La Recensione, Millennium. Quello che non uccide
di Ciccio Capozzi
Lisbeth Salander, la solitaria hacker mercenaria, famosa e bravissima, riceve un compito “impossibile”: nientemeno che rubare ai computer della NSA, la fondamentale Agenzia di sicurezza americana, un protocollo informatico che permette di controllare da remoto tutti i sistemi militari satellitari del mondo. Ma sono in molti a volere questo algoritmo, e tra questi una temibile banda di assassini, gli Spiders.
Lo scrittore svedese Stieg Larson è deceduto nel 2004, appena cinquantenne: ha lasciato una trilogia di mistery intitolata Millennium. Si tratta di romanzi intriganti e molto ben costruiti: con personaggi indimenticabili. Tra questi, Lisbeth. In accordo con la moglie del suo creatore, erede del copyright del ciclo, e sulla base di appunti da lui lasciati, lo scrittore, anch’egli svedese, David Lagercrantz, ha continuato la saga: che vedrà nel ‘19 l’uscita del VI titolo. Continuazione, bisogna dire, che ne ravviva la qualità e il successo. La trilogia originale è stata portata sullo schermo da due diversi registi svedesi: il primo libro da Niels Arden Oplev, che lanciò la sconosciuta, ma tostissima Noomi Rapace, il II e il III da Daniel Alfredson. Solo il primo, a mio avviso, è fatto bene, e riproduce quella tipica atmosfera svedese.
Il primo ebbe un remake Usa nel 2011 di David Fincher: con la scelta azzeccatissima di Rooney Mara nella parte della protagonista. Che però andò così così.
Millennium. Quello che non uccide (USA-GERM-SVEZ-CAN-UK, ‘18) è tratto dal primo romanzo di Lagercrantz. Ed è quindi il V titolo: insomma una narrazione provvista di una sua vitalità e respiro narrativo. A me personalmente il film è piaciuto molto: dopo il primo dell’intera saga, del 2009, è il più bello e convincente. Regista ne è l’uruguayano Fede Alvarez. Noto per un remake del ‘13 di La Casa (il classico horror dissacrante di Sam Raimi) che non sfigurava a petto del modello, e per qualche altro titolo horror, l’autore ha fatto, intelligentemente, tabula rasa di tutto l’armamentario visuale e interpretativo precedente.
È stato definito un re-boot: un nuovo inizio. E in parte è vero. Ha cambiato l’attrice che interpreta Lisbeth: ora è stata affidata a Claire Foy. E bene ha fatto. Questa attrice, già nota per una TV Series, e vista recentemente inFirst man. Il primo uomo, incarna perfettamente la nuova configurazione di Lisbeth. O meglio: la sottolineatura di alcuni aspetti già individuati nelle precedenti rappresentazioni, ma che ora vengono prepotentemente messe in luce. È sempre stato un personaggio molto complesso e ricco di sfaccettature: ma soprattutto di zone d’ombra. Che, nei film precedenti, venivano chiaramente accennate, come un nodo di angoscia esistenziale che si portava appresso nel silenzio e in quell’ostentata noncuranza, se non aperta ostilità, per le norme comuni del vivere e dei comportamenti accettati, che ora vengono messe a fuoco.
Addirittura qui si parte dalla sua fuga dal padre, figura di manigoldo di rara, perfida e patologica cattiveria: il conflitto col quale ritorna implacabilmente in tutte le sue vicissitudini precedenti, anche su/contro metaforica e interposta persona. Ma assistiamo ad un’ulteriore complicazione: una sorella. Cui pur essendo molto legata, è stata da lei abbandonata per salvarsi. Lei è rimasta col padre, diventando la sua erede. In tutto: soprattutto nella genialità perversa e criminale. È interpretata dall’attrice olandese Sylvia Hoeks. Ne dà una rappresentazione magistrale per intensità e coerenza.
Trasformata in un mostro di femminilità asettica e raggelata, come una vampiressa albina (effetto di makeup: l’attrice al naturale è diversa e più bella), è lei che ha ripreso le fila del padre. Il suo parlare è lento e strascicato: anche quando fa la dolce, esprime un sottofondo, un basso continuo, di oscura crudeltà. Cui non sono nemmeno assenti delle tracce di erotismo avvizzito, velenoso e da mantide, frutto della perversa sottomissione sessuale al padre.
Tuttavia, per Lisbeth è sempre ‘a sora, verso nutre una sensazione ambivalente, una sorta di memoria affettiva, rinfocolata da complesso di colpa, perché l’ha abbandonata: è come se, nel tempo, avesse continuato inconsciamente a sentirsene responsabile. Anche se costei ha scelto di restare, però mantenendo una specie di ansia di risposta, per quanto distorta e distruttiva, verso l’inelusa presenza della sorella. Nella sua problematicità, il rapporto tra le due è il perno di Millennium. Quello che non uccide, assolutamente ben sorretto dalla sceneggiatura (dello stesso regista e di Jay Basu).
La Foy, a differenza delle altre attrici che l’hanno preceduta nel ruolo, appare più fragile: la sua indomita combattività è di pura sopravvivenza. Però ha un rapporto profondo, basato sul non detto ma assai empatico col geniale bambino semiautistico, anch’egli restato solo, che è una delle chiavi della trama del film.
Il montaggio, che non lascia scampo e pausa, e la fotografia, in cui prevalgono le tinte di una notta senza fine e senza speranza, sono di elevata qualità artistica e spettacolare: ma rigidamente poste sotto il controllo totale della regia.