La recensione, Il ponte delle spie
di Francesco “Ciccio” Capozzi
1957, Guerra Fredda. A New York viene scoperto lo spione sovietico Abel: l’avvocato Donovanper si incarica della sua difesa e riesce a non farlo condannare a morte.
1961: nei cieli russi viene beccato il ricognitore spia U2; è catturato e condannato il pilota Gary Powers.
Chi andrà a fare lo scambio tra i due? La caratteristica del cinema di David Spielberg, regista e produttore di questo film (USA, ‘15) è la sua eticità, specialmente in quelli storici. Qui, l’agente della CIA comunica all’avvocato (Tom Hanks) le “regole” del “funzionamento” del conflitto USA-URSS. Costui risponde che l’unica “regola” valida, l’unica vera differenza “tra loro e noi”, è la Costituzione degli Stati Uniti.
Il regista e i suoi sceneggiatori, tra cui i fratelli Coen – i registi, qui solo collaboratori di Spielberg – sono partiti dalla biografia dell’avvocato Donovan. La sua è un’epica “quotidiana”, in tono minore.
Hanks, bravissimo, è il contrario dell’eroe Marvel. Lo spione sovietico, lo definisce “uomo tutto d’un pezzo”. Tale pertinacia lo porta a gestire la difficile trattativa dello scambio sul Ponte di Glienicke. E anche qui si “prende cura” di un altro giovane americano, rimasto nella Berlino sbagliata, da lui imposto nella trattativa.
Il film affronta non solo sulla dicotomia valoriale USA-URSS, ma su come questa attraversi la nazione americana: come con la sciagurata e perdente aggressione in Vietnam. Ma quel sistema di valori ha facilitato l’implosione del “sistema mondo” sovietico.
Le sequenze, di un’efficace orripilanza quasi horror, ritraggono un’allucinata Berlino Est, e un intero sistema sociale-politico.
Accanto al protagonista, è da lodare lo “spento” ma attentissimo e umano spione: l’inglese Mark Rylance.