La recensione, The founder
di Francesco ”Ciccio” Capozzi
1954: un rappresentante agli sgoccioli della sua non brillante carriera s’imbatte in un ristorante, in un posto sperduto della California, che fa eccellenti panini in poco tempo, a poco prezzo. Nasce la leggenda del McDonald’s …
Molto illuminanti le parole della star del film, l’attore Michael Keaton, rese in più di un’intervista: «Non è una storia del fast food, ma una parabola sul capitalismo americano». Vi aggiungerei altri due aggettivi: nera e brechtiana.
Ray Kroc, il rappresentante dell’Illinois su cui gira il film, è davvero un uomo “senza qualità”: senza essere né geniale né imbecille, ma dotato di una formidabile ambizione e di una sterminata furbizia e senso degli affari, è in possesso di quella particolare sensibilità verso il nuovo, il diverso e l’originale, che è tipica dei rappresentati di commercio che per lavoro, girano, conoscono e confrontano, ma soprattutto imparano alla svelta.
Non è necessario essere dei geni; anzi: è richiesta una certa qual dose di mediocrità. Bisogna infatti sviluppare, tra le tante forme di intelligenza, una in particolare: quella dell’adattamento. Affinare queste qualità fa parte del corredo di sopravvivenza: pena la loro scomparsa dal mercato.
Kroc era un concentrato esponenziale di queste attitudini, compreso un ruvido ed energico cinismo e una buona dose di spregiudicata astuzia. Animato da un’ambizione sconfinata, sorretta da fede quasi messianica in quegli indottrinamenti del self help nella riuscita negli affari: ovvero quegli elementi di ideologia della cultura del sogno americano, che in quegli anni caratterizzavano l’ascesa, quasi senza limiti, della ricchezza, del benessere degli USA, connesse strettamente alla sua potenza economica e militare.
Quando Kroc incontra in quel di San Bernardino i due “angelici”, nel senso di ingenui, ma reali innovatori della ristorazione, i fratelli Dick e Mac McDonald, ne coglie a volo la genialità; e vi si getta sopra come uno sciacallo famelico.
I due, uomini d’affari e imprenditori, seguivano una loro etica sia di lavoro che nei rapporti col pubblico ma, affidandosi all’entusiasta Kroc, avevano completamente sbagliato soggetto. Il quale si rese ben presto conto che il limite allo sviluppo, sia industriale che finanziario, di ”idea” McDonald’s, erano proprio i due. Con quelle “assurde” remore nel cambiare, in nome della redditività, alcuni elementi del confezionamento del prodotto e dell’organizzazione del loro business ma soprattutto concentrati nel dare un prodotto di pregio, anche a detrimento dei guadagni.
In effetti in The founder ci viene data un’importante lezione di capitalismo finanziario, allorché si precisa che la svolta multimilionaria dell’azienda è quando diventa proprietaria dei terreni dove erano allocati i chioschi. Ecco quindi che tutta la leggenda tipicamente americana degli archi dorati dei ristoranti McDonald’s, simbolo di una società affluente col suo cibo a buon prezzo e di buona qualità, evapora.
In realtà la ricchezza e il valore aggiunto esponenziale vengono dall’implementazione dei costi speculativi, legate al successo dei panini, dei terreni dei chioschi. E difatti la McD è uno dei più grandi speculatori edilizi del pianeta. Ed è stato esattamente questo, non il franchise, l’affiliazione ecc, che ha lanciato finanziariamente la McDonald’s come potenza attuale e ha fatto del marchio un brand universale, una tipica figura della globalizzazione, la cui ideologia è chiamata, appunto, quella del McWorld, secondo la sintetica ed efficace definizione del 95 del sociologo Benjamin Barber.
Del resto, ben presto Kroc, nel ‘62, cacciò – proprio per “riconoscenza”…- dall’azienda quell’oscuro ragioniere che aveva visto giusto nei conti della McD, sviluppando questa fondamentale intuizione finanziaria. Ma il punto di cattiveria più malefico, fu quando spossessò i fratelli McDonald del loro stesso cognome, impedendo di metterlo sul loro ristorante, insieme gli archi dorati, dopo aver dato loro una manciata di lenticchie e averli ingannati con una promessa di percentuale sui profitti: ancora una volta avevano ripetuto il colossale errore di fidarsi di Kroc.
Non pago di questo, fece costruire proprio davanti al vecchio ristorante dei due, che fu il primo storico McDonald’s, che comunque continuava a fare profitti, un chiosco McD “ufficiale”, costringendoli al fallimento. Più strategicamente cinici di così …
Ma questa è per l’appunto la “lezione” brechtiana “attuale”: non ci può essere arricchimento se non attraverso la trasformazione dell’industria in finanza; e l’adeguamento alle sue logiche spietate e senza scrupoli, da cui sono assenti ogni e qualsiasi forma di etica, che non sia l’arricchimento eccessivo stesso: questo è il capitalismo, baby …
Restati senza figli, i Kroc lasciarono maliconicamente il loro ingentissimo patrimonio a Fondazioni e in beneficenza.
Il film (USA, ‘16) questo ci dice, grazie ad una perfetta, ricca e attenta sceneggiatura, di Robert D. Siegel: è equilibrata nel legare strettamente questi elementi documentari alla tormentata e inquieta personalità di Ray Kroc, interpretato da uno splendido, ambiguo e complesso Michael Keaton. Egli appare a limite tra la pura energia narcisistica fisica e l’incrollabile ossessione dell’arricchirsi a ogni costo: dotato di una determinazione che diventa sempre più onnivora (tra l’altro, egli è spesso inquadrato nell’atto di divorare cibo quasi con voluttà), calpesta e fagocita chiunque gli resista o che lui pensa sia d’ostacolo.
Iniziando dalla prima moglie, sensibile, muta e impotente, perché donna “ordinaria”, ben diversa dalla seconda moglie, testimone della sua trasformazione, impersonata l’attrice Laura Dern, da cui divorzierà con sbrigativa e brutale decisione ben presto. Terminando coi due sprovveduti e incauti McDonald.
La regia è di John Lee Hancock: nasce come sceneggiatore, anche di Clint Eastwood. Ad Hancock si deve il riuscito e raffinato Saving Mr Banks (UK,’13), sui rapporti tra Walt Disney e l’autrice di Mary Poppins. La sua regia sembra assente: ma è il contrario. Presentissima nel dare voce e spazio a tutte le componenti narrative, che sono numerose e non tutte semplici, illustrandole e coordinandole senza moralismi o apriorismi ma soprattutto dandone delle interiorizzazioni connesse al fare dei personaggi. Ci conduce con sicurezza nei meandri delle loro motivazioni: ma lascia che siamo noi a trarre le conclusioni.
Di grande qualità e funzionalità, oltre che di vera e propria bellezza, è la scenografia di Michael Corenblith: tra intuizioni grafiche alla Hopper e Rockwell, illuminata dai cromatismi apparentemente senza ombre della foto di John Schwarzman, rende un’America in fase di sviluppo, piena di energia e di inganni.