La Recensione, Styx
di Ciccio Capozzi
Colonia, giorni nostri. Una efficiente dottoressa del pronto soccorso salva un balordo del sabato sera che, in auto, ubriaco è andato a schiantarsi. La stessa parte in solitaria su uno yacht di 11 metri a vela, verso il paradiso incontaminato delle isole di Ascensione. Incontra, dopo una tempesta, una nave di migranti alla deriva: è impotente a salvarli tutti. Chiede soccorsi, che tardano; riesce a salvare un solo ragazzino mentre davanti a lei, disperata, si consuma il dramma.
Il titolo di Styx (AUSTRIA-GERM, ‘18) è la traduzione di Stige, il fiume infernale che nella mitologia classica e dantesca porta agli Inferi: ed è il mare, aperto e sconfinato, che trasporta questi esseri umani, che hanno cercato un avvenire degno di essere vissuto, verso la loro fine. Peraltro annunciata. Che avviene nella più totale indifferenza, se non addirittura larvata complicità.
L’edizione di Styx che circola nella sale italiane è in versione originale sottotitolata (V.O.S.): ma c’è ben poco da “spiegare” oltre alla potenza nuda delle immagini. Il regista austriaco Wolfgang Fischer non ha alle spalle una corposa filmografia: ma la sua formazione universitaria, non essendo solo cinematografica, bensì dalla psicologia e dalla pittura, lo ha messo in grado di esprimere un approccio al problema più articolato. Fischer lo affronta come da lontano: dallo sguardo degli abitanti la parte ricca del mondo. Spettatori che, anche in buona fede, non si pongono il problema dell’assoluta drammaticità del problema delle migrazioni. E di cui, anche se non direttamente, sono “parte in gioco”, anche senza saperlo e volerlo, come è detto alla ormai frastornata dottoressa nel sottofinale del film.
Perché, in metafora, siamo tutti storicamente beneficiati e complici dello squilibrio che ha reso ricca “questa” parte del mondo, impoverendo e destabilizzando l’”altra” parte, che è costretta a spostarsi verso le zone agiate. E lo fa con pericoli mortali e in condizioni di inumanità.
E queste sono considerazioni di evidenza storica: non astrattamente autopunitive. Nella sceneggiatura da lui stesso scritta, il regista ha messo in luce la ricchezza e la forza del carattere della protagonista, l’attrice tedesca matura e incisiva Susanne Wolff: abituata a salvare vite umane, di energica personalità, perfettamente autosufficiente, in grado di gestire, per quanto con umanità, con assoluta professionalità, crisi anche gravi. Ebbene: lei non può farci nulla. Deve stare a guardare che i migranti sulla nave facciano una fine orribile. Il dramma che scoppia in lei, a dispetto della mirabolante e sottolineata efficienza ipertecnologica delle attrezzature di cui lei è in possesso in quel piccolo spazio, è assumere un ruolo che lei, come carattere, formazione e capacità, ha sempre rifiutato, da donna, da professionista, da essere umano: stare alla finestra.
Solo un ragazzino, più forte e ostinato riesce a raggiungere la barca: ma diviene un problema, perché vorrebbe costringere la dottoressa ad andare a salvare la sorellina. Ma se lo facesse sarebbe la fine per lei insieme agli altri. Il suo cercare disperatamente aiuto è, sia pur in minima parte, un cercare di sgravare la coscienza da questo peso: ma nessuno l’aiuta. Né le autorità preposte, le cui risposte sono evasive, fredde e di nessun conforto; né altri grossi natanti, su precise disposizioni delle proprietà: ogni Diritto del Mare sulla necessità di salvare naufraghi, è ipocritamente sospeso. Sulle stragi in mare cala il silenzio complice. Il film questo ci dice con uno stile serrato e di grande efficacia cinematografica: il silenzio, come ha dichiarato l’autore, incombe sui fatti narrati. In questa dimensione la narrazione si svolge con realismo sconcertante che mette in luce la capacità della donna di sopravvivere pure nella tempesta. Che è l’unico momento dove hanno usato Effetti Speciali , per produrre le onde terrificanti. Per il resto il maghi sono stati il Direttore della foto, lo svizzero Bendikt Neuenfels, che ha attentamente dosato la lividità dei panorami marini con gli intenti drammaturgici e tematici del film; e l’eccellente montaggio dell’austriaca Monika Willi. Personalmente non credo che esistano i cosiddetti film “necessari”: quei titoli k’s’ann’a’fa, cioè che si devono fare e ovviamente vedere. Ogni singolo film è un momento di fantasia realizzata che, presumibilmente, corrisponde alla profonda volontà di colui/coloro che lo realizzano. Tenendo conto dei tempi, degli esborsi economici, delle energie singole e collettive occorrenti a produrlo, la vera “necessità” è nel cuore e nell’intelligenza di coloro che massimamente hanno a cuore di portarlo a termine, siano essi il produttore o regista, o attore. In realtà nemmeno basta farlo: bisogna che sia visto; che circoli nelle sale. Altrimenti è inutile. E spero vivamente che queste note spingano, anche se poco, a vedere questo film così lucido, intenso e onesto.
Ciccio Capozzi, già docente del Liceo Scientifico
porticese Filippo Silvestri, è attualmente
Direttore Artistico del Cineforum
dell’Associazione Città del Monte|FICC al
Cinema Teatro Roma di Portici.