La Recensione, Mary Shelley. Un amore immortale
di Ciccio Capozzi
La vicenda di Mary Shelley, scrittrice inglese dell’800 che a soli 18 anni scrisse il romanzo Frankenstein e del suo tormentato amore col poeta Shelley. Nonché della loro relazione con Lord Byron. È difficile impostare un film su una figura storica molto complessa come questa scrittrice. Figlia di famosi scrittori, dei quali la madre è stata considerata come una delle prime femministe del secolo, aveva una personalità definita e forte. Il suo incontro con Percy Shelley, il bel poeta “contro”, non poteva che essere fatale.
Il film Mary Shelley. Un amore immortale (USA-UK-LUSSEMBURGO, ‘17) dipana lo svolgersi di questo rapporto, “letto” dalla soggettività di lei, fino ad approdare alla scoperta della sua “voce”, come le preconizzava il padre, che le permettesse finalmente di far venire alla luce il suo talento, la sua personale ispirazione. La sfida della sceneggiatrice Emma Jensen, che ha scritto il film insieme alla regista saudita Haifaa Al-Mansour, è stata duplice: da una parte contenere in modi ineccepibili la documentazione storico-ambientale della vicenda, che è piuttosto intricata. Dall’altra, individuare forme di narrazione che collegassero i personaggi all’oggi, facendo presa sugli spettatori.
Ci sono riuscite? In verità la narrazione non si libera del tutto da quel che di didascalico che appesantisce alcuni passaggi e dialoghi: e ciò indebolisce la presa drammatica dei personaggi. Però, complessivamente, il film mantiene non solo una sua coerenza e linearità espositiva e tematica, ma convince e avvince.
L’attrice, oggi abbastanza un volto alla moda, Elle Fanning è Mary: è stata una scelta azzeccata. La sua fresca ma caparbia volontà di affermazione, dissimulata da quell’aria leggiadra e ingenua, dalla fisicità svettante ed elegante come un cigno, ma forte, determinata e appassionata nelle sue scelte, penso che renda la forza di questa scrittrice dal talento che a fatica, nel tempo, le si è dovuto attribuire. Del resto, a guardare i suoi ritratti dell’epoca, si rileva che è stata una donna affascinante.
E ancora più carismatiche e ben indicate, sono tutte le altre “facce” di contorno. Di più colpisce quella del poeta “maledetto” Percy Shelley, l’attore inglese Douglas Booth, di formazione culturale e professionale adeguata: il suo porsi come provocatore della morale corrente, ma in fondo fragile e volubile, e in cerca di una solida sponda affettiva, è resa senza isterie, ma con passaggi non privi di sfumature e di tensioni latenti. La sorella di Mary, Claire, è la simpatica, spigliata e vitale Bel Powley: inglese, ha la capacità, come in questo film in cui è la “sora racchia ma simpatica”, di uscire ed entrare da personaggi drammatici con guizzi di vivacità commediale senza perdere continuità gestuale.
Un po’ più scontata, ma sempre oltre “i minimi sindacali” del caso, perché forse troppo confacente all’iconografia tradizionale, è la figura di Lord Byron, interpretato da Tom Sturridge, attore anche di formazione teatrale. Quello più incisivo è la figuretta di Polidori, l’attore inglese Ben Hardy, medico e sodale di Byron, autore di Il Vampiro, anch’egli annichilito dalla vicinanza con Byron, tanto che il suo racconto fu a lungo attribuito al poeta inglese: per le stesse ragioni per cui il Frankenstein lo fu all’inizio a Shelley marito.
Da notare che l’incontro creativo fra tutti i personaggi, realmente avvenuto nella villa ginevrina sul lago Lemano, di Byron, in una serata autunnale del 1816, è stato oggetto di un affascinante film di Ken Russell, Gothic (‘86), che esplorava, al modo visionario e barocco di questo grande regista inglese, la nascita del libro della Shelley e di un momento topico della letteratura inglese. E credo anche che, facendo salvo lo stile dell’autrice, molto più sobrio di quello di Russell, e più concentrato su Mary, il film dell’86 sia stato tra le fonti d’ispirazione del presente. Perché quel fatidico rendez-vous svizzero rappresenta uno snodo centrale del film. Che è molto “recitato”: nel senso che definisce i personaggi attraverso dialoghi serrati e incessanti.
L’ambientazione e il montaggio sono però molto ben curati. Più in generale, assistiamo al darsi di una vena di spaesamento che percorre il racconto: è come se nessuno dei personaggi sapesse esattamente dove il destino li porti. E vi si sentono inadeguati e impreparati. Per me ciò ha una valenza positiva. È per questo che Mary immerge felicemente, dal punto di vista letterario, la figura del mostro del libro, nel flusso della sua personale sensibilità circa l’abbandono e la solitudine, in riferimento anche alla relazione col poeta. Questo dettaglio interpretativo di non piccola importanza è reso chiaramente nel sottofinale.
Ciò mi fa pensare all’esperienza biografica e formativa della regista: nata in Arabia Saudita, si è formata nei mestieri del cinema in Australia, agli antipodi del suo paese; come la sceneggiatrice (e produttrice) Emma Jensen che però vi è nata. Ma lavorare a Hollywood per le due è stato un ulteriore andare in un altrove privo di coordinate familiari e rassicuranti: il confrontarsi con questa scrittrice che, in anticipo e in opposizione alla sua epoca, del non luogo e non tempo culturale ha fatto la sua missione, ha dato al film delle linee di misteriosa e profonda risonanza spirituale.
Ciccio Capozzi, già docente del Liceo Scientifico
porticese Filippo Silvestri, è attualmente
Direttore Artistico del Cineforum
dell’Associazione Città del Monte|FICC al
#Cinema #Teatro #Roma di Portici.