La Recensione, L’equilibrio
di Francesco “Ciccio” Capozzi
Dopo aver lasciato le Missioni, in cerca di un impegno più severo e lontano dalle tentazioni del mondo, padre Giuseppe rientra nelle sue terre d’origine. Ma qui incontra il potere e la cultura mafiosa.
Vincenzo Marra, sceneggiatore e regista del film (ITA, ‘17), ha sempre caratterizzato il suo cinema, sia di fiction che di realtà, con una forte cifra di riflessione civile e di analisi non moralista dei diversi ambiti della società, scegliendo spesso un punto di vista così particolare, da sembrare anomalo, se non provocatorio. Tuttavia, così facendo, ha sempre posto l’accento sull’analisi della complessità sociale. Non dando mai nulla per scontato.
È il caso di L’equilibrio, che vede al centro la personalità generosa ma molto inquieta di un prete che si catapulta nell’universo di una Parrocchia di frontiera. Il regista, che ha girato il film a Ponticelli e altre zone del napoletano, ha detto che non si è ispirato a nessun episodio in particolare. ma ha tenuto molto presente l’esperienza della terra dei fuochi. Come anche i tragici episodi di violenza sulle bambine del Rione Verde di Caivano.
L’ occhio di Marra è, fin dall’inizio, ancorché demistificatore, attento alle dinamiche reali che si agitano sul fronte della camorra. Che viene colta come una struttura pensante, anche se si presenta con la laida bruttezza della violenza bestiale. ”Lascia” che la Chiesa parli e “denunci” l’emergenza dei rifiuti, sia interrati abusivamente che lasciati a cielo aperto, in un ciclo distruttivo per la salute umana, perché oramai alle nuove leve quel business non interessa più. I vecchi capi che ci lucravano e lo gestivano, oggi sono o in galera o si sono pentiti. Oggi a loro interessa lo spaccio e la gestione della droga. Il potere che mantengonoe che ostentano nei territori, come antistato, nel vuoto più totale delle Istituzioni, è in relazione a questo assetto.
Assai emblematica è la vicenda della capretta, tenuta a pascolo nel campetto della Parrocchia, mentre i bambini giocano a calcio fuori di esso, in mezzo alla strada: serve unicamente a dettare alla Chiesa-istituzione i termini e le condizioni invalicabili del suo “stare” in quel territorio gestito dalla camorra. Può fare apostolato, ma deve accettare le regole stabilite.
Le parole “moderazione” ed“equilibrio” vengono ripetute spesso dal vecchio Parroco, come anche dal Vescovo: perfino di fronte all’abuso su bambini si tace. È un prezzo mostruoso da pagare, perciò è un equilibrio che don Peppe rompe. E perfino di fare di lui un martire non conviene: perché nell’immediato risalto mediatico-istituzionale, spezzerebbe la tranquillità necessaria al business della droga. È più profittevole ed efficace, lasciarlo in preda alla sua coscienza e al controllo manzoniano “de’ superiori”…
Un’altra parola spesso menzionata è “Comunità”, che pare “abbandonare” don Peppe e “ritornare” all’ovile, quando si rinsedia il Parroco precedente. Quindi è una sorta di “cogestione”, insieme alle mafie, quella che attua la Chiesa in terre difficili come questa. Del resto, la figlia del boss va al catechismo e a scuola insieme agli altri.
Il regista ha più volte definito “percorso cristologico” quello attuato da padre Peppe: per cui egli cerca di trovare dentro di sé le ragioni del suo credere: ragioni scosse, peraltro, dall’esperienza precedente. Ma non rinuncia in nessun momento alla sua dignità sacerdotale: perfino nel maggior momento di sconforto bestemmiatore, avverte e ascolta dentro di sé il mistero delle ragioni della sua vocazione al sacerdozio. In cui la dolente e sensibile umanità della persona si saldano alla sua dignità religiosa e presenza sacerdotale, in una definizione assai originale e conclusa di personaggio.
Del resto solo un attore come Mimmo Borrelli, di nota, ricca e sperimentale esperienza teatrale, poteva esprimere questo paradosso. Ovvero quello della sua complessità non solo psicologica, ma relativa ad una funzione e ad una missione di cui si è fatto carico, ma che restano sempre “attaccate”, e come da essa irrorate, ad una simultanea e sottolineata sanguigna presenza fisica.
Il regista, filmicamente, è sempre “su di lui”. Lo accompagna in 90 pianosequenze: lo segue con silenziosa e rispettosa insistenza nei movimenti, ponendo l’accento sulla corporeità e concretezza del suo fare e delle sue ragioni; ma anche la fatica e le difficoltà.
Per quanto è fatta una netta scelta di campo nei comportamenti a dir poco corrivi della Chiesa ufficiale, si evita di trinciare giudizi. Anche rispetto all’altro prete, un bravissimo e misurato Roberto Del Gaudio, anch’egli proveniente dal teatro, il conflitto è aspro: ma le sue ragioni non solo hanno cittadinanza, ma di fatto sono presentate con una qual complessità. Tra l’altro risultano socialmente vincenti, almeno all’apparenza.
Il montaggio, dell’esperto Luca Benedetti e Arianna Zanini, è asciutto e lega con forza il vivere spezzato del prete in quella terra di missione e di ferocia.