La recensione, Tonya
di Ciccio Capozzi
Tonya Harding è una eccellente pattinatrice artistica Usa di fama mondiale che nel 1994 fu accusata di aver azzoppato una sua concorrente. Il processo che la coinvolse ne distrusse per sempre la carriera.
Il film Tonya (USA, ‘17) prende le mosse da questo strano e controverso personaggio: non è un tradizionale biopic, nel senso che non illustra linearmente la sua ascesa e caduta. Anzi, rovescia molte leggi e convenzioni di questo genere narrativo. Parte da una sceneggiatura, originale e preesistente al film, nel senso che non fu commissionata da nessun produttore, come avviene di solito. La scrisse e l’offrì in vendita Steven Rogers: conosciuto come fine cesellatore di storie romantiche, tra cui Nemiche amiche (‘98) con Susan Sarandon e Julia Roberts. Esiste a Hollywood una Black List, aggiornata ogni anno, di sceneggiature online, spesso di qualità, che non sono state realizzate, perché indigeste agli Studios che vogliono prodotti e vicende più sul convenzionale. Qui la lesse l’attrice nata in Australia, come il regista del film Craig Gillespie, e produttrice Margot Robbie: personalità forte, ha già caratterizzato la sua Jane, in La leggenda di Tarzan (16), in modi tosti e energici, in Suicice Squad (’16) è la folle Quinn di selvaggia e sboccata energia. Insomma: è una che non si tira indietro dalle difficoltà; inoltre colse, con molta intelligenza, appieno tutte le potenzialità del personaggio e della storia, interpretandolo e producendolo.
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Il “Caso Harding” fu storicamente molto complicato: la sceneggiatura dà perfettamente conto di questo. Perciò adotta modalità non tradizionali di narrazione: sembra che intervisti le dramatis personae, adottando la forma del mockumentary, cioè del finto documentario. Ognuno afferma la propria verità, in un mosaico di difficile lettura; anche perché le versioni sono contrastanti. Ricorda il capolavoro di Akira Kurosawa Rashomon ‘(50). Però non è un film sul relativismo, in salsa metafisico-pirandelliana, in cui si cerca, non trovandolo, il “valore supremo” della verità. Al contrario, si cerca di capire le persone che si celano dietro quelle storie così ben arzigogolate da sembrare ancora più fasulle: tutti tentano di apparire ripuliti dalle scorie del falso, del finto vero, direbbe Stephen King. Perciò sono ancora più minacciosamente criminali.
Gli autori “montano” questa sequela di ammiccamenti pieni di trappole, esplicitate con una specie di ingannevole saggezza ex post: sono tutti intervistati molto dopo i fatti. Ognuno col suo carico di fandonie e di vita azzoppata da quell’episodio.
La regia rende complessa l’identificazione della verità: parrebbe esservi una specie di giustificazione per Tonya, che, sia pur in un clima di ambiguità colpevole, era all’oscuro di tutto. La meno colpevole (forse): ma quella che ha sicuramente pagato di più. E ciò, sembrano quasi dire gli autori, perché era una poveraccia, che aveva “osato” essere un’atleta fuori del comune, perfezionandosi con un duro e massacrante lavoro, arrivando a punte di eccellenza ancora oggi non raggiunte: ma senza accettare le regole della struttura cui apparteneva. E che si è vendicata: l’ha spietatamente espulsa, appena possibile. Con un madre, la sua prima carnefice, che l’ha distrutta.
Solo Tonya di tanto in tanto si rivolge direttamente al pubblico: in modalità che diventa ironica e straniante: ma è perfettamente funzionale a rendere la complessità del personaggio, il vero centro del film. Ci dice bugie, copre e attenua omissivamente responsabilità: eppure è la più umana, e più simpatica.
All’epoca dei fatti Tonya Harding aveva 23 anni: una ragazzina. Eppure nessuno ha tenuto conto di questo. Tonya faticosamente, fuori dal suo amatissimo pattinaggio artistico, ha dovuto ricostruirsi un’esistenza daccapo, con coraggio e determinazione, restando sempre la Tonya che abbiamo visto. La Robbie dà un’interpretazione molto vitale, ricchissima di sfumature. Ma più ancora di lei, il personaggio meglio dipinto è quello della madre: una bravissima Allison Janney che ha vinto l’Oscar ‘18 come miglior attrice non protagonista.
Il film non avrebbe funzionato se, oltre agli attori, tutti in parte, non avesse avuto una montatrice come Tatiana S. Riegel, Nominated agli Oscar, insieme alla Robbie. Riesce ad accordare ritmi di violenza psicologica a fluide, vive e appassionanti illustrazioni dei numeri di pattinaggio.
La difficoltà delle riprese è notevole: ma la direzione della foto di Nicolas Karakatsanis, che talvolta si è messo anch’egli sui pattini, ha fatto miracoli. Vincitore di Premi in giro per il mondo ha saputo dare toni unitari e rendere i cromatismi degli anni ‘80 e ‘90 in cui si svolge la vicenda. Ma soprattutto ha evidenziato con forza quel senso di claustrofobia ambientale, che era una vera e propria dimensione esistenziale, non solo fisica di povertà sociale, attraverso toni e gradazioni sempre stinte e smorte, che accentuavano quel senso di precario e di infelicità della protagonista.
A mio avviso, il film è un’altra riuscita (perché non gridata, né ideologica) lezione brechtiana sul capitalismo e la cultura fallace del sogno americano. È piaciuto a molta critica: ma qualcuno ne è stato entusiasta, come Valerio Caprara. Posizione questa che condivido in pieno. Film di qualità, vero e sincero, costruito in maniera compatta, pur non essendo fatto per accattivare i gusti del pubblico, ha avuto un incoraggiante riscontro al botteghino: costato sugli 11mln di dollari, ne ha incassati 30.
Ciccio Capozzi, già docente del Liceo Scientifico
porticese Filippo Silvestri, è attualmente
Direttore Artistico del Cineforum
dell’Associazione Città del Monte|FICC al
#Cinema #Teatro #Roma di Portici.