La recensione, #Indivisibili
di FRANCESCO “CICCIO” CAPOZZI
A Castelvolturno, Napoli Dasy e Viola sono due gemelle siamesi: belle e sorridevoli, hanno una stupenda voce. Il padre le ha rese imprenditorialmente un lucroso fenomeno da concerti privati. Ma un medico afferma che si possono dividere senza alcun pericolo …
Edoardo De Angelis, oggi trentasettenne, dopo una precedente serie di corti, come Mistero e passione di Gino Pacino (‘06), anch’esso un Corto (26 min), il suo saggio finale di diploma al Centro Sperimentale di Cinematografia, fu notato nel 2008 da Emir Kusturica, che fu produttore esecutivo del suo primo lungometraggio Mozzarella Story(‘11). Il successivo, Perez (‘14), è stata un’opera sorprendentemente matura e compatta.
Le sue qualità registiche, che possiamo definire senz’altro autorali, sono confermate al meglio nel film Indivisibili (ITA,’16). È ritornato a Castelvolturno, dove era ambientata una parte di Perez, ma, come egli stesso ha detto: «Mi piace l’idea di raccontare storie diverse dentro lo stesso mondo».
È un non luogo, spettrale e indefinito: lo capiamo fin dalle primissime inquadrature. Quando tre ragazze di diversa etnia e colore, “si ritirano” a casa, dopo una notte di “lavoro”. È un lungo piano sequenza che rende indefinito il passaggio tra la battigia e l’abitato: come se fosse il mare l’istanza primordiale su cui tutto punta e a cui tutto ritorna.
Mi sono sembrate sembianze umane immesse in un tessuto quasi ancestrale: del resto, il regista ha parlato spesso di “realismo magico”, a proposito di questi personaggi e le loro storie. Può sembrare ossimorico, ma è proprio così.
L’assoluto squallore umano e cinismo – però anch’esso più o meno inconsapevole -del padre, la fragilità della madre hanno connotazioni psicologicamente e drammaturgicamente precise. Come anche quelle ambientali di tutto quel coro diffuso di committenti e spettatori delle esibizioni delle due: tutto, pur convivendo al parossismo figurale,”contiene” delle linee di diversificazione, che “aprono” verso commenti “divergenti”.
A volte sono piccoli dettagli, altre volte sono dei movimenti che sembrano superflui, ma sono invece tematicamente strutturali e danno “sensi” diversi di lettura. Ad esempio l’uso delle scenografie, curate da Carmine Guarino, nei passaggi tra un momento ed un altro. Il più tipico è quella processione barbarica-cattolica: in cui si fondono con efficace realismo cromatico e coreografico, forme collettive e partecipate di ritualità barbarico-pagana commiste a quelle cattoliche più retrive e superstiziose.
Il “miracolo” avviene grazie alla scioltezza e alla concisione dei tempi di montaggio, curato dalla brava e versatile Chiara Griziotti, che ha già lavorato col regista, in grado di passare dal cinema di realtà, di cui stilisticamente qui c’è traccia, a quello di fiction con professionalità estrema.
Il regista coglie queste e atmosfere neoreligiose anche in quelle esibizioni presso i loro committenti: la spettacolarizzazione della loro essenza esagerata-normale di un kitsch che è la loro dimensione abituale d’esistenza. In cui il fascino della musica è esaltato da quello inconfessabile per l’orripilante che promuove e dà corpo alla loro “normalità”: ed è questa, invece, davvero mostruosa.
Il modo di comportarsi degli spettatori non è dissimile da quello dei seguaci dell’ex prete. Non c’è iato tra la rappresentazione e la presentazione di tutti i personaggi. In questa chiave, De Angelis ha affermato: «Per me il cinema deve “puzzare di vita”. Anche se tocca, come in questo caso, una dimensione favolistica, deve essere sempre sporco, sudato, vivo».
In mezzo a tutto questo squallore abitano e si librano le due gemelle. Il conflitto tra la loro “normalità” di persone che vivono un’esistenza speciale, e la mostruosità degli altri, di tutti gli altri, non potrebbe essere più palese ed efficace, dal punto di vista narrativo: si proteggono vicendevolmente, e fanno perno sulla loro affettività e personalità.
Tra le due è Dasy la più forte e determinata. Esse non sono personaggi “letterari”: non parlano di sé: fanno, agiscono. Si muovono con grazia, talento e determinazione. Sanno chi e cosa sono, ma soprattutto cosa vogliono diventare.
Il regista si è molto ispirato al classico film del ‘32 di Tod Browning Freaks, e alle gemelle siamesi Violet e Daisy Hilton: addirittura, i nomi ne mantengono l’assonanza.
Di questo cult De Angelis ha preso la traccia di delicata, malinconica e dolente umanità, ma è andato molto oltre: ha reso il film una potente metafora sulla separazione. Ha costruito le due ragazze come vere e proprie eroine della scarrupata Castelvolturno: la separazione è lo scotto più pesante e doloroso che si paga per la crescita, e c’è sempre una parte che fa più resistenze e la rifiuta.
Questa dimensione epica, pur in un contesto particolare, ma non così diverso da quello romano, la si deve all’apporto del soggettista – anche sceneggiatore insieme al regista e a Barbara Petronio – Nicola Gaglianone, che ha scritto Lo chiamavano Jeeg Robot. Ma le problematiche così ben collegate allo stile talmente sofisticato nella sua apparente linearità, non avrebbero reso il film un capolavoro senza l’apporto delle due protagoniste: le gemelle Fontana. Angela e Marianna sono di Casapesenna, quindi non molto lontane dall’ambientazione principale. Sono studentesse di canto jazz, e danno ai personaggi quel senso denso, profondo e poetico di verità, sia nella loro affettività “sorerna” che nella dolcezza e matura, non disincantata consapevolezza con cui affrontano la loro speciale vita.
Accompagnate da tutto un cast di bravi attori napoletani, come il “potente” e collerico Massimiliano Bruno, padre-padrone: ha contenuti di violenza e di cinismo, ma anche di inconsapevole affetto. Anche Antonia Truppo, la madre, persa e avviata all’autodistruzione tra un consumismo compulsivo senza desideri, un incontenibile e devastante senso di colpa e lo zio bigotto (Marco Mario De Notari) che vorrebbe dare un minimo di senso e affettività familiare alle due.
Il controllo serrato su ogni inquadratura, si avvale della stretta collaborazione con il direttore della fotografia, Ferran Paredes Rubio, che ha già collaborato con De Angelis: le tinte slavate predominanti, di un non-luogo vicino al mare, perso nella sua inidentità multietnica, lo caratterizzano profondamente. Lo rendono una terra di confine tra mito e realtà metropolitana incistata di arcaico.
Da segnalare l’efficace, e anche bellissima colonna sonora di Enzo Avitabile: le sue canzoni rilanciano come un’eco riverberante in noi, e approfondiscono, i contenuti ambientali e tematici.