i miei sonni, facendomi attorcigliare nel lettino per tutto quello che la mia psiche mi somministrava, facendomi immaginare cose del tutto impossibili ma che mi costringevano a non poter dormire. Riaffiorava nelle mia mente tutto ciò che di più doloroso avevo sofferto.
L’Africa divenne il mio incubo più ripetuto con la sua sabbia, i suoi reticolati, il suo insopportabile calore, con il confondersi di treni pestilenziali con il loro insopportabile fetore animalesco, la fame mista alla mia straordinaria debolezza fisica e mentale, la mia solitudine, sì, la mia solitudine che non mancava anche allora di tormentarmi, facendomi sentire ancora più solo nella sofferenza che nessuno avrebbe potuto dividere con me.
Durante la notte, quando gli spasmi superavano ogni aspettativa e mi costringevano a balzare fuori dal letto per correre al bagno e non riuscivo a camminare dritto dovendomi curvare fino a toccare con le mani il terreno per l’impressione che si aggiungeva al dolore di non potere mantenere l’equilibrio. Il dottore mi dette dei calmanti ma questi si insinuarono torbidi e perversi nella mia mente accrescendo e moltiplicando le differenze fra la calma ed il disastro determinato dagli incubi.
Non credo di poter definire stranamente avvertite tutte le situazioni dolorose che si confondevano in un miscuglio di realtà vissuta e fantasia alterata. Fu certamente un difficile momento che durò a lungo, tanto che ancora oggi ne patisco le conseguenze. Sembrava che non avesse avuto conseguenze il fatto di aver dormito per decine e decine di giorni su terreno bagnato, di aver assorbito tutta l’umidità possibile in quelle notti caratterizzate da un freddo quasi impossibile a sopportarsi dopo giornate di calore infernale, e tutto senza alcuna protezione, e invece cominciavo a pagarne lo scotto.
Erano i giorni in cui la mia solitudine si accentuava e non sostenevo il pensiero del futuro che non aveva sfogo alcuno perché privo assolutamente di speranza.
Come se non bastasse, si aggiunse un fortissimo dolore di denti che mi costrinse a chiedere l’aiuto dello specialista. E qui a merito degli americani non posso fare a meno di ricordare che non ci pensarono due volte a mandarmi con un camion e l’ausilio di un infermiere nella città di Strasburgo, dove c’era di stanza uno studio di ufficiali medici specialisti che ti curavano senza neppure chiedersi di che nazionalità fosse il malato e con tutti i mezzi a disposizione. Feci questi viaggi per un mese di seguito fino a quando la mia dentatura fu considerata perfettamente a posto.
Fu in questi frangenti che il Giappone si arrese incondizionatamente in seguito al lancio delle due bombe atomiche su due città giapponesi. Confesso che non pensai né alle vittime né ai disastri causati dalle due terribili esplosioni atomiche, pensai solo che si stava avvicinando il momento del ritorno in patria, anche se nel mio subcosciente non riuscivo ad essere contento più di tanto.
Pensavo egoisticamente che i giapponesi avevano avuto due grandi città eliminate dalla carta geografica ma che l’Italia aveva subito come il passaggio di un rullo compressore gigantesco che aveva portate tutte le nostre città, dal sud più profondo al nord più elevato delle Alpi, alla prostrazione ed alla distruzione quasi totale.
Non potevo certo essere felice di tutto questo e il pensiero del ritorno possibile, mi rendeva sempre più ansioso sempre più insofferente tanto che non riuscivo più ad andare d’accordo con quei miei compagni con i quali fino a quel momento avevo diviso momenti difficili, sempre più difficili.
Il desiderio della famiglia diventava di giorno in giorno sempre più insopprimibile e la smania di quei giorni rendeva ancora più dolorosa la sopportazione degli incubi notturni che non mi lasciavano tregua alcuna.
Quell’angolo di Francia era bellissimo ma non aveva niente a che vedere con la mia Sicilia ancorché riarsa dal sole ed il pensiero della mia famiglia mi rendeva estranei tutti, indistintamente tutti coloro con i quali , per poco o per molto, avevo a che fare.
Un bel giorno si aggiunse il fatto che avendo voluto vedere un film sulla sistematica distruzione degli Ebrei in Germania, esterrefatti per quello che avevamo visto senza minimamente aver immaginato prima che ciò fosse stato possibile fummo assaliti da forsennati francesi che naturalmente ci consideravano complici di tanto misfatto. Ci fu una specie di caccia all’italiano per le vie della città e durò finché noi non avemmo la precisa percezione di ciò che stava accadendo e quindi facemmo quel che potevamo fare e cioè ritornare all’accantonamento non senza aver restituito pan per focaccia ciò che stavamo subendo.
Forse i francesi avevano tutte le ragioni possibili ma noi eravamo rimasti storditi alla pari per quello che avevamo visto e non pensavamo mai e poi mai che una cosa del genere potesse essere realmente accaduta.
Gli americani ci consegnarono in caserma per più di una settimana e ci proibirono di uscire per la città ma i paracadutisti americani di stanza ad Epinal, quasi tutti italo-americani, partirono alla contro offensiva e fecero un po’ di paura a tutti i cittadini fino a che le acque sembrarono acquietarsi.
Io non volli più andare fuori, ma non per paura – infatti bastava non uscire da soli – ma perché qualunque tipo di compagnia mi dava fastidio.
Il nostro reparto dopo qualche tempo non ebbe più incarichi di sorta pertanto restammo inattivi ma stranamente e, forse neppure tanto stranamente, più ansiosi ed io molto più di ogni altro. Avevo molto tempo per pensare e, come sempre accade in queste occasioni, il pensiero ripercorre le vecchie strade e soprattutto quelle più sofferte che avevano scavato nel mio animo un solco che certamente non si sarebbe mai più cancellato dalla memoria.
Non erano state tanto le paure quanto le incertezze che avevano dominato il mio animo tutte le volte che occorreva prendere decisioni di cui non potevi prevedere l’effetto e delle quali avrei dovuto rispondere responsabilmente.Certamente ne venivo fuori ma dopo quali sofferenze dopo quali contorcimenti e tentennamenti, che non solo non potevi esternare ma che dovevi necessariamente nascondere a chi soprattutto guardava il mio viso per leggervi ancor prima che decidessi in un certo modo che cosa passava per il mio cervello.
Parlo naturalmente dei miei soldati quando correvamo a destra ed a sinistra nella ricerca di paracadutisti: la loro sicurezza dipendeva dalla mia sicurezza e le loro paure sarebbero state determinate dalle espressioni dubbiose del mio viso. Non ebbi mai occasione di leggere dei dubbi sui loro visi e questo mi faceva pensare che i miei atteggiamenti erano chiaramente dettati dalla sicurezza delle decisioni o per lo meno che non esistevano alternative che potessero lasciare incertezze. Ma, parliamoci chiaro, io i miei dubbi ce li avevo, eccome, e le viscere in quei momenti si torcevano come panni da strizzare. Il problema era di non mostrarli, di non farli avvertire in alcun modo.
Non potevi neppure alzare gli occhi al cielo perché sarebbe stato, anche quello, un modo per fare impensierire chiunque. In quelle occasioni anche le superstizioni si inserivano prepotentemente come serpenti velenosi per accrescere il dubbio e l’incertezza. Mi accadde che, dopo la notte dello sbarco degli americani sulle spiagge di Marina di Ragusa, in una piccola pausa in cui il reparto poté rifocillarsi, io, rifiutando il cibo, impegnai il mio tempo a radermi la barbetta che avevo voluto farmi crescere in attesa di andare a casa in licenza. Considerai quella barbetta come portatrice di sfortuna e per un incomprensibile atto scaramantico me la tolsi del tutto. Oggi mi viene da ridere, ma allora… Ancora non so che cosa mi fosse accaduto e non trovo giustificazioni razionali.
Insomma, in ogni decisione che dovessi rendere non avevo controparte con cui consultarmi e la responsabilità erano eccessive per un giovane sottotenente che doveva decidere da solo. L’autonomia era stata un cosa bellissima ma in quei momenti sarebbe stato preferibile che le decisioni, quelle importanti che dovevano decidere della tua vita e di quella dei tuoi dipendenti, fossero prese non dico da altri ma almeno in collaborazione con qualcuno, come accade quando i reparti non operano isolati ma in formazioni di più ampio respiro come compagnie, battaglioni o addirittura reggimenti.
In ogni modo quello che era stato era stato, e non potevano esserci più recriminazioni di alcun genere. E alla fin fine non c’era stata neppure la prova del nove per poter sapere se facendo diversamente avresti potuto ottenere risultati diversi e soprattutto migliori.
E così i giorni passavano uno dopo l’altro senza poter sapere o comunque intravedere quello che sarebbe accaduto di lì a poco o di lì a molto. Purtroppo non si facevano illazioni, non c’erano dicerie di alcun genere, voci che facessero pensare ad una qualunque decisione sulla nostra sorte: il reparto non era stato più impegnato in nessun genere di lavoro e soltanto io continuavo a, cosa che, debbo dire la verità, non mi piaceva affatto. Avevo scelto quel compito soltanto per sottrarmi ad un lavoro ancora più ingrato, quello di provvedere alla sepoltura dei morti.
In quel frangente avevo avuto modo di assistere a sistemi punitivi che non sembravano pesanti dal punto di vista fisico ma che dal punto di vista psicologico erano quanto mai mortificanti e le umiliazioni non erano indifferenti fino al quasi annullamento della personalità.
Per gli americani le punizioni non comportavano differenze fra soldati semplici e graduati o addirittura ufficiali. Stavano tutti insieme in recinti di filo spinato guardati a vista da personale armato fino ai denti ed impegnati in un lavoro che io consideravo non solo mortificante ma addirittura alienante: venivano impegnati a gruppi di due o di tre a scavare fosse dalle precise dimensioni che venivano scrupolosamente controllate per la lunghezza, la larghezza e la profondità. Quando se ne provava la “congruità” si passava allo scavo di un’altra fossa , nelle immediate vicinanze, con le stesse misure e con la stessa animosità, per cui non era possibile fermarsi per un attimo di riposo, e questo per una intera giornata.
La futilità di questo lavoro e quindi la mortificante inutilità era determinata dal fatto che la risulta dello scavo di una fossa serviva soltanto a riempire quella che era stata finita appena un attimo prima. Era un lavoro fine a sé stesso, una umiliazione fine a se stessa, l’annullamento di ogni diritto della persona. Era quello il caso, e credo che sia l’unico, in cui il lavoro non nobiliti né l’uomo né sé stesso. La determinazione era sottile e perfida, fino a divenire perversa.
Gli americani sono fatti così: impiegano moltissimo tempo a precisare le regole ma una volta determinate pretendono che vengano rispettate ed in questo noi Italiani per assoluto contrasto amiamo dire che fatta la legge è facile trovare l’inganno, il ché può significare che ogni legge serve soltanto per legittimare l’inganno. Non è certamente così, ma la verità non è molto lontana.
La notizia che si doveva partire giunse come un fulmine a cielo sereno. Non potemmo sapere come quando e soprattutto per dove, ma nel nostro pensiero si insinuò l’idea che stessimo per iniziare il ritorno in patria.
Non avemmo nessuna conferma ma neppure nessuna smentita. Avemmo solo l’ordine di preparare armi e bagagli per destinazione ignota. Questa destinazione ignota convalidò in noi il pensiero del rientro in patria perché, diversamente, avremmo conosciuto anche la nuova destinazione.
Verso l’Italia
L’ordine di prepararci per la partenza era atteso, ma non sapevamo per dove e, quando ci si disse che stavamo per essere rimpatriati, ci fu uno sbalordimento generale. Lo desideravamo con tutta l’anima ma non ci facevamo molte illusioni perché da questo punto di vista molte anzi moltissime erano state le volte che eravamo stati profondamente delusi. Stentavamo a crederci ed era comprensibile questo nostro stato d’animo.
Saremmo tornati veramente in patria ? Era veramente venuto il momento tanto atteso e desiderato?
Insomma, ci guardavamo in faccia l’un l’altro, ma non vi leggevi che lo stesso punto interrogativo. Era come se effettivamente lo avessimo stampato sulla fronte ben visibile ed a caratteri cubitali.
Con un pizzico di scetticismo nel cuore, cominciammo tuttavia a preparare veramente le nostre cose con una cura ed una attenzione che in altre occasioni non avevamo mai avuto. Era come se avessimo voluto fare un elenco preciso e dettagliato di tutte le cose che erano in nostro possesso.
Io, personalmente, avevo di che meravigliarmi, perché non avevo mai avuto tanto materiale, soprattutto se volevo rapportarlo al momento in cui mi sono trovato prigioniero di guerra quando per le vie polverose della Sicilia trascinavo le mie scarpe scalcagnate ed i miei pantaloni alla zuava sbrindellati e trattenuti a stento da un paio di calzettoni che non potevo tirare troppo verso l’alto per non trovarmi sprovvisto ai calcagni e che, per contro, non potevo tirare troppo verso il basso per non mostrare completamente nudi i polpacci ormai scoperti ed indifesi.
Non potevo neppure pensare al mio striminzito zainetto che serviva appena a tenere alzata la testa quel tanto necessario per non farmela andare a finire per terra quando volevo adagiarmi con l’intenzione di dormire. Non potevo neppure pensare a quello che conteneva perché non c’era assolutamente niente che potesse servirmi soprattutto in quelle condizioni in cui non avevi nulla ed avevi bisogno di tutto.
Non avevo neppure una borraccia, ragione per la quale soffrii la sete più tremenda della mia vita nel percorso da Priolo a Siracusa, dove alla fine ci imbarcammo per la Tunisia e dove, non posso fare a meno di ricordarlo, un fantaccino indiano scuro di pelle e molto simile nelle sembianze a Don Chisciotte, cercò di alleviare la mia sete con il contarmi uno ad uno gli acini di un grappolo di uva che aveva tolto dalle mani di un contadino ai margini della strada. Oggi, fra quei ricordi quello che prevale anche sulle sofferenze é la figura di quel soldatino dall’aria oltremodo severa e dai modi quanto mai generosi che addolcì ed alleviò la sofferenza indescrivibile sofferta in quel frangente per aver voluto aiutare un mio superiore ma anche compagno di sventura ancor più sofferente di me.
Comunque l’inventario delle mie cose fu attento e minuzioso anche e soprattutto perché in quel modo intendevo esorcizzare l’ansia che mi prendeva tutte le volte che non avevo niente altro da fare.
Passarono diversi giorni prima che gli americani si facessero vivi, poi, improvvisamente, come tante altre volte, ci giunse l’ordine della partenza. A ranghi compatti e zaino in spalla abbandonammo l’accantonamento per la stazione ferroviaria. In viso non traspariva alcuna emozione ma in quel tragitto neppure tanto lungo prevalse il silenzio: era una pausa fra la lunga, anzi lunghissima, speranza e, finalmente, la sua concretizzazione viva e reale.
Era anche quello un modo per esternare un sentimento rimasto inespresso per un grande spazio di tempo e che infine veniva fuori in maniera molto dignitosa. Allo scalo ferroviario vennero anche moltissime persone che non mi aspettavo di vedere, prima perché non ritenevo che potessero essere informate, poi perché escludevo che dei francesi volessero rilasciare, con quel gesto, una testimonianza ed una certificazione di amicizia, quando poi in ben altre occasioni erano stati quelli che avevano voluto umiliarci e mortificarci con atteggiamenti di vera e propria inimicizia.
Il treno partì quasi inaspettatamente, dapprima in maniera quasi insensibile poi sempre più velocemente in direzione ovest, verso punti di riferimento di gran lunga più graditi e sempre sperati.
Di quel viaggio di ritorno ricordo ben poco. Dalle parti di Lione in una grandiosa stazione di smistamento ebbi modo di vedere dei soldati russi che facevano invece il percorso inverso. Certamente venivano da diversissimi punti della Francia, dove erano stati in prigionia, e quindi avviati verso una libertà che come per noi era stata loro vietata per tanto tempo. Alcuni di loro si avvicinarono alla nostra tradotta e ci offrirono oggetti vari in cambio di moneta spicciola ed io scelsi fra i tanti oggetti una macchina fotografica a soffietto Agfa che presi in cambio di dieci franchi francesi. Come ricordo dei russi non ci fu male perché quella macchina non funzionò mai: era un bidone, diciamo meglio, per le proporzioni ridotte, un bidoncino.
Ricordo pochissimo di altro, evidentemente il mio pensiero era concentrato sul ritorno in patria di per sé e non riusciva a percepire nulla. Il grande verde dei boschi infiniti che ricordavo dal viaggio di andata verso Epinal era assolutamente scomparso perché non lo avevo più recepito come non recepii più la grande bellezza della valle del Rodano percorsa in ugual misura soltanto qualche mese prima.
Quel che ricordo riguarda solo Marsiglia e la nostra permanenza in un grande parco sito nella sua immediata periferia. Vi trascorremmo ben due o addirittura tre settimane, adesso non ricordo bene. Qui tornammo a rivivere sotto le tende ed in mezzo agli alberi. Non ci era concesso di uscire ma noi trovammo il modo di farlo saltando il grande muro di cinta, tanto per l’uscita quanto per il rientro. Del resto Marsiglia valeva ben il sacrificio e l’eventuale pericolo di una punizione che ci facesse ritardare il ritorno.
Sapevamo però che ogni giorno partivano dei reparti e per noi occorreva solo la pazienza di aspettare. Avevamo tanto atteso quel momento che quei giorni non avrebbero dovuto pesarci molto, invece non fu così, perché purtroppo quel tempo ci sembrò eterno. A complicare un poco le cose ci fu anche la mancanza delle cucine che avrebbero dovuto fornirci almeno un pasto caldo. Per tanti giorni, ma che dico, per tutti i giorni della nostra sosta in quel di Marsiglia ci furono distribuite solo ed esclusivamente patate bollite.
Qualcuno ci malignò un poco sopra, ma non credo tanto che sia stata una vera e propria malignità perché, come si disse, le patate sarebbero servite a farci sembrare un pochino più grassi, cosa che si verificò puntualmente. Non potemmo mai più verificare che la cosa fosse stata fatta di proposito o meno ma ormai non valeva la pena accertarcene.
Marsiglia mi sembrò una bellissima città e ne potei apprezzare le bellezze tutte le volte che, come un monellaccio, saltavo al di là dell’ostacolo murario. Ma quante altre bellissime città avevo conosciuto ed apprezzato nella mia straordinaria patria. Forse non le avevo ben definite come lo facevo in quei momenti in cui non potevo fare ameno di trarne un paragone ed una comparazione in parallelo. Non nascondo che in quelle considerazioni l’affetto, la nostalgia, il desiderio del ritorno facessero la loro parte , ma secondo me, non erano affatto ingenerose.
L’imbarco
Finalmente arrivò l’ordine che aspettavamo ma questa volta non per reparto ma per specifici nominativi. Ci separammo con qualche turbamento dopo tanti anni di convivenza e di condivisione di eventi non sempre lieti. Così, insieme a tanti altri che non conoscevo fummo condotti su un grande spazio del porto di Marsiglia destinato all’imbarco e qui ad uno ad uno, dopo una semplice verifica esclusivamente nominativa, fummo imbarcati su una piccola nave da trasporto che era attraccata al molo.
Non so se per effetto del molo troppo grande o per altro motivo la nave mi sembrò in proporzione piccolissima. Forse quello era l’unico mezzo di cui poteva disporre l’Italia per il nostro rientro e con questa e per questa considerazione mi si rattristò il cuore.
Il grande porto di Marsiglia era completamente sgombro da ogni materiale semi affondato come mi era apparso quando dall’Algeria eravamo stati trasferiti in quel di Francia per il nostro lavoro di collaborazione.
L’operazione di imbarco fu veramente lentissima, e quando sembrò essere finita attendemmo ancora molto prima che la nave si staccasse dal molo. Forse quello che a noi, straordinariamente ansiosi di partire, sembrava un ingiustificato ritardo era stato dedicato alle consegne da parte americana del materiale umano alle autorità italiane.
Credo che, giuridicamente da parte americana, l’imbarco fosse considerato come la fine del nostro stato di prigionia ed infatti potevamo ritenere la tolda della nave italiana come vero e proprio territorio italiano. Mi viene di fare tutti questi distinguo perché proprio in quei momenti di fastidio per la ritardata partenza mi passarono per la mente.
Poi il rollio della nave ci dette il segno della partenza ed a poco a poco il molo cominciò ad allontanarsi: eravamo ormai in un’altra realtà e la gioia purtroppo era frustrata da quella ignobile incertezza che mi aveva accompagnato per tutta la durata della prigionia e che ancora, pur in evidente contrasto con il fatto vero e reale della partenza, riusciva ad annebbiare ed a tarpare l’incipiente certezza della fine del grande martirio.
Uscendo dal porto il mare ci apparve come una immensa tavola azzurra assolutamente diverso da quando per un percorso inverso eravamo stati trasportati dall’Algeria alla Francia. Allora le immense onde del golfo del Leone ci avevano fatto temere di peggio.
Venne la notte ed il rumore dei motori ci accompagnò per tutto il tempo ma questa volta ci sembrò una musica dolce, perfettamente interpretativa del nostro animo che sembrava illanguidirsi sempre più momento dopo momento.
L’alba mi trovò perfettamente sveglio e già pronto a guardare oltre l’orizzonte le linee di una terra che purtroppo sembrava ancora lontana.
Infine, dapprima timidamente, quindi in modo più preciso e delineato, vedemmo uscire come per miracolo da una foschia sempre meno fitta l’azzurro ora debole e ora finalmente più intenso dei contorni ancora indefiniti di una terra ormai non tanto lontana. Stavamo avvicinandoci ma, ahimé, con la lentezza di una lumaca alle Bocche di Bonifacio: da una parte la Corsica e dall’altra, a destra, la Sardegna, tutte due bellissime, indiscutibilmente bellissime ma ancora lontane.
L’avvistamento, l’attraversamento e quindi il successivo allontanamento dalle Bocche di Bonifacio fu un martirio di lungaggine: solo il lento mormorio dei motori ci dava la sensazione del movimento. Forse, come succede per le macchine quando per un motivo o per un altro si fermano ci veniva il desiderio di scendere e spingerla verso la nostra terra.
Era mai possibile che la nave non lasciasse una scia visibile? Ma c’erano o no le eliche che giravano per spingerla in avanti ? Dio, com’era lenta, sembrava ferma, addirittura!
E così con l’interminabile trac, trac, trac dei motori passò un’altra nottata tra i pensieri meno assordanti del rumore delle macchine ma, indiscutibilmente più intensi e forse anche più fantasiosi, perché vagavano nel buio più assoluto di una realtà completamente sconosciuta.
Che cosa avremmo trovato in Italia? Su questo punto anche quando non volevi soffermarti la mente tornava insistentemente rimuginare mille e mille interrogativi. Poi veniva la consolazione: non poteva essere peggio di quello che in quel momento stavamo per lasciare. Eravamo allenatissimi a vivere ed a vivere a qualunque costo, anche senza cibo, senza la minima libertà, ed ancora peggio senza speranza perché senza “domani”.
Alle prime luci dell’alba, un’alba straordinariamente chiara, con qualche traccia minima di foschia, l’oriente ci apparve luminoso e sfavillante con un disegno e dei contorni inconfondibili, quelli ineguagliabili del Vesuvio con uno straccio di fumo che si levava verso l’alto come per confermare che quella sagoma era proprio la sua. Era la firma di Napoli che si dichiarava a noi come per il più grande degli amori, ricambiato dalla nostra immensa commozione e dalle lagrime che ormai senza vergogna sgorgavano copiose e scivolavano lungo le gote come per lavarle definitivamente da ogni impurità accumulata nel tempo.
Sul molo quando stavamo per prepararci a raggiungere il luogo di residenza della commissione da cui avremmo dovuto essere interrogati vidi un uomo in divisa di carabiniere che si avvicinava a gran passi: era mio fratello. Ero sorpreso e felice ed in seguito volendo sapere, ho chiesto, più e più volte, come avesse potuto essere informato del mio rientro in patria, ma non ebbi mai modo di saperlo. La risposta era un sorriso, ora ironico ora canzonatorio ma sempre straordinariamente affettuoso: la verità non la seppi mai. Era un carabiniere, di fuori per la divisa e di dentro per la grandezza del suo animo.
Era il 17 novembre del 1945 ed ero lì, incapace di parlare, di esternare qualsiasi sentimento, di esprimere quello che invece bolliva nel mio cuore in un frangente irripetibile dopo essere partito da casa il 10 giugno del 1940, un’eternità.
Appendice
Il Vesuvio
Quando l’immenso arco dell’orizzonte si rischiara per il diradarsi della foschia ed in alto il cielo si tinge di un azzurro più intenso, la visione del golfo di Napoli acquista una bellezza che nessun uomo riuscirebbe a descrivere. Ho sentito un napoletano, un napoletano “verace”, come qui si suol dire, affermare che Iddio ha voluto donare a questa regione un angolo di paradiso. Era entusiasta di questa sua terra e nel descriverla gli occhi gli si inumidivano di lagrime per l’intensa commozione, e la sua parola era tanto calda ed appassionata che anch’io me ne sentivo contagiato.
Napoli infatti è come una malattia che una volta entrata nel sangue non può essere più guarita. Chi, infatti, imprimerà nella sua memoria gli incanti e la dolcezza di questa terra con i suoi colori e con i suoi profumi non riuscirà mai a dimenticarla e si sentirà malinconico se ne sarà lontano.
Allora risuoneranno nell’animo le inimitabili melodie di Santa Lucia luntana, di ‘O sole mio, di Terra d’ammore ed in qualunque parte del mondo ci si sentirà in esilio.
Napule è bella assaie!: è l’esclamazione dei Napoletani che vogliono esprimere l’affetto per la propria città: non hanno tutti i torti, io direi che Napoli è un incanto e un sogno.
Ricordo ancora quando vi giunsi dal mare con una delle pochissime navi rimaste all’Italia dopo le insidie della guerra. Il primo lembo dell’Italia che vedevo dopo ventotto lunghissimi mesi di assenza forzata dalla Patria, era Napoli, la più bella città del mondo sul più incantevole golfo del mondo. Da allora vi sono rimasto come attratto da una forza misteriosa.
Infatti ha esercitato sul mio spirito lo stesso invito delle sirene sui naviganti. Lentamente vedevo sfilare sotto i miei occhi spalancati dalla meraviglia e col cuore palpitante per l’ansia Procida e Ischia mentre sulla destra Capri si stagliava netta con la sua sagoma inconfondibile. Il golfo splendente di sole e d’azzurro mi si offriva come la prima immagine della Patria: immagine cara ed ardentemente desiderata!
La città, qua e là lievemente velata di foschia, si mostrava bianca e luccicante per miriade di riflessi come una perla in un’immensa conchiglia marina. E su tutto sovrastava il Vesuvio con i suoi agili contorni, in compagnia dei lineamenti frastagliati del monte Somma. Lo vedevo per la prima volta dal mare e sembrava ancor più imponente col suo cono quasi perfetto. Un esile pennacchio di fumo si levava ancora verso l’alto a testimonianza di trascorsi gorgoglii di fuoco.
Oggi il fumo non c’è più e i napoletani guardano alla cima del monte con malcelato timore. Il Vesuvio non è un gigante buono e forse va tramando qualcosa nelle viscere tormentate dal fuoco: può darsi che ribolla di rabbia e che in cuor suo mediti rivincite di non si sa bene quali torti ricevuti.
Sono difficili da trattarsi questi giganti rabboniti: vogliono essere blanditi e tuttavia borbottano ingiurie che senti salire dal più profondo del petto. Malgrado ciò, malgrado il timore che incute, i napoletani gli vogliono bene e se per un caso, dotato di virtù magiche, potessi con un colpo di spugna cancellare, come da una tela fresca di colori, la sagoma del Vesuvio insorgerebbero all’unisono per riaverlo perché non possono stare senza il loro “amato” nemico. È come se da un’immensa collana di gemme togliessi quella più preziosa e pensassi di sostituirne i legami in fili d’oro con un vecchio filo di spago. Per fortuna non esiste nessun mago che possa commettere un dispetto del genere e pertanto, per l’orgoglio dei napoletani, vedremo ancora il Vesuvio al suo posto, fumante o no, ma sempre al suo posto.
Se ti inerpichi su per le sue pendici, lo spettacolo è veramente indimenticabile: hai la precisa sensazione della lotta dell’uomo per sopravvivere e delle forze incommensurabili della natura quando insorge e s’infuria. Il tormento della lava cristallizzata in un groviglio di massi che si sono accavallati l’uno sull’altro, ti pone dinanzi ad immagini da oltretomba dantesco, orrido nel colore e nella forma.
Il magma incandescente, nel solidificarsi, ha scavato qua voragini enormi, si è sollevato là in fantasmagorici torrioni di pietra e gigantesche rughe di infuocato corruccio che mostrano il nervosismo di una forza che agisce a sussulti e che non ubbidisce se non alla sua volontà di distruggere o di cambiare il volto alle cose.
Se cerchi di abbracciarne con lo sguardo l’entità, provi la sensazione del grandioso ed allora ti senti piccolo ed impotente di fronte ad una così evidente testimonianza di forza. Il biancore di qualche casa contadina, qualche ciuffo di verde qua e là incastonato nella caotica superficie della massa lavica indicano come l’uomo crede ancora nella generosità del vulcano e con una costanza ed una fiducia ammirevoli va aggrappandosi ancora alla speranza di una definitiva calma per fermare la zolla, per imprigionarla ed avvinghiarla fra le radici degli alberi.
E così sorge la prima oasi che poi si allarga e si amplia. Tu la guardi meravigliato perché, in definitiva, sai di qual miracolo si tratti: è il miracolo della volontà, della forza delle braccia, del desiderio di sopravvivere, dell’indomabile caparbietà posta nel cercare di vincere la forza disgregatrice della natura.
Così rinasce nel tuo animo la fiducia nell’uomo che è vinto e risorge, che sembra distrutto e che vedi far capolino dalle rovine con la volontà di ricostruire e di ricominciare subito, per timore che non faccia a tempo di fornire ai propri figli l’opera compiuta.
Se poi, giunto sulla costa più alta, ti volgi indietro e guardi il cielo e il mare non puoi trattenere il fiato per la meraviglia. Allora ti sovviene dell’angolo di paradiso, ti rammenti della grandiosità di Dio che ha voluto essere così generoso di bellezza e di incanto ed in cuor tuo lo ringrazi per averti concesso uno spettacolo di così grande splendore.
Fine
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