La recensione, The Beatles. Eight days a week
di Francesco “Ciccio” Capozzi
Dal 1963 al 1966 I Beatles girarono il mondo in una serie impressionante di concerti live che fecero epoca. Poi decisero di non farne più. Il film (USA, ‘16) ne è la documentazione.
Il regista Ron Howard ha affrontato un’altra “balena bianca”: ha analizzato ore ed ore di filmati. Più di duemila, raccolti dal 2002, molti dei quali inediti, fotografie già esistenti, interviste, cui ha aggiunto delle nuove, ma tutte rigorosamente connesse a quel periodo. Infatti il sottotitolo del fim recita The touring years.
Il regista e i suoi sceneggiatori, Mark Monroe e P.G.Morgan, hanno cercato di mettere a fuoco con molta umiltà e affetto la realtà umana dei Fab Four, “leggendo” questa imponente documentazione, senza lasciarsene sopraffare. Non hanno affrontato tutta la seconda parte dell’esperienza dei Beatles, oppure quella riguardante le carriere dei singoli fuori dal gruppo.
Eppure ciò che colpisce profondamente di questo film/documentario è proprio la complessità del fenomeno Beatles, che viene narrata passo dopo passo con assoluta linearità. Il loro genio splende come un diamante. Fin dalle prime esibizioni al Cavern di Liverpool senza Ringo Starr alla batteria, che vi aderì nel ‘62, si vede come il fare musica a quei livelli era pura espressione di un talento individuale e collettivo, poi educato e approfondito.
La venuta di Ringo, che fu come una meteora nel cielo, caduta da loro, fu la quadratura del cerchio: il suo apporto creativo nelle ritmiche di base fu definitivo e tale da far esprimere meglio le innovative sonorità degli altri tre, tra in quali è da aggiungere anche il fin qui sottovalutato George Harrison. Dei quattro è quello che appare di meno, o quasi sempre di sbieco – ma era anche il più timido – la cui capacità di sviluppare in riusciti assolo, le intuizioni degli altri due geni Paul e John è da manuale.
I Beatles furono dei grandi musicisti. Nel film appare lo storico della musica e compositore Howard Goodall che li paragona risolutamente a Mozart e a Beethoven. Concordo pienamente. Noi oggi di Wolfgang Amadeus Mozart continuiamo rapiti ad ascoltare la Eine kleine Nachtmusik. Ma all’epoca essa, nata proprio per sfida a delle riuscite ariette popolari, fu considerata da Salieri e altri corteschi compositori una «… vil musichetta per fantesche», che andava contro i canoni della musica cosiddetta colta del tempo. E fu solo grazie alla perseveranza del compositore di Salisburgo che essa si impose ai suoi pubblici, tra cui quelli anche dei suoi nobili mecenati.
I Beatles perfino dalle prime sconvolgenti canzoni degli anni ‘60 portarono al massimo grado di pienezza e articolazione di suono, la “concertazione” delle due chitarre, del basso e della batteria: senza l’aggiunta di altro. E lì non è questione di mezzi tecnologici, com’è ora nei concerti dal vivo, con impianti da mostruosi megawatt: perfino in sonorizzazioni penose all’aperto, il suono giungeva forte e perentorio. Perché esso era assemblato dai 4 in modo potente e originale. Tutti hanno appreso da loro: compresi i miei amati e da me preferiti Rolling Stones.
Il personalissimo canone collettivo dei Beatles è costruito sulla perfetta intesa e miratezza del sound complessivo: esso è studiato in ogni singolo accordo. Tant’è vero che esistono gli spartiti per chitarra basso delle loro canzoni di Paul McCartney: non si limitava ad “accompagnarle” con accordi, ma vi “costruiva” dei veri e propri sottotesti musicali di funzionale sottolineatura, che “riempivano”, allargandolo e potenziandolo, il loro sound.
Ma la freschezza e la riuscita del film, che resta un’ulteriore declinazione di “cinema di realtà”, questa volta in chiave storica e analitica di materiali già presenti, è che si è riusciti ad evitare le secche sia del film agiografico che quello della nostalgia. Non c’è un’acritica e vuota celeb dei Four: c’è l’analisi attenta e molto umana del comportamento dei ragazzi di Liverpool che dalla sera alla mattina, parlando quasi nemmeno un inglese comprensibile – il loro era il gergo del popolino – e si sono ritrovati al centro della ribalta planetaria.
Eppure, sostenuti solo dall’intesa tra di loro affettuosa e amicale e dalla capacità di mettere collettivamente a frutto, e senza gelosie o prevaricazioni, il talento che sentivano scorrere, e di cui erano perfettamente consapevoli, si “gettarono” nella mischia. Resistendo per quattro anni forsennati: i ritmi dei viaggi erano massacranti; poi le composizioni dei nuovi testi, i film … Ma venivano sottoposti a questi ritmi perché i loro impresari li ritenevano un fenomeno passeggero, da spremere al meglio e nel minor tempo possibile.
In loro montava una vera e propria angoscia, il cui segno più palese fu lo straziante grido, in forma di bellissima canzone, di Help. Eppure erano dei professionisti solidi che mantennero fede a tutti gli impegni: solo a Jacksonville, nel profondo sud razzista USA, si sarebbero rifiutati di suonare ad un pubblico solo bianco: e vinsero la loro battaglia.
E nemmeno gli autori dello script si lasciano andare alla considerazione del “tempo passato”: quella forma di nostalgia, che mette se stessi al centro della narrazione. Anzi, che avrebbe strumentalizzato i Beatles, in definitiva, per parlare di sé quando erano giovani: perché sicuramente quella era la colonna sonora dei tempi.
Gli autori, grazie anche al lavoro del montatore, specializzato in questo tipo di cinema, Paul Crowder, ci presentano i materiali in una narrazione unitaria e limpida, da cui emerge un senso ben definito: quello del confronto e della riflessione soprattutto tra di loro, e di come organizzarono la loro resistenza/”resilienza” all’incalzare degli impegni. E di come, comunque, il loro talento ne risultò accresciuto e rinvigorito, sia per la consapevolezza del loro impatto sui pubblici; sia per la necessità che sentivano fortissimamente di creare, sperimentare, innovare.
Anche spiazzare i pubblici del mondo sulla loro immagine. E qui c’è lo spazio per ricordare il loro primo impresario, l’infaticabile sempre dandy, ma intelligentissimo Brian Epstein, e soprattutto, il loro direttore artistico-ingegnere del suono George Martin.
Venuto a mancare proprio alla vigilia della presentazione del film, fu lui, colla sua forse paterna disciplina e le sue capacità di gestione tecnico-musicale, che instradò, arricchì e controllò che il loro enorme talento non si disperdesse nella immediata improvvisazione o nel pressappochismo ma fosse coerentemente e rigorosamente sviluppato e approfondito in ogni suo passaggio. Diede loro degli strumenti operativi essenziali per la loro formazione di musicisti.
Di questo nel film è data piena contezza: soprattutto come onesto e riconoscente tributo dei 4 nei suoi confronti.