La tortura nei secoli
di Michele Di Iorio
Tra le tante particolarità di Napoli da qualche mese ce n’è una in più: da poco due sessantenni napoletani, Oscar Mattera e Paolo Lupo, hanno inaugurato in vico Luciella a San Biagio dei Librai il Museo della Tortura. Piccolo ma esaustivo, mette in mostra 60 strumenti di supplizio, arrivati da diversi luoghi, come dal Castello Aragonese di Ischia, dal Maschio Angioino, da Montefusco, da Caserta. Inoltre alcuni manichini posizionati nelle macchine danno una precisa idea di come la tortura veniva praticata.
Napoli ha subito una lunga serie di dominazioni, almeno fino al 1734, anno in cui Carlo di Borbone si insediò sul trono. Si può dire che nel corso dei secoli la popolazione partenopea, sebbene vessata dai dominatori stranieri, conobbe in misura limitata l’esecrabile uso della tortura, dal latino torquere (torcere le membra).
Si ha notizia di torture per ragion di stato in tutto il mondo antico, dall’Oriente all’Egitto alla Mesopotamia, poi diffusesi nel mondo occidentale.
In epoca romana ricordiamo nel napoletano la gabbia sospesa ad una catena dove si lasciavano morire di fame e di sete i condannati esposti al pubblico, come nel caso dell’ultima sibilla cumana, Amaltea. A quei tempi nelle carceri napoletane era in uso anche il supplizio della ruota e della corda. Inoltre i prigionieri venivano marchiati a fuoco con la e per gli eretici, p per prostitute, m o s per maghi o streghe, t per traditori dello stato.
I metodi di tortura erano tanti: si procedeva a strappare le unghie di mani e piedi, i capezzoli alle donne, i testicoli agli uomini con i tritatesticoli, negli interrogatori si adoperavano senza pietà bastoni e randelli, fruste uncinate, si appendevano i condannati per i piedi, si ustionavano con il fuoco o si malmenavano con spranghe di ferro arroventate. Alcune popolazioni avevano una predilezione per l’impalamento, che consisteva nell’infilzare il malcapitato su di un palo di legno acuminato e lasciato morire.
Nella chiesa cattolica la tortura venne introdotta nel 1252 da papa Innocenzo IV nella bolla Ad extirpanda.
Una delle pagine più nere di questo atroce metodo coercitivo fu quella dell’inquisizione cattolica che praticò sistematicamente sin dal 1229 la tortura su eretici, maghi, streghe o semplicemente su persone sospettate di essere tali.
Dopo la conquista dell’America del sud, l’inquisizione spagnola segnò profondamente la storia di quelle terre, e non solo. Solo in tempi recentissimi la chiesa cattolica ha fatto ammenda e chiesto perdono per le atrocità commesse in nome di un malinteso senso della vera Fede.
Anche a Napoli nel 1310, come in tutta l’Europa, venne praticata la tortura da parte dell’inquisizione cattolica. Tra il 1229 al 1817 – anno in cui fu giustiziata l’ultima personain Messico – in tutto il mondo si stimano 10 milioni di vittime e altri 8 mandati al rogo, di cui 300mila nel Regno di Napoli.
Arrivati i Borbone nel 1734, il Primo Ministro Bernardo Tanucci e il Ministro di Grazia e Giustizia Nicola Fraggiani esaminarono per ordine del re la materia di questa orribile pratica. Sulla scia del Regno di Prussia, che aveva abolito la tortura giudiziaria nel 1740, e il Granducato di Toscana nel 1764, il Regno di Napoli iniziò a combattere gli abusi della santa inquisizione cattolica. Nel 1741 abolì il Tribunale della Nunziatura e, come sempre all’avanguardia, nel 1743 venne anche ridimensionato il potere dei sacerdoti e la censura vescovile. Venne concesso il diritto di asilo religioso agli ebrei e Il 24 dicembre 1746 furono liberati 4mila prigionieri condannati dall’inquisizione.
Anche in questo periodo comunque si registrarono episodi non molto edificanti: La tortura giudiziaria borbonica e e condanne a morte ritornarono tra 1793 e nel 1799 con tre sentenze capitali nel primo caso e 120 nel 1799 contro i giacobini e repubblicani partenopei. La tortura borbonica spaziò dalla corda alla ruota, alle spranghe di ferro infuocate e perfino al cavalletto procidano per spezzare le gambe.
D’altra parte, la tortura venne praticata senza pietà anche nel decennio di occupazione napoleonica francese. Dopo la restaurazione borbonica, altri pochi casi pochi di tortura giudiziaria nei confronti di ribelli nel 1831 e nel 1834. Di contro, non fu eseguita nessuna sentenza di morte dal 1830 al 1847, ma l’anno seguente vi fu una recrudescenza a seguito dei moti antiborbonici.
Dopo il 1860, manco a dirlo, le cose ebbero una svolta molto più cruenta: che si opponeva al nuovo governo piemontese si registro un’ampliamento ed un’affinamento dei metodi di tortura: manette spezzadita, corda, ruota, acqua bollente, tortura dell’acqua da bere, vergine di Norimberga (un armadio provvisto di aculei in cui si rinchiudeva il malcapitato), detenuti appesi per i piedi o per i testicoli, castrati e unghie bruciate, macchine spezzaschiena, eccetera. Analogamente successe tra il 1925 e il 1943, quando i metodi si supplizio vennero applicati su ebrei, socialisti, comunisti, massoni, omosessuali.
Ancora oggi la tortura è largamente usata come strumento di coercizione fisica e psicologica. Ancora oggi uomini e donne muoiono per le conseguenze di atroci supplizi.
«Privi della vita, solo qualche bagliore era stato lasciato: un piccolo pezzo di stelle, uno scorcio di sole nel buio di tutti i giorni, all’interno delle mura … Anche questo è stato rubato, quella striscia sottile di luce. Hanno chiuso le finestre con lastre di lamiera».
(Tibor Tollas)