La recensione: Julieta
di Francesco “Ciccio” Capozzi
Julieta, vedova, è ossessionata dall’assenza della figlia: in un diario tenta di ricostruire la loro storia, e darsi dei perché. Il regista di questo film (SPA, ‘16) è il mancego Pedro Almodòvar: uno dei maestri del cinema europeo, e il film mi è piaciuto. Al contrario di buona parte (non tutta) della critica presente a Cannes.
Julieta è tratto da opere della canadese Premio Nobel Alice Munro, e si sarebbe dovuto intitolare Silencio. È stato girato non in Canada, ma a Madrid, fredda nelle sue linee, dove Julieta è come una zombie, priva della presenza, prima del marito, poi della figlia, e sul mare della tempestosa, iridescente Galizia, per la sua precedente storia col marito.
Almodòvar è un regista, e sceneggiatore, qui assai controllato, lontano, come afferma, «… dalle commedie esuberanti che giravo (prima) (…). Invecchio e con l’età privilegio l’interiorità». E il grottesco spiazzante e paradossale, pur nel mélo, così almodovariani, sono assenti.
C’è la frase chiave che Julieta dedica ala figlia: «La tua assenza mi riempie totalmente e mi distrugge». È un ossimoro la cui concretezza esistenziale percorre unitariamente tutto il film. E non è in conflitto con la primissima sequenza, che è su un disegno fortemente, ma ambiguamente erotico, delle pieghe della sua sottile vestaglia.
Le colpe sono ricostruite sulle presunte responsabilità del suicidio di un estraneo in treno e dalla morte del marito: ed investono anche la figlia.
La Julieta matura e la giovane sono attrici diverse: ha così voluto plasticamente drammatizzare la potenza trasformatrice del dolore.
Ma Julieta non ha la generosità nell’accogliere l’amore del padre per la giovane sposa e i nuovi figli: ed è questa sordità alla misericordia verso gli altri, la base e il tramite dell’oscura insensibilità verso sé stessi.
«La tua assenza mi riempie totalmente e mi distrugge …»