La Recensione, Wonder woman
di Francesco “Ciccio” Capozzi
Nell’isola-che-non-c’è di Themyscira vivono, fuori del tempo, le Amazzoni. Nel corso della I Guerra Mondiale un buono e molti cattivi la violano. È il pretesto di Diana, la figlia della Regina, in nome della pace e della tolleranza, che cercava per andare a combattere Ares, il Dio della Guerra. Lo farà col nome di Wonder Woman.
La cosa singolare è che il concetto di Expanded Universe, che ha una valenza narrativa storico-critica, a proposito degli sviluppi da saga cinematografica degli eroi tratti dalla “Letteratura disegnata”, non è di un qualche filologo, ma degli stessi Studios: in questo caso della Warner Bros, che si è consociato con i DC Comics Studios, al cui Universo narrativo appartiene Wonder Woman. Cioè: dal punto di vista culturale, essi sono perfettamente consapevoli della vastità e complessità dell’operazione artistico-produttiva che stanno da tempo, in concorrenza tra loro (come con la Disney /MarvelStudios) mettendo in campo.
Si dirà, con atteggiamento supercilioso, da critico “alto”: «Embé, ti stupisce? Questi pur di far soldi, se fosse utile, sparlebbero pure della mamma …» Yes: vero. Ma il punto non è questo, o meglio il fare soldi, per quanto fondamentale, è solo una parte. Ricordiamo che fare cinema è sempre un’operazione industriale-commerciale. Ma, anche solo per realizzare guadagni il film deve avere acclaim (richiamo), e ciò viene spesso, ma non solo, dalla qualità.
Infatti a volte – anzi, non di rado – nel cinema capita che la messa in contatto con l’immaginario collettivo, che spinga i pubblici a identificarsi con quel film, la sua atmosfera narrativa, i suoi personaggi, nella sua profondità, sia davvero misteriosa e non d’immediata comprensione. E questa consonanza coi pubblici, banalmente contrapposta alla cosiddetta qualità, risulta ignota, se non disprezzata, a critici e professoroni, insediati sulle cattedre universitarie di Cinema.
Così, nello specifico, con Wonder Woman, siamo in presenza di un film (USA, ‘17) ben fatto; in grado sicuramente di “agganciare” la fantasia dello spettatore.
Come si sa, fu uno psicologo, William Moulton Marston, nel 1941 a crearlo, su preciso mandato della DC Comics, per ingentilire e controbilanciare l’eccesso di machismo presente nell’insieme degli eroi in tutina. E anche dopo la sua morte (‘47), fino al 1949, il personaggio resistette a diverse critiche di “eccesso” di femminismo: nel ‘44 addirittura fu eletta, in un albo, Presidente degli USA …
E comunque Wonder Woman, come rispondenza all’ideale di femminilità, seguì nei decenni con flessibilità e intelligenza creativa l’evoluzione dei tempi.
Ma la svolta nell’immaginario fu la rappresentazione che ne diede l’attrice Lynda Carter in una famosa serie tv degli anni ‘75-‘79: potente, statuaria, umana e ricca di sfaccettature (anche ironiche), restò la più efficace ed incisiva sua incarnazione. E anche un modello di difficile riproduzione.
Però si sapeva che la DC Com., con discrezione continuava a fare casting e provini alla ricerca di una sua degna erede. E l’ha trovata in Gal Gadot, un’attrice e modella, Miss Israele 2004, di 32 anni. È una stangona di 1,78 cm, flessuosa ed elegante, di poco più alta dell’iconica Lynda Carter (1,75). Ha fatto la militare nella Tsahal (l’esercito d’Israele), dove restata per due anni, è diventata esperta in tecniche di combattimento individuale e sopravvivenza. Insomma un’amazzone original. E funziona.
Dallo schermo trasmette quel senso di tranquilla potenza e virginea, ancora adolescenziale, gentile ingenuità, ma non incoscienza di fronte alla vita. Che diventa furia e determinazione, quando ne va della propria e altrui sopravvivenza.
Ha anche dei risvolti, leggeri, talvolta di cor’e mamma, ma sempre resi simpatici da autoironia: Gal Gadot riesce a tenere botta e non sfigurare, nella prima parte, con attrici come Connie Nielsen e soprattutto Robin Wright. Anche il suo rapporto coll’attor giovine Chris Pine, è felicemente e credibilmente incorniciato in una sentimentalità vittoriana, ed ha sfumature di segreta dedizione.
A dirigere tutta questa roboante orchestra narrativa è una regista, Patty Jenkins, per la prima volta alle prese con un blockbuster: è un’autrice che ha condotto Charlize Théron all’Oscar nel 2003 con Monster, un film psicologico e a suo modo intimista, ma su una serial killer, un piccolo capolavoro. Questa regista, che è stata definita dalla critica la vera Wonder Woman di tutto l’ambaradam, è la rivelazione del film.
Tra l’altro ha preso una forte posizione sul fatto che le donne registe sono pochissime, e ancor meno quelle cui vengono messe in capo budget sostanziosi (qui si parla di 100mln di dollari). La Jenkins ha gestito il film con decisione, intelligenza e senso generale molto preciso. Avendo ben chiare la personalità di Diana, le sue differenze rispetto all’Universo eroico tradizionale, le ha sviluppate graficamente e gestualmente in maniera adeguata, pur all’interno della “grammatica generale” dei film dei Supereroi.
In questo moltissimo aiutata dalla perspicua sceneggiatura di Allen Heinberg; che, non molto attivo per il grande schermo (questo è addirittura il primo film accreditato), è viceversa attivissimo, apprezzato e conosciuto per le serie tv, sia come sceneggiatore che come produttore. Suoi sono stati moltiepisodi di Sex & City, della fortunata Grey’s Anatomy, The O. C., ed altre ancora.
Faccio notare che la figura del Producer nelle Tv Series ha una valenza artistica di coordinamento creativo molto più rilevante che nel cinema. La qualità della scrittura si rileva, oltre che dall’insieme dei personaggi, segnatamente dalla definizione del nemico. È colui che rappresenta il punto di polarizzazione dell’intera vicenda: se è fiacco, o rappresentato approssimativamente, il film ne risulta debole, per quanto siano efficaci e ben fatti gli effetti visivi.
Qui Ares, il nemico “totale” della nostra eroina, è determinato con molta maggiore articolazione, con un risvolto a sorpresa indovinato: che contiene una riflessione più elaborata e non semplicistica sulla guerra. In questo ha oltremodo aiutato l’inconsueta ambientazione della I Guerra Mondiale, dove la distinzione tra cattivi o buoni era molto labile: quindi le responsabilità della guerra stessa non erano così di facile attribuzione.
Siamo sostanzialmente all’interno di un inappuntabile e realistico discorso storiografico, pur rigorosamente entro il perimetro del filmone fantasy. Perciò ha conseguito il successo planetario: l’intelligenza, e talvolta la genialità, delle soluzioni adottate, sono state riconosciute dai pubblici parte integrante di una narrazione apparentemente tradizionale, e ne hanno moltiplicato la forza e la presa.
Gli effetti speciali sono stati curati da due maestri del genere: Max Holt e l’italiano Maurizio Corridori, che ha lavorato sulla prima parte del film, ambientata da noi tra le solari Palinuro, Marina di Camerota e Matera.
Quelli visuali sono stati di raffinata efficacia anche pittorica, molto art déco. Le due “specialità” hanno giocato un ruolo importante, ma sempre correttamente ancillare all’insieme. Il Supervisor dei visuali (VFX) è Bill Westenhofer, un vero e proprio originale visual artist.
Un’ultima notazione è sullo scettro che viene consegnato a Diana. Lei è figlia degli Dei dell’Olimpo: quindi presumibilmente pre-cristiana; che ci fa la Croce incisa su di esso? Però, riflettendoci, non è una semplice croce: ma il simbolo della Chiesa di Scientology, la nota e chiacchierata setta che ha molti adepti a Hollywood. Non è che, attraverso Diana, siamo in presenza di un qualche “messaggio” ideologico-subliminare?…