Cultura

La recensione, Lettere da Berlino

di FRANCESCO “CICCIO” CAPOZZI

Berlino 1940: i coniugi Anna e Otto Quangel piangono il loro unico figlio morto in guerra. Decidono di scrivere delle cartoline anonime contro Hitler e il Nazismo: arrivano a inviarne ben 238…

Presentato alla Berlinale 2016, e basato su una storia vera, il film (GERM-FRA-UK, ‘16), è tratto da un romanzo preesistente, l’ultimo dello scrittore tedesco Hans Fallada, Ognuno muore solo (‘46). Il regista, Vincent Pérez, era già un affermato attore francese, ben noto anche oltralpe.

Queste due caratteristiche, la fonte letteraria e la prevalente formazione attoriale del regista, avrebbero potuto dare vita ad uno spettacolo lento e cinematograficamente poco convincente, benché animato, come suol dirsi, dalle migliori intenzioni, ma così non è stato. È vero che la sensibilità e la concentrazione  della regia si sono ben manifestate nella direzione degli attori, comunque splendidi, che rispondono ai nomi di Emma Thompson e Brendan Gleeson.

È da dire che il film funziona: e non c’è scompenso alcuno tra le prove degli attori e la generale atmosfera narrativa che caratterizza il film. La ribellione solitaria, disperata e senza voce dei due coniugi, ma decisa e incrollabile, non trova nessun apparente riscontro eroico esteriore. Erano persone di mezza età, né colti né belli; gente ordinaria, come tanti altri, banali e grevi, nel loro rappresentare ed essere fino in fondo classe operaia e popolare della Germania del tempo, magari un po’ più lucidi e meno passivi rispetto alla propaganda del regime. E lo erano per refrattarietà istintiva rispetto a ciò che dicevano le autorità. A differenza dei tanti che vedevano in Hitler e nei nazisti la salvezza assoluta che li aveva fatti uscire dalle paludi dei disordini e incertezze sociali del periodo della Repubblica di Weimar.

L’assurda e profonda insensatezza di una guerra che doveva necessariamente essere lo sbocco finale della follia del nazismo e che, dal loro interessato, per quanto limitato e minuto punto di vista, non ha nessun fondamento o giustificazione, ma che ha fatto trucidare il loro unico figlio, li ha posti di fronte al regime.

La diffidenza si è trasformata in discredito: e questo, animato dal dolore assoluto per la perdita è diventato insofferenza e desiderio di opposizione. Ma tutto ciò avviene nel silenzio di questi cuori, senza proclami né altisonanti o “nobili parole” lasciate ai posteri.

Il film è fortemente concentrato su questa dimensione, più che di solitudine, di insularità sociale, comunque sostenuta dal bastarsi a loro stessi: l’amore, profondo e reciproco, aveva dato uno sbocco diverso non più disperante o angosciante all’immane lutto subito. Aveva dato loro un’energia leonina. Perché solo una consapevolezza di questo genere poteva portarli a confliggere col Sistema hitlerian-nazista, dove tutto era un grigiore senza fine, efficiente oppressione e deserto.

In questa definizione, la direzione della foto, di Christophe Beaucarne, è di grande ed efficace supporto. Il suo originale e riuscito cromatismo accompagna come un incubo a occhi spalancati la descrizione, più eloquente di ogni discorso, di questa prigione a cielo aperto che era il Reich hitleriano. Il regime scorre attorno ai due, li circonda ma non li permea.

Anna e Otto Quangel resistono, pur essendo perfettamente consapevoli dei pericoli cui andavano incontro: erano i due contro Tebe. Hanno una forza che si esprime negli sguardi e nelle posture di gente “di poco conto”.

Il film ci consegna, in questa infinita atmosfera plumbea, il dissolversi del regime, che diventa a causa di questo ancora più feroce, occhiuto e pervasivo. E lo vediamo dagli occhi quasi bovini della apparente indifferenza di Otto, che comprende bene come la partita sia ancora più esasperata, perché la stupidità si associa all’incapacità di gestire un destino diverso da quello atteso, e lo rende ancora più disumano e vendicativo contro chi abbia osato ribellarsi.

Tuttavia, nonostante il terrore omertoso e complice dei cittadini berlinesi, la autorità inquirenti e le SS non riescono prendere i Quangel: e questa impotenza resterà tale nello spiegarsi il perché del loro fare. E questo si evince dall’esito che si darà il personaggio del Commissario, il bravo Daniel Bruhl. I due coniugi sanno che è solo questione di tempo. Ma non demordono.

La linearità della trama è impressionante. Ma la riuscita, anche dal punto di vista del thriller, è assicurata dalla perfetta scansione dei tempi del montaggio: curato da François Gédigier, che vanta un’esperienza di lunghissima data, avendo collaborato col meglio del cinema francese. La nostra attenzione non è mai dispersa in rifiniture di azione inutili o semplicemente superflue. Come quelle dei dettagli vuoti e scoloriti dei condomini berlinesi: il loro insistito manifestarsi esprime un senso raggelante di silenzio ambientale.

I due protagonisti danno vita ad una comunione di esseri intima e intensa; non solo di grande sensualità (yes!): benché imbruttiti, essi sono vivi e vitali. A differenza della nazione che si trascina apatica, smorta e ignara: che si sta avviando come un gregge impotente e silenzioso al baratro della propria distruzione, a quella Germania anno zero delle macerie del dopo nazismo.

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