La Recensione, Una famiglia
di Francesco “Ciccio” Capozzi
In una zona periferica di Roma, Maria e Vincenzo sembrano una normale coppia. Essi però fanno nascere figli che “vendono” a coppie sterili. Maria però sta maturando altre scelte. Il film (ITA-FRAN, ‘17), come indica nei titoli, si ispira a fatti di cronaca.
Regista di Una famiglia è Sebastiano Riso, e ne è anche sceneggiatore insieme ad Andrea Cedrola e Stefano Grasso. Il regista, catanese, molto attivo nel cinema di realtà e anche in tv – è stato anche aiuto regista di A. Sironi in una serie di Montalbano – si era segnalato per un film di fiction, su un transgender, famosa drag queen, Più buio di mezzanotte (‘14). Il film, opera dal tocco sensibile, fu candidato ai Nastri d’Argento come miglior regista esordiente, e pure Micaela Ramazzotti, presente nel film, ebbe una nomination.
E la stessa delicatezza di tocco manifesta nel delineare questa scabrosa e, per certi versi orrida, vicenda di tratta di neonati. La protagonista è la ragazza, anche qui Micaela Ramazzotti, che concede il suo amore ad un uomo, l’attore francese Patrick Bruel, che la strumentalizza cinicamente e ferocemente. Ma il ritratto che il regista fa della ragazza è attento non a trovare delle giustificazioni, quanto delle motivazioni al suo essere tale: lei risulta in balìa della propria affettività per il suo uomo, che ama fino alla propria distruzione.
È un personaggio tra lo sciroccato e la minus habens cui ci ha un po’ abituati la Ramazzotti, in una sorta di cliché. Però è da aggiungere che il carico di emotività indifesa, di rispondenza fisica viscerale alla sua natura è sentito e sincero; e non avvertiamo note stonate. Il film è su di lei. E sul percorso di presa di coscienza della propria dimensione materna, più che di ribellione vera e propria, o di processo di consapevolezza di lei come persona, che continua ad essere evanescente.
Questa particolarità della sua caratterizzazione è ben tenuta presente In questa coerenza di approfondimento delle relazioni, che evita del tutto ogni chiave hollywoodiana, ma persegue il “togliere” rispetto all’”aggiungere” ed enfatizzare, il film è lineare e funziona.
Il conflitto tra la lucida cattiveria del compagno, che vive tutto come su una sorta di scacchiera dei sentimenti da sfruttare con una mostruosa e indifferente freddezza, e il mondo affettivo della donna, che ne è vittima, è la base drammaturgica di Una famiglia.
Di questa fa parte pure l’ambigua nuova presenza della ragazza, l’attrice Matilda De Angelis, vista nel riuscito Veloce come il vento (‘15), vittima di relazioni personali e familiari sballate, su cui il maturo compagno sta “puntando”, attraverso la costruzione di una relazione patologica al fine di “allevarla” come sostituta di Maria.
È una perfidia che si maschera della faccia ordinaria e insignificante di un uomo senza qualità, tipico di quello “della porta accanto” più nero del demonio: anche se non fa alcun gesto di cattiveria spettacolare, tranne che sul finale. Ma pure quel gesto avviene quasi nell’indifferenza.
Che dire di questo film? È bello? Non è bello? Certo colpisce nella sua ruvida e spinosa veridicità e infinito squallore: e sono gli unici parametri, peraltro utilizzati senza “gridarli”, in cui è possibile inquadrare e in un qualche modo rendersi conto di comportamenti così rivoltanti.
È da dire soprattutto che il regista ha avuto una forte dose di coraggio. Ha affrontato, e, di fatto, ha saputo controllare, l’esposizione di un tema assai scabroso, da una parte, con un punto di vista tratto dallo stile del cinema di realtà, volto a documentare i fatti e le loro ragioni. Dall’altra Sebastiano Riso ha riflettuto profondamente sul come sia possibile trasformarsi, da parte della donna, in complice di questo delitto. Questi due corsi sono paralleli e si illuminano a vicenda: ed in questo è la qualità di sceneggiatura che emerge. Costruendo inoltre, contemporaneamente, nel corso del film, dei comportamenti che diano alla donna delle motivazioni che poi la portino ad uscirne. Il regista immerge il senso dello spazio in una vivace dinamicità visuale che fa da contraltare silenzioso ai processi interiori che si sviluppano nell’anima della donna.
Vi sono degli elaborati movimenti di macchina in piano sequenze ascensionali e circolari, che mettono in luce la compressione ambientale che limita e opprime, come una prigione i due, soprattutto lei.
La direzione della fotografia, di Piero Basso, passato attraverso numerose esperienze di cinema di realtà, amplifica la tonalità opprimente di questa visione.
Il montaggio è di Ilaria Fraioli: la sua attività è stata di versatile sperimentatrice narrativa con diversi registi, sia nel cinema di realtà che fiction. Qui accompagna ed esalta i sensi della trasformazione con efficacia silenziosa.