La recensione, Silence
di FRANCESCO “CICCIO” CAPOZZI
Giappone,1633: i cattolici sono perseguitati ferocemente. Due giovani gesuiti vogliono sapere che fine abbia fatto un loro confratello colà disperso. Entrano, a loro rischio, nel Paese …
Il regista del film Silence (USA, ‘16), il Maestro Martin Scorsese, in un’interessante intervista all’Osservatore Romano, parlando della dimensione del silenzio, ha detto che nella sua gioventù, passata come si sa nel caos di Little Italy, era attingibile solo in Chiesa e al cinema: in questo senso, il concetto è strettamente connaturato all’idea che si è fatto di cinema/Chiesa.
Né poteva essere altrimenti. Formatosi in ambiente culturale cattolico, è sempre stato il figliuol perennemente prodigo: colui che sta in attesa, fuori delle Chiese, dell’illuminazione per entrarvi, guardando con invidia coloro che vi entrano tranquillamente, in possesso della fede.
Del resto alcuni dei suoi più significativi film sono stati caratterizzati da questa perenne sospensione: a partire da Mean Street (‘73). Questo è un film dalla lunga gestazione: almeno 25 anni di tira e molla produttivi, ricerca attori ecc.
Ma perché ci teneva tanto a farlo? A mio avviso, sono ragioni diverse; e tutte profonde. A partire dalla sua natura di “cattolico/non cattolico”, il suo interrogarsi sulla Fede non poteva essere generico: ma doveva legarsi ad una complessa situazione storica, la cui analisi potesse esprimere tutte le dialettiche e le difficoltà di diventare e mantenersi credente nell’oggi.
Ecco quindi il problema storico della diffusione del cattolicesimo affidato ai Missionari devoti, zelanti e pervicaci diffusori della Verità. O per meglio dire di quella che credevano tale. Che doveva soppiantare, se non estirpare, ogni precedente fede, fosse essa ingenua animista o sofisticata culturalmente come il Buddismo, essendo tutte “inferiori” e/o sataniche.
È evidente la funzione colonizzatrice e strumentale di tale “verità”: infatti, insieme ai Missionari, apparivano i mercanti. E subito dopo, i cannoni degli Stati europei colonizzatori, che si rendevano istituzione e potere utilizzando la funzione ideologica della religione, distruggendo e soppiantando ogni precedente organizzazione sociale. Da dire che i commenti ufficiali della Chiesa – specie quelli Gesuiti – sul film hanno riconosciuto (per la verità da tempo) e riaffermato la violenza culturale e iniquità socio-politica di questa storica triade (missionari-commercianti-canoni). Non a caso, Scorsese ha incontrato Papa Francesco. Ma il Giappone era un paese dotato di una sua civiltà e una sua consapevolezza civile, quindi ha messo in essere un’attiva politica contro tale intrusione, perseguitando violentemente i cattolici.
E qui nasce il problema etico posto dal film: è giusto condannare a morte certa i seguaci della religione? Non è meglio salvarli, negando la propria stessa natura di diffusori, facendo apostasia? Ecco che si svela il mistero di Padre Ferreira (un possente ma complesso Liam Neeson). E anche si determina il destino del giovane padre gesuita Rodrigues, l’attore Andrew Garfield (che è stato Spider Man), di asciutta e profonda sensibilità, venuto in sua ricerca.
Ma: e Dio? Che fa? Non “sente” tutto questo dramma? Siamo o non siamo portatori della “sua” verità? Martin Scorsese risponde solo col silenzio: è il regista dell’inaspettato. Ad esempio: non si è rifatto a Ingmar Bergman, il maestro svedese che ha dedicato il film omonimo (‘63) e altri ancora sulla riflessione metafisica e religioso-esistenziale sul silenzio.
Invece c’è nel film scorsesiano un confronto assai singolare tra il giovane missionario e il “Grande Inquisitore”, il Governatore della provincia dove avviene il dramma, un un anziano Samurai, assai istituzionale. Non è né cattivo, né sadico, né intellettualmente limitato: anzi rispetta e apprezza le qualità di questi gesuiti. Ma li pone davanti all’evidenza, del tutto ragionevole, delle sue motivazioni. Ha modo di illustrare la spiritualità, affine – per certi versi – a quella del cattolicesimo, ad esempio sul tema della misericordia e della moralità, ma non transige sulle ragioni sociali e politiche della loro opposizione al Cristianesimo.
I colloqui tra i due, grazie anche all’intensa concentrazione drammaturgica degli attori (Garfield e il giapponese, bravissimo, anziano e saggio Issei Ogata) sembrano delle variazioni del paradossale e geniale racconto del “Grande Inquisitore” di Dostoevskij. Tratto da I Fratelli Karamazov, parlava di un Cristo ridisceso sulla terra: ma lo stesso condannato, perché portava “disordine” alle strutture organizzate religiose-fideistiche ormai instauratesi.
Il Governatore Inoue richiamava le coscienze profonde di questi Missionari al rispetto degli ordinamenti religiosi del Buddismo, egualmente provvisti di alti livelli di spiritualità, che rendevano il vivere sociale ordinato e civile. Anche se molti semplici credenti cristiani, contadini che vivevano nella miseria più nera, individuavano nel Paradiso dei Martiri, il posto dove erano quasi felici di andare, perché «lì non avrebbero avuto più fame, né pagato più le tasse».
Quindi tali Missionari non erano degli apostati, o lapsi (scivolati, ma in grado di ritornare sulla retta via, come li definì la Chiesa delle origini), ma dei credenti che nel silenzio della propria anima, avevano preservato, proprio grazie a quello, se non a sua causa, il nucleo essenziale della propria fede, come ci è chiaramente indicato nel sottofinale.
Come si vede, la sostanza culturale e filosofica del film è molto complessa. E rimane tale anche all’interno di una narrazione maestosa: la fotografia del messicano ma hollywoodiano Rodrigo Prieto, immerge il film in una composita atmosfera cromatica. Amplia al massimo gli spazi, contrapponendo quelli civili e sociali e quelli naturali. Ne sottolinea e chiarisce le loro coordinate storiche. Anche grazie agli apporti di gusto ed efficacia assoluti, del nostro scenografo Dante Ferretti, pluripremiato.
Silence è un film non solo di grande fascino visivo, ma di una compatta e tesa drammaturgia, per cui i nodi concettuali sono rappresentati dall’immediato fare dei personaggi, con poco spazio a considerazioni troppo parlate.
Gli stessi dialoghi chiave sono intervallati da visualizzazioni sceniche assai potenti: il montaggio di Thelma Schoonmaker, fidata e fissa collaboratrice di Scorsese, è abilissimo nello “spezzare”, con pochi ma essenziali tagli, e far “salire” ogni volta che può, la tensione.
Però, nonostante questo, non stupisce che non abbia attirato pubblico. Siamo di fronte ad un film di grande e stratificata complessità storico-concettuale, in una dimensione di unitaria e ininterrotta bellezza.