La recensione, La battaglia degli imperi. Dragon blade
di Francesco “Ciccio” Capozzi
Anno 48 a.C. sulla “Via della seta”, che unisce la ricca ma remota Cina con l’Occidente romano, confligge l’esercito romano, guidato dal perfido Tiberio, con le popolazioni che vi si affacciano. Huo An è il combattente che cerca con la pace di governare l’arteria, che attraversa molti paesi, lasciandola libera dal dominio assoluto di una sola potenza.
Certo, se si volesse riflettere sulla storia antica, questo film (CINA-HONG KONG, ‘15) produrrebbe più confusione che certezze: e sarebbe inutile “inseguirlo” mettendosi lì a strologare sulle inverosimiglianze. Però ci consegna alcune semplificazioni che, in un qualche modo, non sono sballate. Tipo: è vero che l’impero di Roma puntò al controllo di quella “Via”, che portava favolose ricchezze in Occidente. E per questo, Marco Licinio Crasso, uno dei Triumviri, tentò nel 53 a.C. di penetrare nel territorio dei Parti: ma a Carre fu sconfitto e ucciso.
È vero altresì che i Parti, citati con un certo riguardo nel film, furono la “superpotenza” dell’epoca che, ereditando la potenza di Ciro il Grande e dei sovrani Achemenidi, passando per Alessandro Magno e i re ellenisti Seleucidi, si posero a cavallo tra l’est e l’ovest. Di fatto controllando della Via della Seta il tratto finale di accesso al Mediterraneo. Ma tutto questo bell’ambaradam storico serve unicamente a creare un wu xia pian da esportazione: ovvero un popolare film “di spade”, nel più tradizionale genere e stile hongkonghese con un sostrato storico e attori anche non cinesi, in una coproduzione tale da accalappiare pubblici su tutte le sponde del Pacifico e in Europa.
Tenendo conto che Hong Kong, benché oggi parte “autonoma” della Cina, non è esattamente la Cina continentale. Fin dai primi anni ‘70, con gli ormai mitici film di kung fu con star del calibro di Bruce Lee, ma anche con molto cinema d’autore, è stata ben presente nell’immaginario anche occidentale. Infatti, il nume tutelare di questa raffinata operazione spettacolar-produttiva è stato il notissimo Jackie Chan, hongkonghese, il cui vero nome è Chan Kong-San, qui presente in veste di produttore e di attore protagonista, mentre il regista e sceneggiatore è il suo connazionale Daniel Lee.
Da dire che Chan è di suo un personaggione. Non solo perché attore versato in ogni genere e dotato di una duttilità corporea fenomenale, che oggi a 62 anni suonati lo fa ancora affrontare senza stuntman le più pericolose scene d’azione; ma perché, bene inserito nelle sfere della nomenklatura cinese, ha la capacità di progettare veri e propri “film-messaggi” che, nel parlare di Roma antica, si riferiscono in realtà all’attuale Cina, che, ormai ottenuto il riconoscimento di status di superpotenza economica, lo vuole anche di produttrice di cultura e di immaginario planetari. Come Hollywood: con cui ormai entra direttamente in concorrenza.
Forte del suo enorme, infinito mercato, la Cina punta a operazioni come questa: attori americani, quindi in grado di attrarre pubblici diversi da quelli orientali, in contesti e storie tradizionali, o riportate in ambiti di senso che i pubblici orientali possano cogliere. E poi esportate.
E sono, come questa, operazioni di grande intelligenza. Non solo perché costruiscono solidi universi narrativi, con personaggi, spesso simpatici, magari sbozzati e talvolta poco duttili (benché sul finale, Adrien Brody lo si veda caratterizzato da paure e incertezze), ma immersi in un quadro narrativo potente, credibile e veloce. Perché le storie sono addensate di sottotesti politici che le rendono ricche di echi ideologici. In cui i cinesi ritrovano supporti riflessivi che rendono i kolossal parte integrante di una sorta di formazione ai valori tradizionali, “suggeriti” dal Partito Comunista al potere, a loro contemporanei.
Come i grandi kolossal hollywoodiani degli anni ’50, che veicolavano idee e valori profondamente e tipicamente americani. Ne sostenevano l’enfasi ideologica all’interno delle varie narrazioni epiche utilizzate come scenari, siano state esse tratte dalla Bibbia o da saghe medievali “ricostruite” e “spiegate” al popolo, in quei filmoni alla Cecil B. DeMille, che tra l’altro incassavano molto bene.
In questo recente, come in tanti altri casi del genere, hanno fatto scuola. Nel film diretto da Daniel Lee, oltre al senso di unità delle varie nazionalità presenti nel vasto territorio cinese, c’è l’indicazione molto chiara dei rapporti che si vogliono avere con i vari competitors internazionali: tra cui, soprattutto gli USA, che come la Roma dell’epoca storica è oggi “il” rappresentante dell’occidente.
Un rapporto e una gara tra eguali, senza complessi. Anche se nel film i romani sono riconosciuti come eccellenti costruttori di città – storicamente è documentato anche lungo la Via della seta – e strateghi militari, nulla impedisce che li si possa copiare e superare: è chiara l’analogia. Mentre nei Parti si potrebbero ravvisare quelle nazioni-potenze intermedie, tipo l’Iran e la Russia, con i quali i cinesi intrattengono “rispettosi” rapporti strategici.
E comunque Jackie Chan e il regista hanno fatto il botto: costato 65mln di dollari ne ha incassati già quasi 124mln in tutto il mondo, più quelli in USA (73mln c.a); anche se da noi non è che stia andando granché.
Il film è caratterizzato da un uso espressivo dei grandi spazi, soprattutto desertici, ha delle ariosee ben orchestrate scene d‘azione e di veloci e concitati duelli: questi sono coreografati da Jackie Chan. I deserti sono letti sempre in una vivace diagonalità di presenze in movimento: ed è la risultante del lavoro di montaggio, curato dall’hongkonghese Yau Chi Way, che è davvero di qualità.
Come anche gli spazi urbani risultano “pieni”: sono trapassati da gente che abita quelle scenografie, curate dallo stesso regista, con realismo dinamico. E c’è pure il momento commosso: quando il bambino canta con grande trasporto emotivo l’inno romano in latino (yes: proprio in latino coi sottotitoli), siamo tutti presi.
Nel casting, oltre agli attori sopracitati, c’è un’attrice, la francese Lorie Pester, la regina dei Parti, che è anche una famosa e carismatica cantante, e che si fa notare per la forza silenziosa della sua presenza.