CulturaMusica

Madama Butterfly, una tragedia giapponese

L’intramontabile opera di Puccini ha sempre affascinato il pubblico: dalla famosa aria Un bel dì vedremo, il Coro a bocca chiusa Madama Butterfly è  una delle opere più amate e popolari

SALERNO – Nuovo allestimento al Teatro Municipale Giuseppe Verdi: in programma venerdì 21 ottobre ore 21 (Turno A) e domenica 23 ottobre alle ore 18 (Turno B) andrà in scela l’opera lirica di Giacomo Puccini  Madama Butterfly.

La rappresentazione musicale sarà sottolineata dall’Orchestra Filarmonica Giuseppe Verdi di Salerno e dal Coro del Teatro dell’Opera di Salerno, Durata della rappresentazione: 2 ore circa.

Personaggi e interpreti:

Cio-Cio-San, Kristine Opolais

B.F. Pinkerton, Gustavo Porta

Suzuki, Martina Belli

Sharpless, Massimo Cavalletti

Goro, Enzo Peroni

Lo zio Bonzo, Carlo Striuli

Il principe Yamadori, Paolo Gloriante

Kate Pinkerton, Miriam Artiaco

Il commissario imperiale, Maurizio Bove

L’ufficiale di registro, Alessandro Menduto

Dolore bambino, Joseph D’Acunto

Dolore adulto, Sun Haoyuan

Direttore d’Orchestra Francesco Ivan Ciampa. regia e Costumi Giandomenico Vaccari, Maestro del coro Armando Tasso. Aiuto Regia Alessandro Idonea.

La Madama Butterfly debuttò al Covent Garden nel 1905, un anno dopo la prima alla Scala di Milano.  Opera in tre atti su libretto di Giuseppe Giacosa e Luigi Illica, definita dagli autori “tragedia giapponese”.

L’intramontabile storia di Puccini ha sempre affascinato il pubblico: dalla famosa aria Un bel dì vedremo, il Coro a bocca chiusa rimane ancora oggi una delle opere italiane più amate e popolari.

La solitudine di Butterfly nell’incomunicabilità tra due culture

di Rosanna Di Giuseppe

Madama Butterfly fu l’insuccesso più clamoroso registrato da Puccini nella sua fortunata carriera operistica. Data in prima assoluta alla Scala di Milano il 17 febbraio 1904 fu fischiata e contestata tanto da costringere Ricordi a ritirare l’opera dal cartellone subito dopo. Se è vero che i motivi della caduta  vanno ricercati anche nelle ostilità e nelle invidie che Puccini suscitava evidentemente tra colleghi meno fortunati che dovettero adoperarsi per preordinarne il fiasco ( in quel tempo la claque aveva un grande potere nei teatri italiani e stranieri), sicuramente la concezione e la struttura drammaturgica di questo capolavoro risultarono ardui per il pubblico dell’epoca. Eppure il maestro ebbe subito consapevolezza della qualità artistica della sua nuova produzione: <<Io sono abbastanza tranquillo ad onta della batosta avuta, perché so di aver fatto opera viva e sincera, e so che risorgerà sicuramente. Ho questa fede>>, così scriveva il 19 febbraio e altrettanti auguri arrivarono dal critico del “Corriere della sera” Giovanni Pozza, all’indomani della prima scaligera e da Giovanni Pascoli che li espresse in versi al musicista. Tali pronostici non furono smentiti: l’opera, con alcune modifiche di cui si dirà in seguito,  riportò poco dopo un successo mai più interrotto, il 28 maggio dello stesso anno, presso il Teatro Grande di Brescia. Versioni successive saranno una versione del 1906 per l’Opéra comique di Parigi e ancora una quarta ed ultima dello stesso anno. L’iter del soggetto scelto da Puccini, la storia della fanciulla giapponese che dovrà rinunciare all’amore per un occidentale come già altre eroine che l’avevano preceduta in altrettanti opere di ambientazione esotica (si pensi all’Africaine di Meyerbeer o alla Lakmé di Delibes anch’essa ispirata a un racconto di Pierre Loti),  è quello che partendo dal raffinato romanzo autobiografico di Loti, (Madame Chrisanthème, 1887) attraverso il nudo realismo del racconto di John Luther Long, Madam Butterfly  (1898), arriva a Puccini nella versione del dramma di Belasco cui il musicista ebbe occasione di assistere a Londra dove si trovava per la Tosca nell’estate del 1900, rimanendone affascinato.

La storia descritta in primis da P. Loti, un ufficiale della marina francese che aveva prestato servizio in Giappone nell’epoca in cui gli Stati Uniti cercavano di fare dell’Oceano Pacifico un mare americano, che raccontava della vicenda realmente accaduta di un matrimonio a termine, come tanti che avvenivano, tra un occidentale e una giapponese destinati a durare solo il tempo del soggiorno degli occidentali in servizio in terra straniera per procurar loro temporaneamente i piaceri del matrimonio, era approdata nelle mani di Belasco alla vera e propria tragedia. Nel suo atto unico, dopo la dopo la lunga e inutile attesa di Pinkerton da parte della protagonista, questi ritorna con la moglie americana solo per sottrarle il figlio, unica gioia rimastale. Disperata Butterfly fa harakiri, trafiggendosi con la spada del padre mentre il figlio sventola la bandiera americana. Puccini, tra i vari elementi di attrazione del lavoro di Belasco, fu particolarmente colpito dalla pura teatralità della lunga angosciosa attesa della geisha che rimane a vegliare nella speranza  di veder apparire la nave del suo amato. L’autore aveva arditamente esaltato questo momento drammaturgico dilatandolo in quattordici lunghi minuti in cui Butterfly attende l’alba, lasciando che il silenzio scenico fosse solo riempito da giochi di luce, mormorio di uccelli e altri effetti destinati a tradurre con grande intensità

emotiva il delicato stato psicologico. Gli altri elementi di interesse furono: l’evidenza con cui si presentava il dramma che nonostante fosse recitato in lingua non italiana risultava immediatamente percepibile e dunque  funzionale ad un adattamento per l’opera in musica, l’ambientazione esotica di moda, che poco prima aveva già sancito il successo dell’opera Iris di Mascagni (1898), per di più sostanziata dal tema della contrapposizione tra due culture e in cui si denunciava l’oppressione dell’una sull’altra, e infine, ma non ultimo, la tipologia del personaggio femminile in primo piano che combaciava con il tipo di eroina prediletto da Puccini drammaturgo, secondo l’interpretazione psicoanalitica di Mosco Carner, socialmente inferiore, tale da poter tollerare l’innamoramento di un uomo morbosamente legato alla figura materna che, comunque tradita, impone alla fine la punizione e la morte dell’oggetto  amato  secondo il cliché dell’ <<amore come colpa tragica da punire con la morte>>. I librettisti prescelti furono ancora una volta, dopo i successi ottenuti con La Bohème Tosca, Illica e Giacosa che iniziarono a lavorare nella primavera  del 1901. Un primo piano dell’opera prevedeva la suddivisione in tre atti con le seguenti scene dell’atto unico di Belasco (La casetta di Butterfly, La villa del console, La casetta di Butterfly) e in più la sceneggiatura del sottinteso antefatto, ma Puccini elaborò poi un’idea che mirava soprattutto alla concentrazione drammaturgica in modo da rimanere più vicino all’atto unico di Belasco : <<Caro Illica sai cosa ho scoperto? Che il consolato mi portava al fiasco! L’opera deve essere in due atti. Il primo tuo [allude al prologo con la scena del matrimonio] e l’altro il dramma di Belasco con tutti i suoi particolari. Assolutamente ne sono convinto e così l’opera d’arte verrà tale da fare una grande impressione. Niente entr’acte e arrivare alla fine tenendo inchiodato per un’ora e mezzo il pubblico! È enorme ma è la vita dell’opera […] >>(16 novembre 1902).  Cosicché il primo atto fungendo da prologo presentava il momento della felicità di Butterfly in forte contrasto con quanto avviene nell’azione del dramma. Giacosa non fu d’accordo sulle prime con questa soluzione sostenendo la necessità di una calata di sipario tra la veglia notturna e il riapparire di Pinkerton ma Puccini riuscì a far prevalere la sua idea. Un intermezzo venne composto per occupare lo spazio e il tempo che intercorre tra la prima e la seconda parte del secondo lungo atto e che nella versione di Brescia costituirà il preludio al terzo atto. Per la resa dell’atmosfera esotica il musicista ricercò con cura documenti originali: raccolte di musiche giapponesi, incisioni fonografiche, la testimonianza della signora Oyama, moglie dell’ambasciatore giapponese a Roma da cui si fece intonare alcune “canzoni native”. Carner ha individuato sette motivi autenticamente giapponesi mentre per il resto, nonostante l’uso di scale pentafoniche o di certi timbri strumentali orientali, l’esotismo musicale di quest’opera è di invenzione prettamente pucciniana. Il musicista costruisce melodie alla maniera giapponese o utilizza procedimenti già tipici del suo linguaggio come il tritono, i pedali sostenuti e gli ostinati finalizzandoli all’atmosfera esotica da cui Butterfly è indivisibile.

Il lavoro procedette abbastanza velocemente, interrotto soltanto da alcune vicende biografiche (un incidente automobilistico subito da Puccini, e momenti di crisi familiare) concludendosi il 27 dicembre 1903. L’ambientazione dell’opera coincideva con l’attualità della rappresentazione svolgendosi la vicenda in “epoca presente”, come indica la prima pagina del libretto. Primi interpreti furono il soprano Rosina Storchio (Cio-Cio Sun), il tenore Giovanni Zenatello (Pinkerton), il baritono Giuseppe De Luca (Sharpless), Giuseppina Cicoria (Suzuky). A dirigere l’opera alla  Scala fu il maestro Cleofonte Campanini. Dopo la caduta, la ripresa trionfale dell’opera a Brescia avvenne con quelli che Puccini definì <<alcuni ritocchi>>, in realtà modifiche importanti come la divisione del secondo atto in due, l’arricchimento della parte del tenore che si fregia di una nuova aria “Addio fiorito asil”, e, modifica fondamentale che fu ulteriormente messa a punto nelle  seguenti versioni, l’abolizione di alcuni episodi superflui e pittoreschi di ambientazione del primo atto, quell’eccesso di elementi caricaturali in contrasto con il corso della tragedia. Al posto della Storchio cantò  Salomea Krusceniski.

Madama Butterfly definita “tragedia giapponese” nel frontespizio del libretto, rispetto alla Tosca, che è un dramma d’azione, si configura come un dramma psicologico in quanto descrive la completa e coerente evoluzione psicologica del personaggio femminile da fanciulla quindicenne a donna e quindi dall’innocenza alla consapevolezza per cui si eleva alla fine sul piano di un personaggio da tragedia greca che si immola come Andromaca per difendere fino all’ultimo i propri sentimenti ed ideali. Tutte le motivazioni del dramma sono esposte all’inizio dell’opera: la trivialità di Pinkerton (così recita il libretto: <<[…] dal suo lucido fondo di lacca/ come subito moto si stacca,/ qual farfalletta svolazza e posa/ con tale Grazietta silenziosa/ che di rincorrerla furor m’assale/ se pure infrangerne dovessi l’ale.>>), l’imperialismo americano, la condizione di vittima designata della giovane fanciulla giapponese con la conseguente  preordinata, inevitabile tragedia. Una ventata di freschezza è proprio l’arrivo di Butterfly con tutte le ragazze, è qui che si introduce sullo sfondo cinico dell’esordio il primo motivo di poesia. Fu questa una delle maggiori innovazioni apportate da Puccini nella versione per Brescia con l’introduzione della dissonanza prolungata di settima che reca con sé, come avverte Girardi, una nota di <<infinita, struggente attesa amorosa>> . L’inciso melodico con cui si presenta Butterfly tornerà più volte a caratterizzare il personaggio e il suo amore per l’ufficiale americano. La prima parte dell’atto è quella più colorata e intesa a rappresentare tutto ciò che fuoriesce dalla centralità del personaggio di Butterfly in quest’opera che alcuni hanno considerato una sorta di monodramma per l’assoluta concentrazione sulla protagonista che campeggia quale unico grande personaggio della vicenda, senza antagonisti dal momento che Pinkerton è un semplice catalizzatore funzionale alla messa in moto dell’azione, mentre tutti gli altri le ruotano intorno come dei satelliti.  Un tema fatto di piccoli motivi e subito dopo il fugato a quattro voci in cui confluisce,  caratterizzano l’atto al suo esordio per tradurre il trambusto della scena che inizia con il dialogo fra Pinkerton e il sensale di matrimoni Goro e in cui ben presto vengono presentati vari personaggi, in primis i due servitori e Suzuki. È evocato il miniaturismo del mondo orientale (Carner) che si riflette nei piccoli intervalli del tema iniziale, il clima elegante di Japonaiserie cui molto contribuisce la timbrica orchestrale (il tintinnio del triangolo, i colpi del piatto percosso da bacchetta di ferro, e per il resto, un variegata e completa batteria di percussioni, campanelli a tastiera e giapponesi, campane e tam tam giapponesi) tutti quegli elementi che portarono Torrefranca a riconoscervi un clima da operetta (parlò di “operetta tragica”), sul cui sfondo a maggior ragione giganteggia la tragica storia di Butterfy. Altri ha fatto notare che l’accostamento più pertinente, come per tutto il teatro “semileggero” del Novecento, è semmai con il musical americano che peraltro ne deriva.

In questa prima parte dell’atto si svolge  l’antefatto della tragedia: Goro mostra a Pinkerton la sua casa giapponese sulla collina, luogo che appare separato dal mondo così come è appartato rispetto

alla città di Nagasaki, mentre la musica è capillare aderendo a tutti i particolari e ad ogni minima inflessione psicologica. Arriva il console Sharpless (anch’egli annunciato dal di fuori come dopo Butterfly dal di fuori, Pinkerton canta un’aria “Dovunque al mondo” espressione della superficialità del personaggio, in cui cita quello che all’epoca era l’inno dell’esercito e della marina americani, poi diventato l’inno nazionale giapponese, finendo con un passaggio naturale nell’invito rivolto  al console a brindare. Dal loro dialogo emerge la triste realtà del matrimonio a termine che si va a celebrare sebbene, di fronte alla leggerezza delle dichiarazioni  dell’ufficiale negli abili versi di Giacosa: <<Amore o grillo, dir non saprei./certo costei / m’ha coll’ingenue arti invescato […]>>, Sharpless sottolinei la sincerità dell’amore della fanciulla.

È a questo punto che l’arrivo di Butterfly è annunciato da un coro fuori scena finché ella appare accompagnata dalle sue amiche, dopo che noi abbiamo già sentito la sua voce stagliata su uno sfondo di pittura sonora che traduce l’infinito (<<Quanto cielo! Quanto mar! esclama il coro femminile). Flauti, ottavino, campanelli e arpa aggiungono colore esotico, mentre a metà strada tra Oriente e Occidente si colloca l’uso della scala pentatonica. Ella si inchina al suo futuro sposo invitando le compagne a fare altrettanto e racconta la sua storia: era di origini nobili ma un rovescio di fortuna l’ha costretta a diventare una geisha. L’accenno alla morte del padre che si è ucciso facendo harakiri dietro invito del Mikado, è accompagnato da un tema in orchestra che getta una luce sinistra sul futuro (clarinetti col basso, violoncelli e contrabbasso). Esso riapparirà sempre associato a momenti funesti e quale presagio di tragedia. Mai come in quest’opera l’uso dei leitmotive è finalizzato alla costruzione capillare di una rete drammaturgico-musicale di grandissima coerenza e significato. Segue il pezzo di insieme dei parenti e dei gruppi che chiacchierano tra loro dando inizio alla scena nuziale in cui si  mostra la grande capacità raggiunta da Puccini nel ritrarre insieme la folla e i solisti,  avvicinandosi al massimo alla naturalezza della vita reale. In generale anche nei dialoghi predomina lo stile di conversazione (arioso e parlando) già maturato in Bohème. Dopo che Butterfly ha mostrato a Pinkerton i suoi piccoli oggetti “preziosi” tra cui le statue degli avi, si compie la frugale cerimonia nuziale, conclusasi in un brindisi finale, che Puccini liquida rapidamente. Questa vivace prima parte dell’atto in cui è usata la maggior parte dei temi giapponesi dell’opera è conclusa bruscamene dall’irruzione furiosa della zio Bonzo che maledice la nipote per aver rifiutato la religione degli avi abbracciando quella del suo sposo. I parenti vengono cacciati fuori sul minaccioso tema del Mikado. Comincia la sezione lirica che vede i due “sposi” finalmente soli (“tutti soli e fuori dal mondo” dice Butterfly).  Pinkerton prende a consolare la ragazza che ormai, in seguito al ripudio dei suoi familiari, è rimasta completamente sola. Puccini non riesce  a dare a  Pinkerton una musica  sgradevole quanto il suo personaggio, così ci appare sufficientemente coinvolgente e appassionato. Dall’interno si ascolta la preghiera recitata da Suzuky e ha inizio così uno dei duetti più belli scritti da Puccini. C’è  un momento inquietante che si insinua nel canto della felicità che sta per compiersi ed è quello in cui Butterfly associa il suo nome <<Farfalla>> alla farfalla trafitta e infilzata nella tavola di un collezionista (<<Dicon che oltremare/ se cade in mano dell’uomo, ogni farfalla/ da uno spillo è trafitta/ ed in tavole infitta!) pesentandosi qui un motivo di tipo orientale che è stato definito il motivo “dello strazio” perché associato nell’arco dell’opera a momenti dolorosi, lo riascolteremo infatti, nel finale, nell’ultimo abbraccio al figlioletto. Il duetto preceduto dall’Andante affettuoso è costruito con grande sapienza in tre sezioni, evidenziando in musica i passaggi psicologici dei personaggi per

progredire in un crescendo di passione che ci porta a riascoltare in conclusione la musica dell’ingresso in scena di Butterfly. Il fatto interessante armonicamente è che tale brano in La maggiore conclude su un accordo “interrogativo” sulla sopradominante che dice tutta l’illusorietà e precarietà di questo felice momento d’amore che rimane l’unico dell’opera.

Il secondo atto, anch’esso suddiviso in una prima parte più movimentata per quanto riguarda il confronto con altri personaggi e in una seconda più schiettamente lirica, è l’espressione dell’ostinazione della protagonista a voler conservare un amore a senso unico mai autenticamente esistito, del suo delirio, emblema di un dramma che c’è tutto fin dal principio e che conserva dall’inizio alla fine il suo ritmo espressivo. Un radicale cambio di atmosfera segna l’inizio dell’atto: sono trascorsi tre anni, ma Butterfly vuole ancora cocciutamente credere nel ritorno di Pinkerton, la sua forza visionaria è espressa dall’aria “Un bel dì vedremo” dalla struttura assolutamente libera nel seguire il suo vaneggiare, e in cui Montale vide non a caso la fine del canto italiano. Una delle grandi conquiste linguistiche di quest’opera infatti, in linea con quanto vari musicisti in quegli anni stavano facendo nel tentativo di avvicinare la musica al linguaggio parlato o addirittura deducendola da essa (un esempio fra tutti: Janáček), è una sorta di recitativo che assume in sé ciò che rimane dell’aria, introducendo in un andamento fatto di piccoli intervalli o di note ribattute, l’improvviso “allargamento” di intervalli più ampi. Nel prosieguo della prima parte dell’atto Butterfly incontra il pietoso Sharpless che, sempre interrotto, tenta di leggere la lettera annunciante il nuovo matrimonio del tenente, quindi il principe Yamadori che la vorrebbe in sposa (secondo la legge giapponese l’abbandono permetteva un nuovo matrimonio), e infine Goro che suscita l’ira di Butterfly con le sue insinuazioni malevole. Il momento più toccante di questa sezione è rappresentato dalla dolorosa aria “Che tua madre” che la protagonista canta rivolta al figlioletto dopo averlo presentato al console. Ma il clima dolente, con teatralissimo rovesciamento della situazione, è interrotto dallo scoppio di cannone annunciantel’arrivo della nave americana e la conseguente esplosione di gioia. A questo punto inizia la seconda parte dell’atto con  la  splendida sezione lirica del “duetto dei fiori” e la preparazione della veglia notturna. Le due donne cospargono la casa di fiori su una musica soave (.. è l’epoca dell’art nouveau), è  Bortolotto a  far notare che Puccini desiderava infondere “nell’amaro tragico venature dolci, e dolciastre”, ma all’insegna di un dosaggio ormai calibrato. L’attesa interminabile della protagonista nel dramma di Belasco è resa da Puccini al massimo grado di poesia attraverso l’ eloquenza dell’orchestra. Butterfly veste il suo abito da sposa, si adorna il capo con un fiore, prepara il paravento, lo shosi, in cui pratica tre fiorellini, uno per lei, uno per Suzuky e l’altro più in basso per il figlioletto da cui scorgere l’arrivo di Pinkerton. Riascoltiamo la stessa musica della scena della lettura della lettera (nel sottile gioco delle reminiscenze logiche, l’elemento comune delle due situazioni è evidentemente l’innocenza della protagonista). La melodia è cantata da un coro a bocca chiusa (soprani e tenori)  fuori scena col carattere semplice di una melodia popolare (Puccini vi affiancò unicamente il suono di una viola d’amore per l’esatta intonazione). Il coro nella versione in due atti conclude il secondo atto, mentre il lungo brano orchestrale scritto per tradurre l’attesa diventa il preludio al terzo atto. Risuonano motivi significativi ascoltati in precedenza in un flusso appassionato che  ripercorre  la quantità di emozioni e di pensieri che si  accalcano nell’animo di Butterfly, mentre l’ultima parte del brano  descrive il sorgere dell’alba su cui si apre l’ultimo atto con il coro di marinai che giunge  da dietro la scena.  Quest’atto è il più breve e risolutivo, ormai rapido

nell’azione. Pinkerton bussa alla porta e dopo il terzetto con il console e con Suzuky canta la sua ultima aria “Addio fiorito asil”, senza avere il coraggio di affrontare la geisha. Il personaggio di Kate molto ridimensionato nelle versioni successive rispetto all’originale, è colei che aspetta fuori della stanza dove si compie il suicidio della protagonista, c’è un unico brevissimo scambio di battute con ques’ultima quando le chiede se potrà perdonarla, per il resto assolve la funzione di unico dato che permette a Butterfly di raggiungere la consapevolezza e la scelta di morire usando l’arma del padre di cui fa in tempo a sussurrare le parole che vi sono incise: “Con onor muore chi non può servar vita con onore”.  La sua ultima volontà è quella di consegnare il figlio soltanto a Pinkerton. Un ritmo eroico di marcia sincopata accompagna la scena della morte, mentre, come osservato da Carner, mai citazione motivica fu più appropriata tra le tante drammaturgicamente pertinenti di quest’opera, come quella frase per toni interi, melodia che era una trasformazione del tema della maledizione, con cui Butterfly si cullava,  nella sua prima aria “Un bel dì vedremo”,  nella visione del ritorno del suo amato, ora suonato da trombe e  tromboni in ff al richiamo di Pinkerton dal di fuori: <<Butterfly, Butterfly!>>. Quando Butterfly muore, una volta spalancata la porta da Pinkerton e Sharpless, il tema del Mikado affidato a tutta l’orchestra chiude il cerchio quale “unico vero e costante rapporto fra Butterfly e il suo destino, il suo tragico ritornare al rispetto delle tradizioni del suo paese: il patto d’onore con la morte” (Girardi).

Per una drammaturgia estrema e senza fine

di Giandomenico Vaccari

In un mondo normale i personaggi e le trame di ogni melodramma cessano di esistere al chiudersi del sipario. Esistono però alcuni capolavori di tale valore drammaturgico-simbolico che ci costringono a pensare ad una vita dei protagonisti sopravvissuti che vada oltre i confini dell’opera stessa. Madama Butterfly è uno di questi insieme a pochi altri, il teatro di Wagner e il teatro di Britten per esempio.

Chi di noi, almeno per una volta, non si è mai chiesto, alla fine della visione di un’edizione di Butterfly, che fine abbia fatto il bambino figlio di Cio Cio San e Pinkerton e portato via dalla sua casa per andare in America a vivere un’altra vita e un’altra identità?

A me è successo molto spesso e mi pare sia giunto il momento di offrire delle ipotesi drammaturgiche che vadano oltre lo spazio della messa in scena e sconfinino nella storia di una generazione di giovani americani e delle guerre che hanno dovuto attraversare.

Lo spettacolo a cui assisterete sarà il racconto confessione di Suzuki, ormai cinquantenne, ad un giovane soldato americano che è riuscito a rintracciarla. Lui è Dolore, il bambino figlio di Cio Cio San e del Tenente Pinkerton, ha poco più di venti anni e vuole sapere la verità su sua madre.

E Suzuki racconta tutto e descrive anche un mondo giapponese a metà del guado fra Oriente e Occidente, alla fine delle seconda guerra mondiale e dopo l’esplosione delle bombe atomiche, di cui una proprio a Nagasaki.

Perché tutto questo?

Oggi, che riflettiamo ogni giorno sulla guerra e sul suo significato non è possibile pensare ad un nuovo allestimento dell’opera pucciniana senza riferirsi alla complessa trama di rapporti, intercorsi nella storia del Novecento, tra Giappone e Stati Uniti.

E il nostro pensiero deve andare naturalmente alla guerra, alle bombe atomiche, all’occupazione americana, alla rinascita economica giapponese, al mondo nipponico sempre così scisso fra Oriente e Occidente, al punto da far sembrare il Giappone quasi una strana testa di ponte occidentale all’interno dell’estremo oriente.

Ecco perché il nostro spettacolo sarà ambientato proprio nel periodo dell’occupazione americana, tra il 1947 e il 1950, al tempo della Norimberga giapponese e della prima straordinaria ricostruzione dell’ex impero del Sol Levante.

Tutto è bifido, ambiguo. Un universo schizzoide divaricato fra tradizione imperiale giapponese in via di dispersione e nuovo stile di vita americano, pratico, geometrico, razionale e apparentemente confortevole.

Dentro questa tenaglia finirà stritolata Cio Cio San, tradita proprio dai suoi presunti nuovi valori occidentali, incapace di comprendere i precisi distinguo tra moglie giapponese e “vera moglie americana” applicati del tenente Pinkerton, spalleggiato dal console Sharpless, non meno responsabile della tragedia successiva.

Cio Cio San,la grande protagonista di questo dramma, è un enigma e un mistero. Dotata di una forza e di una energia incredibili, ha il coraggio non solo di rompere con la sua famiglia ma di frantumare in un solo colpo tutto il vecchio Giappone, salvando solo il rito del suicidio, non come ritorno all’antico, ma come atto di suprema libertà. Non sarò quindi non vivrò.

Butterfly è il simbolo vero del nuovo Giappone, ansioso di cambiare e di aprirsi all’Occidente ma non preparato alle contraddizioni e agli inganni del conquistatore seducente.

Butterfly ha creduto fermamente a quanto si andava dicendo nelle missioni cristiane dove si prometteva la fine del mondo delle geishe e della prostituzione e ha agito di conseguenza.

Ha voluto fortissimamente essere una sposa americana cambiando tutto, dall’aspetto fisico, all’arredamento di casa, ai suoi comportamenti, all’educazione del bambino.

E’ lei realmente il prodotto più moderno del fascino del nuovo mondo, quello che per lei, al contrario che per noi, sta ad oriente.

Si suiciderà perché messa con le spalle al muro dalla realtà che è molto più complessa delle regole, delle promesse e soprattutto delle parole.

Morirà sperando che il figlio nulla sappia del suo strazio ma si sbaglierà anche su questo.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *