L’antica Cuma, la città celeste
di Michele Di Iorio
Per sottrarsi dalla tirannia di re Minosse di Creta, nel 1240 a.C. i greci approdarono nel Meridione della penisola italica, per poi risalire lo stivale fino ad arrivare in Campania. Quindi iniziarono l’esplorazione della ubertosa terra popolata da tranquilli oschi italici, i sedicini, sbarcando prima a Ischia, poi a Prodcida e quindi a Cuma nel 1150, dove trovarono un villaggio osco su palafitte, e alle spalle una collina piena di caverne a forma di trapezio, non attribuibili a nessuna civiltà dell’epoca.
Queste caverne, dette platamoniche – definizione che deriva dal termine greco platamon, scavata dall’azione dell’acqua marina – un tempo erano infatti sotto il livello del mare. Successivamente vennero abitate da una popolazione poco conosciuta, i cimmeri o abitanti delle spelonche, e riportavano disegni rupestri.
I cimmeri erano civili, simili ai greci, con tuniche bianche, calzari ai piedi, usavano utensili e armi di metallo in oro. Erano fuggiti da un cataclisma che aveva distrutto un continente misterioso e si erano rifugiati millenni prima sulle coste della Campania. I greci pensavano fossero i profughi della mitica Atlantide.
I coloni chiamarono il luogo dell’insediamento osco Kumae, la celeste.
Man mano costruirono le mura e l’acropoli di Cuma, le strade e il foro, la necropoli, l’anfiteatro, il teatro. Nel 750 a.C. era una città greca completa consacrata al dio Apollo, cui era stato dedicato un grande tempio sull’acropoli. Il culto era basato sulla tradizione oracolare di Delfo e della sua sacerdotessa Pitia. Istituirono un collegio di sacerdoti apollinei.
Chiamarono i terreni circostanti Campi Elisi, in ricordo della loro tradizione, battezzando il lago principale vulcanico Averno, considerato l’ingresso al mondo dei morti.
La vicina caldera del vulcano Solfatara prese invece il nome di Campi Flegrei.
La città in un primo tempo era retta da un oligarchia di nobili greci; la sua estensione continuava nel sottostante sito di caverne squadrate da mano umana antica e ignota a forma trapezoidale,
Sotto il tempio di Apollo venne installato il dromos, il tunnel nelle viscere della montagna sacra luogo di culto delle Sibille sacerdotesse di Apollo che vaticinavano responsi.
La mitica popolazione dei cimmeri venne assorbita gradualmente: intorno Cuma sorsero le cittadine satelliti di Putèoli, Pozzuoli, Miseno e il villaggio di Bauli, l’attuale Bacoli, ombelico di Cuma.
La prima Sibilla cumana di cui si ha notizia fu Erofila: si sa che fece raccogliere dai sacerdoti di Apollo i responsi nei libri detti sibillini, che furono 12 in tutto, conservati dai sacerdoti cumani.
La seconda Sibilla fu Demofila: nel 560 a.C. spinse i cumani a fondare una nuova grande città costiera a circa 22 km dedicata alla dea Minerva, dea di saggezza, la città di Partenope, l’odierna Napoli, destinata ad ospitare i nuovi coloni greci che affluivano dalla madrepatria o fuggivano dalle vicine città campane occupate dagli etruschi; il nuovo insediamento era sotto l’egemonia di Cuma.
I greci cumani nel 290 a.C. divennero alleati militari di Roma; nel 90 Cuma fu dichiarata Municipio romano, conservando però una certa autonomia, come ad esempio quella di avere una propria moneta, conservare le proprie leggi, il culto sibillino e mantenere un piccolo esercito greco al fianco delle truppe romane.
Molti furono i notabili di Roma che trascorrevano le ore di riposo e svago nella rigogliosa natura di Cuma: tra i tanti il generale romano Cornelio Silla, che vi costruì una propria villa.
Silla era un assiduo frequentatore dei luoghi oracolari e chiedeva spesso i responsi. Gli oracoli sibillini erano tenuti in molta considerazione dai capitolini in quanto avevano profetizzato l’estinzione del popolo etrusco, il sorgere di Roma e la conseguente opposizione all’ultimo re etrusco Tarquinio il Superbo: arrivarono a bruciare nove dei dodici libri sibillini per evitare che cadessero in mano nemica.
Proprio a Roma sul Campidoglio Silla apprese da tre dei libri sibillini della sua fine militare. Probabilmente fu anche per questo che li fece bruciare … La profezia trovò compimento con la vittoria del generale Caio Mario durante le guerre civili, così come successe per il responso che riguardava Pompeo e Giulio Cesare.
Fu Cesare a far riscrivere poi i 12 libri sibillini di Cuma, facendoli poi custodire dai sacerdoti romani Flamini nel tempio di Apollo sul Campidoglio.
Anche l’imperatore Augusto praticava il culto apollineo delle Sibille di Cuma: le andava a trovare spesso per ottenere loro oracoli a suo favore.
Augusto fondò il collegio imperiale delle sibille nel foro romano di Napoli che si trovava nell’attuale piazza San Gaetano, dove ora sorge la chiesa di San Gregorio Armeno, con allieve scelte tra famiglie povere dai sacerdoti di Apollo. Le bimbe venivano portate via a 2 anni d’età e istruite fino i 12 anni per poi essere avviate o al Campidoglio a Roma o nelle principali città italiane o come allieve sibille a Cuma.
Sulla terrazza fronte al mare del tempio di Apollo fu posta la statua di Ottaviano Augusto e poco dopo venne costruito il tempio di Giove su un altura vicina, dove troneggiava la statua del dio e poi il tempio di Iside nel sottostante Foro cittadino.
Le sibille cumane in periodo greco si bagnavano nel lago d’Averno. In periodo romano lo facevano invece nelle tre grandi cisterne costruite all’interno del dromos. Vaticinavano sulle foglie del bosco sacro di Cuma e i sacerdoti incidevano su tavolette i loro responsi ai postulanti venuti da tutto l’impero romano.
Si accumulava così un tesoro enorme con gli oboli per Apollo lasciati nei grandi orci appositamente situati nel corridoio che portava all’antro della Sibilla, custodito nella cavea detta romana, che comunicava sottoterraneamente con il vicino lago d’Averno, sede del porto lacustre segreto della flotta romana stanziata nella base militare di Miseno.
Ottaviano nel I sec. dopo Cristo però cominciò a temere i libri sibillini perché contenevano ulteriori profezie, responsi ritenuti pericolosi per Roma: l’impero era destinato a finire e inoltre si raccontava della nascita di un nuova religione in Palestina con un unico dio solare. Augusto credeva si trattasse del culto di Mithra che si stava diffondendo nelle Legioni romane dall’Oriente fino alla capitale: c’eran persino Mitrei a Benevento, a Napoli, non solo a Cuma.
Nel 67 d.C. l’imperatore romano Nerone andò a consultare l’oracolo: era pieno d’ammirazione per questo collegio femminile di sacerdotesse di Apollo e Demetra: in numero di 12 con a capo la Sibilla oracolare entravano in trance e vaticinavano verità su ogni cosa.
Si sa anche che le sibille dirette dalla sacerdotessa Quartillia nel 47 d.C. furono invitate a Napoli per i ludi quinquennali e si fermarono nella grotta di Posillipo.
Sotto l’imperatore Diocleziano Cuma divenne con l’avvento del Cristianesimo rifugio per molti cristiani, raccolti dal sacerdote cumano Massimo, che riuscì a convertire la vergine Sibilla Candida da Napoli: la battezzò nell’ex tempio di Giove. Poi entrambi vennero giustiziati dai romani e le spoglie del sacerdote vennero inumate nell’ex tempio di Apollo, mentre quelle dalla sibilla finirono nell’ipogeo della chiesa di San Pietro ad Aram di Napoli.
Cuma, che era stata la culla della villeggiatura dei filosofi e politici romani insieme alla città di Baia, frequentato tante figure storiche come i fratelli Gracchi e il fondatore del porto romano dell’Averno e della base di Miseno, generale Gneo Pompeo, e aveva ospitato la famosa Suola Romana Filosofica dello stoicismo creata dallo studioso cumano Caio Blossio, vide la fine momentanea del culto dalle sibille proprio a causa della colonia di rifugiati cristiani
La famosa Teodora, la madre dell’imperatore Costantino, che a Costantinopoli si era fatta cristiana, venne a Napoli con i monaci basiliani e ne fondò una comunità nell’isolotto di Castel dell’Ovo e un’altra nel monastero di San Gregorio Armeno; chiuse inoltre definitivamente il collegio augustale e il collegio delle sibille di Cuma.
Nel 389 d. l’imperatore romano Teodosio con un editto proibì le religioni pagane nell’impero divenuto cristiano e fece bruciare tutte le copie presenti a Roma dei libri sibillini, sciogliendo il collegio dei sacerdoti di Apollo e proibendo gli oracoli delle sibille, che guidate da Amaltea la Tenera, si rifiutarono di obbedire e si chiusero nei loro antri protette dai contadini e pescatori locali
Intanto, l’imperatore Giuliano l’Apostata aveva cercato di ripristinare il culto di Plotino in una Roma sempre più cristianizzata. Morto questi, il governo imperiale pressato dai cristiani nel 405 d.C. ordinò al generale romano Stilicone degli Eruli di portarsi in Cuma per arrestare le 12 sibille e bruciare i libri sibillini. Amaltea di nuovo si rifiutò e vide le sue ancelle deportate e prigioniere a Pozzuoli, il suo alloggio saccheggiato e essa stessa rinchiusa in una gabbia metallica sospesa all’ingresso della città. Vi rimase fino alla sua morte, avvenuta quando aveva passato i cento anni, beffeggiata dai cristiani, sporca, lacera, ma nutrita di nascosto dai fedeli cumani. La sua salma decapitata e bruciata la dai cristiani nell’anno 405 d.c
Dei libri di Cuma non si trovò poi nessuna traccia.
Nel 1209 le popolazioni di Pozzuoli e Napoli guidate da sacerdoti cattolici entrarono a saccheggiare Cuma, mutilando statue e vasi romani, distruggendo edifici antichi, insabbiando il Foro e l’Antro della Sibilla, ma neanche allora furono trovati i libi sibillini, né l’oro, pur setacciando le rive dell’Averno.
Nel 1568 il pirata spagnolo Cocceio, in cerca di fortuna si fermò sull’Averno e nella grotta delle sibille rinvenne un’anfora romana piena di monete greche e romane, e sotto di essa i libri sibillini. Li affidò quindi ad un monaco benedettino di Napoli, raccomandandogli di non distruggerli per non dover subire la maledizione delle Sibille, ricordandogli anche che dopo il loro misfatto i saccheggiatori del 1209 erano stati colpiti da malattie, pestilenze, eruzioni vulcaniche, miseria …
Sotto il regno borbonico, dopo che Ferdinando IV aveva fatto costruire la Casina da pesca sul lago Fusaro, si ricercò l’antica Cuma: dopo aver riportato alla luce i ruderi romani di Baia , Pozzuoli, Miseno, nel ‘700 s’iniziò a sondare il territorio.
Nel 1846 sarà comunque l’archeologo Fiorelli, direttore degli scavi archeologici borbonici di Pompei ad intraprendere scavi regolari; nell’antro della Sibilla ritrovarono libri sibillini che Fiorelli donò al principe reale don Leopoldo di Siracusa, fratello di re Ferdinando II, liberale e massone, che li tenne nascosti nel suo Palazzo alla Riviera di Chiaia.
I libri alla sua morte nel 1862 passarono in donazione al suo amico napoletano avvocato Giustiniano Lebano che li portò nella biblioteca della sua villa a Trecase.