La recensione, Le donne e il desiderio
di Francesco “Ciccio” Capozzi
Polonia, un paesotto sperduto non lontano dalla Germania, 1990. Alla vigilia dell’epocale smembramento dell’U.R.S.S. e della trasformazione della Polonia, quattro donne intrecciano i loro vissuti.
Tomasz Wasilewski, polacco, giovane – ha 37 anni – regista e sceneggiatore del film Le donne e il desiderio (POL-SVEZ, ‘16), è conosciuto fuori dai confini della sua nazione grazie ai numerosi riconoscimenti che ha ottenuto in giro per i Festival, per quanto la sua filmografia sia limitata, ma, come si dice, di qualità. E anche il presente film ha ottenuto l’Orso d’argento al Festival di Berlino 2016 per la migliore sceneggiatura.
La decisa originalità della pellicola è il punto di vista adottato. Le vicende delle quattro donne sono rappresentate con un approccio immediato e diretto: la camera le segue nel mentre ognuna di loro si pone nei confronti dell’oggetto dei loro desideri.
All’inizio, nella cena conviviale ne vediamo tre: due sono sorelle, e così incominciamo col confrontarci con l’insoddisfazione della terza, Agata, l’attrice bravissima Julia Kijowska.
Agata è letteralmente consumata dalla passione unilateraleper il curato della parrocchia: non ne parla, né dice nulla al marito, con cui convive in un’atmosfera di raggelata insoddisfazione reciproca. La sua compressione la fa esplodere in momenti di erotismo incontrollati col marito, che però lasciano più tracce di sconcerto che di reciproco appagamento.
È una disperazione muta. Circondata dalla grigia e insistita banalità del vivere in quel momento, in quel territorio di periferia, in quella comunità, il suo vivere incrocia casualmente la Storia: eppure ne è parte. Perché nell’apparente impermeabilità degli eventi, si attiva la sua trasformazione personale, i cui esiti non sono dati né programmati.
La seconda donna, che abbiamo visto alla cena, è una direttrice di scuola, che vive una relazione extraconiugale col padre di una sua alunna. Morta la moglie dell’uomo, gli si accosta, ma ne è allontanata quasi con livore. Iza, interpretata da Magdalena Cielecka, non si rassegna ma vive in modo distruttivo la sua passione, incrociando anche il destino della ragazzina.
Iza è condotta sui termini dell’ipocrisia collettiva: a lei che parla, nella sua funzione istituzionale di comunità educante, del perché la scuola è intitolata a Solidarnosc (Solidarietà, il nome del movimento di Lech Walesa) sono del tutto estranei i termini di interesse e di sincerità. È solo una fredda messinscena burocratica, priva di ogni contenuto di interesse e di reale umanità. E se questa è la scuola, figurarsi il resto della società polacca, è come se ci dicesse il regista.
La terza donna, Marzena, sorella della direttrice, è una giovane e bella ex reginetta di bellezza, col marito emigrato. Incappa in un sordido figuro che abusa di lei con le promesse di lavoro nella moda: il suo desiderio è di vivere la sua esistenza fuori da quella povertà e squallore che la circondano. È lei la più vitale, che, senza recriminare o troppo lamentarsi si vive con dignità; trasmette energia, generosità esistenziale e interesse per gli altri, compresi quelli con difficoltà, nella sua attività di istruttrice di ginnastica anche riabilitativa. Ed è anche lei, Marzena, l’attrice Marta Nieradkiewicz, il tramite per la quarta: la docente pensionata, che abita sullo stesso pianerottolo della ragazza e che ne è morbosamente attratta e costruisce tutta una messinscena per conoscerla e poterla frequentare.
Con un accorto e riuscito montaggio “introduttivo”, ci accorgiamo che abbiamo più volte incontrato questa sparuta presenza: come una casuale figuretta sullo sfondo, sempre silenziosa ed estranea, benché a suo modo partecipe.
Però la prima entrata “forte” inscena dell’anziana e solitaria professoressa Renata, la potente attrice Dorota Kolak, è un colloquio con la stessa direttrice, che conosciamo così presa dalla sua passione. E che manifesta una freddezza burocratica e un disinteresse quasi feroce e brutale nel comunicarle la sua messa in pensione. Quasi una cacciata. Una reciproca insofferenza, più che solo antipatia, tra le due donne: ma forse la Direttrice la sente come una giudice, in nome di quei valori fasulli che erano costrette a rispettare formalmente. E’ il personaggio più strano e complesso: in un certo senso più enigmatico. A dispetto delle sue forme e della sua età esprime il maggior livello di erotismo. Anzi: il regista immette la visione di lei, della sua nudità, in un’atmosfera di esibita corporeità femminile collettiva non consumistica, perché ritrae diverse donne avanti negli anni dalle forme per niente in linea con l’estetismo patinato. E’ un grido al diritto al desiderio, che non è solo per chi “è bello”: ma per tutti i viventicoscienti, quali che siano le età, il sesso, gli orientamenti di genere e le forme. Insieme alla fresca nudità della giovane Marzena, che ci è esposta però a seguito di una violenza, quella di Renata è magari matura, ma esibita in modi consapevoli e compiaciuti, perfino ironici: ed è su questa visione di energica soggettività che si chiude il film. A dispetto degli scarni dialoghi, che risultano molto essenziali, l’opera si regge su una sceneggiatura finissima per definizioni, notazioni e sviluppi. Del resto il regista ha attinto a diverse e numerose figure che hanno caratterizzato la sua adolescenza: sono l’individualizzazione di proiezioni e somme di diversi incontri con l’universo femminile, volti ad esplorarne la complessità, anche se sotto uno specifico punto di vista. Del resto non casualmente il titolo originale del film suona come “Stati uniti dell’amore”; mentre per l’edizione italiana c’è una sorta un riecheggiamento da Ingmar Bergman. Però se c’è un grande regista polacco cui è assimilabile l’approccio, questi è Krzysztov Kieslowski: l’indimenticato autore di “Decalog” (89) e, in Francia, della trilogia dei “Tre colori”(93-94). Lo accomuna la ricerca dell’umanità più profonda e inscalfita, che si cela a volte perfino nelle pieghe della discesa negli abissi; tale analisi, spietata, ma non inumana o moralista, va di pari passo con la riflessione sui moti profondi della società polaccadell’epoca. Lo sguardo di Wasilewski, che parte comunque dalla contemporaneità per analizzare le origini dei cambiamentti del suo paese,si riannoda a quello del maestro Kieslowski (e al suogeniale sceneggiatoreKrzysztov Piesewski), ma vi assume un diverso respiro storico. Attraverso la dipintura ambientale, si concentra maggiormente su un approccio inquieto e indagatore sul mistero della femminilità e delle sue contraddizioni; per cercare sinceramente di comprendere e non di giudicare. Questa sincerità di fondo riesce a rendere coerente e affascinante lo stile adottato. Molto importanti e d’aiuto sono stati la foto e il montaggio. La direzione della foto è affidata al romeno Oleg Mutu che ha lavorato con Cristian Mungiu: il suo è uno occhio implacabile che coglie con aderenza realistica, da “cinema di realtà”, i contrasti visivi dell’appiattimento sociale; la povertà e il grigiore imperante, non sono solo dei toni cromatici, ma collettivi ed esistenziali. La montatrice è la brava Beata Walentowska: ha saputo gestire i passaggi e le sospensioni tra le quattro storie con chiarezza visiva e forza drammatica.