Culturain memoriam

Memorie – V parte

Certo di fare cosa gradita, pubblichiamo la quinta parte delle memorie di guerra del preside Sante Grillo, che durante il secondo conflitto mondiale, nel 1943, era Sottotenente del 454° Nucleo Antiparacadutisti di stanza a Scicli, Ragusa

Dedico questa mia piccola fatica ai miei cari lettori. Pochissimi, per la verità, ma non per questo meno cari e a … coloro che sono oggetto del mio affetto anche se non non tutti, oggi, possono percepirne il calore in questa nostra dimensione terrena.   

Sante Grillo

Tutto resta fermo

Sul fronte delle notizie si verificò proprio quello che io temevo di più: non mi fu concesso di prendere altri locali più dignitosi ed invece mi capitò fra capo e collo una rabbuffata del colonnello comandante, di quelle che difficilmente si possono dimenticare, e che mi fece ricordare che ero rimasto solo, con un reparto che conoscevo pochissimo, sufficientemente “scalcagnato” nel fisico e nella mente. Ero purtroppo lontano da tutti coloro che avrebbero potuto aiutarmi e neppure libero di prendere decisioni autonome, come, invece mi avevano assicurato.

Il reparto risultava smembrato là dove avrebbe dovuto essere unito e compatto proprio per le caratteristiche di impiego immediato in caso di necessità. Comunque dalla mia avevo per fortuna un carattere abbastanza deciso e sempre pronto ad aggirare l’ostacolo come in una buona tattica di guerra, almeno così mi avevano insegnato.

Poi il caso mi aiutò a migliorare la situazione anche se per i locali non se ne parlò più. L’occasione mi fu data da una esercitazione che mi andò benissimo contro le stesse aspettative di chi l’aveva chiesta ed organizzata. Malgrado le difficoltà logistiche fummo pronti in pochissimi momenti ed il reparto fece faville e creando nel colonnello comandante l’idea che addirittura ci fosse stata una soffiata tale da farmi trovare pronto con tutto il reparto.

La verità era che malgrado tutto ero stato, con l’ausilio del reparto scalcagnato, molto bravo ad organizzare le sequenze in tempi minimi di tutte le operazioni necessarie per attivarci in una non improbabile richiesta di impiego.

Non mancarono certo gli screzi: Il furiere, svegliato di soprassalto e non avendo servizi che soddisfacessero le sue esigenze fisiologiche, dopo aver socchiuso la porta credette di pisciare sulla strada ed invece…. bagnò gli stivali del colonnello che stava lì per origliare ed indovinare che cosa si stesse per fare.

Dette un certo fastidio anche la lettura del motto che avevamo affisso proprio sul muro dietro alla mia scrivania «Cca’ nisciuno è fesso.»

Un altro contrattempo, credo ancor più grave, fu quando il piantone uscendo di corsa  ancora nel buio per venire a chiamarmi ed a darmi notizia dell’esercitazione si imbatté in una figura non meglio identificabile che voleva saper dove andava. Allora, infastidito dal fatto che gli faceva perdere tempo e dalla volontà di mantenere segreto il tutto, rispose con estrema semplicità «E che te ne fotte?» e si buscò un sonoro ceffone che poi, grazie al mio savoir faire non fu oggetto di reclamo. È superfluo chiarire che la “figura” era proprio il colonnello.

Da quel momento le cose cominciarono a volgere per il meglio: avemmo gli elogi, elogi che furono anche trasmessi al comando di divisione, io fui finalmente invitato alla mensa degli ufficiali, mi fu permesso di completare il pieno di gasolio per l’autocarro in dotazione ed il pieno di benzina per la motocicletta Guzzi 250 in dotazione per il porta-ordini.

Io, per completare le notizie, cominciai ad essere invitato a partecipare alle visite di controllo che il colonnello faceva ai reparti sotto il suo comando. Fu una delle occasioni che mi permisero in poco tempo di conoscere la zona di territorio che era stata affidata alla mia sorveglianza in un tempo direi da record. Infatti tutte le volte che ne sentiva la necessità, il colonnello mi mandava a chiamare per poter ispezionare i vari reparti distribuiti su tutto il territorio, che andava da Marina di Ragusa a Pozzallo, dipendendo poi dal Comando della 206a Divisione costiera a cui era affidato il tratto di costa tra Cassibile e punta Braccetto.  Complessivi 132 Km: una enormità di spiaggia che avrebbe dovuto essere difesa contro l’eventualità di uno sbarco in forze degli Alleati.

Io, per la verità, non mi ponevo questi problemi: mi interessavano quelli più spiccioli, come le condizioni di vita, l’armamento, la profondità delle difese che nella realtà non esisteva  limitandosi la linea ad un primo allineamento neppure coperto del tutto e qua e là una seconda linea di copertura molto espansa e raggruppata in piccoli centri operativi con postazioni di mitragliatrici pesanti in quote diverse dalla prima.

Mi interessava moltissimo anche l’elemento umano che a prima vista lasciava moltissimo a desiderare essendo composto da elementi provenienti da varie zone di guerra ed in modo particolare dalla zona greco-albanese che avevano dovuto lasciare per condizioni fisiche  precarie in modo particolare per principio di congelamento agli arti.

Con uno sguardo più approfondito ti accorgevi che i depositi di vestiario non facevano grossi sacrifici per vestire bene i militari soprattutto per le calzature che mostravano evidenti segni di stanchezza. Molti soldati portavano ai piedi scarponi con tacchi consumati e con fasce che mostravano evidenti segni di sbrindellature.

Mi fu facile dedurne un parallelismo fra quello che vedevo e la situazione del mio reparto che lasciava a desiderare e non solo da quel punto di vista . La dislocazione così come era, faceva acqua da tutte le parti soprattutto nel caso di un impiego effettivo. Un nucleo antiparacadutisti a cui si  richiedeva prontezza di impiego, informazione immediata, conseguente individuazione  dei luoghi su cui   intervenire, considerevole volume di fuoco che potesse contrastare, non dico alla pari, ma almeno per potere neutralizzare o bloccare forze paracadutate con una    potenza di fuoco sulla quale non avevamo alcuna informazione ma che immaginavamo essere imponente, non lasciava grandi speranze di contrasti positivi.

Poteva essere un vantaggio la perfetta conoscenza dei luoghi a cui pensavo di poter pervenire attraverso le ricognizioni che i viaggi fatti con il colonnello comandante mi consentivano. In seguito perfezionavo queste mie visite guidando il reparto ed esaminando, sul posto, ogni possibilità con il contributo dei veterani che, come ho detto in altri momenti, esistevano nel Nucleo.

Tutto questo faceva parte di tante piccole esercitazioni che giornalmente organizzavo con la collaborazione dei miei due sottufficiali. Lo stato morale non mi sembrò basso anche perché si     sapeva molto bene che altre zone di guerra erano ben più terribili e pericolose.

Di costruzioni difensive ne vidi ben poche oltre quella costruita al quadrivio Ragusa-Marina di Ragusa e Scicli- Santa Croce Camerina, dove i passaggi dei veicoli erano indiretti e sorvegliati da sentinelle che però avrebbero potuto impedire infiltrazioni di elementi isolati e nulla più: le forze presenti non potevano che sottolineare una presenza e soltanto una presenza.

Vidi qua e là postazioni che avrebbero dovuto nascondere nidi di mitragliatrici pesanti o di cannoncini anticarro che, per quello che mi risultò, dopo non vennero presidiati mai anche perché, come mi venne da considerare dopo, la loro mimetizzazione era assolutamente nulla e sembravano più un facile riferimento per chi avesse voluto colpirli.

Insomma, la cosa non mi piaceva tanto, pur non avendo ancora una cognizione precisa di come avrebbero dovuto essere. Mi colpiva il fatto che non si confondessero con il paesaggio circostante e che, per contro, si vedessero da posizioni anche lontane.

I miei piccoli viaggi continuarono per molto tempo per cui, ad un certo momento, potevo affermare di conoscere sufficientemente tutto il territorio a me assegnato.

Ci furono frequenti movimenti nei presidi delle varie armi soprattutto per quelli dell’artiglieria. Infatti scomparvero dalla circolazione quasi tutte le sezioni esistenti nella zona di Scicli. Dove fossero andate a trasferirsi non mi fu dato di saperlo ma io ero ottimista e non dubitavo minimamente che i comandi superiori ne sapessero più di me ed ubbidissero a piani precisi ed adatti alle circostanze. Il presidio militare a Scicli si ridusse ad una compagnia che avrebbe dovuto servire a dare il cambio,periodicamente ad altri reparti similari come alternativa di riposo.

Ci recavamo più spesso a Donnafugata da dove si sentiva facilmente l’odore del mare – di cui avevo una grande nostalgia – ed incontravamo gli altri militari che vi si trovavano di stanza e con i quali scambiavamo i nostri discorsi che spessissimo non si allontanavano dal pensiero delle famiglie.

Avevo fatto la conoscenza di altri due sottotenenti con cui avevo in un certo senso familiarizzato. Loro si lamentavano della monotonia della vita che li costringeva ad un isolamento a cui non riuscivano a porre rimedio. D’altra parte era questo il difetto di quella vita: non offriva diversivi ma che comunque preservava dai pericoli che in ogni altra parte del mondo esistevano ed esistevano in prevalenza.

Era in realtà un tran-tran stucchevolmente monotono che però non mi riguardava perché per un motivo o per un altro io, personalmente, avevo il mio da fare. Infatti avevo trovato un punto della città che mi consentiva una buona posizione per scrutare un orizzonte più ampio e vi avevo posto un punto di osservazione con degli uomini del Nucleo con il compito preciso di riferire qualunque cosa potesse verificarsi.

Il problema era sempre lo stesso, quello cioè della rapida comunicazione: non avevamo altro mezzo che quello che rese famoso il maratoneta delle Termopili!

Spesso partecipavamo a delle esercitazioni collettive insieme ad altri reparti. Dopo una di queste, a causa dell’assenza dell’ufficiale addetto alle relazioni, fui pregato di redigere una relazione della esercitazione completa e delle considerazioni che ne scaturivano. La mia aderenza quasi perfetta alla realtà e la descrizione cronometrica dei fatti fecero emergere delle manchevolezze che non mancai di evidenziare. Pensavo di aver azzardato troppo anche perché l’esperienza mi aveva insegnato che il «Tutto va bene, madame la marchesa» era più appropriato a quel genere di relazioni.

La cosa fece un po’ di scalpore e fui chiamato a rapporto dal colonnello comandante e quindi accompagnato alla presenza del generale di stanza in quel di Modica che aveva voluto conoscere il rivoluzionario dei metodi descrittivi. Io pensavo che, come spesso succede in queste occasioni, le rabbuffate vengono sempre a cadere sul più piccolo con un crescendo sempre più animoso quanto più numerosi sono i passaggi a scalare. Contrariamente alle mie previsioni ebbi delle felicitazioni e dei vivissimi complimenti che si trasformarono, purtroppo, in un maggior carico di lavoro: mi fu dato l’incarico non ufficiale ma ugualmente definitivo delle relazioni di qualunque tipo. Mi si davano degli appunti, dei riferimenti ed io dovevo metterli insieme ragionevolmente e secondo realtà. Per altro “ lo scrivere” era il mio mestiere, essendo laureato in lettere e presupponendo che sapessi mettere insieme per lo meno una ventina di parole.

                                   Andamento lento

 Successivamente ebbi altri incarichi, come quello di prelevare settimanalmente le parole d’ordine per tutti i reparti. Dapprima andavo a Modica, sede del Comando di Divisione servendomi del treno, ed in seguito, poiché cominciavano ad essere frequenti i mitragliamenti degli stessi ad opera dei caccia alleati, fui pregato di andare in moto nella speranza che la strada riservasse una maggior sicurezza.

Per timore di diventare io stesso un facile bersaglio ed in considerazione che fosse impossibile avvertire qualunque rumore di aereo in avvicinamento a causa soprattutto del fracasso inevitabile della stessa motocicletta, decisi di adottare un sistema che speravo potesse funzionare. Io alla guida ed il mio motociclista seduto in senso contrario alla direzione di marcia, in altre parole schiena contro schiena, con il preciso incarico di osservare a trecentosessanta gradi il cielo per tutto il suo orizzonte. Speravamo in questo modo di avere almeno il tempo di toglierci dalla strada in caso di pericolo.

Fortunatamente non ci fu mai bisogno di un ripiego del genere, anche se non era difficile che accadesse poiché già in altre occasioni erano stati mitragliati carretti o addirittura contadini  che andavano o tornavano dalla loro campagna. Lo scopo era evidentemente quello di rendere insicuro qualunque movimento, soprattutto dei reparti.

Non mi ritenevo certo un eroe a portare a termine il servizio affidatomi ma era certo che mi guardavano con molta simpatia quelli che avrebbero dovuto assolverlo. Penso che il sentimento predominante era dovuto ad uno mio stato di pura incoscienza e ad un senso di sfida a qualunque non improbabile eventualità.

Un bel giorno accadde che un caccia tedesco precipitasse dopo una sua incursione su Malta. L’aviatore non potè abbandonare l’aereo  e cadde in mare a un centinaio di metri dalla spiaggia.  Un nostro ufficiale assistette alla scena  e non esitò a buttarsi in acqua, così vestito come era. Riuscì a condurlo fino a terra malgrado l’appesantimento del paracadute bagnato. Il tenente ebbe dei riconoscimenti persino dai comandi tedeschi: addirittura lo insignirono di una medaglia.

Con molta sorpresa si seppe che lo stesso conosceva la lingua tedesca e pertanto per avere  un interprete  a disposizione fu disposto il suo trasferimento presso il comando di reggimento. Credo che per lui, in quel momento, valesse di più  il trasferimento che la stessa decorazione.

Quello fu il periodo in cui l’aviazione sia italiana che germanica bombardarono sistematicamente l’isola di Malta: tutte le sere, subito dopo il tramonto, il rumore cupo ed intenso delle formazioni aeree annunziava per parecchio tempo le incursioni.

In quelle occasioni l’orizzonte si illuminava di bagliori straordinari dopo pochi minuti dal passaggio degli aerei, e si avvertivano i rumori delle esplosioni attenuati dalla distanza. Immaginavamo l’inferno di fuoco che si abbatteva sull’isola come un’apocalisse e la pelle ci si accapponava. Pensavo che ciò potesse avvicinare la fine della guerra anche per le considerazioni che i bollettini ufficiali ci suggerivano e naturalmente in modo positivo per noi. Occupando l’isola, molti problemi per il collegamento con la Libia si sarebbero certamente risolti.

(Fine V parte)

Articolo correlato:

https://wp.me/p60RNT-71J

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *