La Recensione, Civiltà perduta
di Francesco “Ciccio” Capozzi
La vicenda, rigorosamente storica, del colonnello Percy Fawcett, un coraggioso quanto ossessionato ufficiale inglese che per circa un ventennio, dai primi del ‘900, si aggirò per la più impervia, ostile, misteriosa foresta amazzonica, alla ricerca di una civiltà perduta. Fino a scomparirvi col figlio.
Lo dico subito: Civiltà perduta non è un gran film (USA-IRL, ‘16), ma grande. Può, francamente e semplicemente, annoiare. Yes, mi duole dirlo, ma dura troppo. Si dipana per 141 min: ‘na cifra! Ovviamente, “risulta” tale per la sua complessa architettura tematica, e per il fatto che essa diventa, suo malgrado, per lo spettatore, piuttosto complicata da seguire.
Con ritmi di pathos e di empatia che non riescono sempre a concentrarsi su un polo ben definito, secondo le convenzioni narrative di Hollywood, per risultare attraenti e convincenti. E difatti, prodotto anche dalla Plan B di Brad Pitt, per un costo di 30mln di dollari, ne ha incassati a malapena un terzo. Però… però: che vi devo dire? A me, nonostante tutto, ha affascinato e intrigato.
Sono tre i nuclei narrativi su cui si giocano i conflitti: il primo è “all’interno” del “cuore di tenebra” (Joseph Conrad e Francis Ford Coppola) dell’esploratore, in cui sono viceversa “esplorate” le ragioni e il modo con cui si manifesta e cresce, fino a possederlo e a coinvolgere anche il figlio maggiore. Questa vera e propria idea fissa di scoprire la Città che lui chiama “Z”.
L’altro è il rapporto con la moglie, la famiglia, e il dramma di questa donna, intelligente e volitiva, vedova e dei suoi figli orfani del marito e padre pur vivente, perché lontano. Connesso a questo lo scontro col rigido sistema di valori imperialistici dell’Inghilterra vittoriana. Un sistema che lui, “sul campo” delle scoperte sul fronte antropologico, metteva scientificamente in crisi.
Il terzo è il rapporto con la foresta pluviale amazzonica, con la sua visualità, i suoi ritmi ancestrali, le culture e i destini dei suoi abitanti.
Il regista e sceneggiatore, newyorkese puro sangue, James Gray fu lanciato dal suo primo film, il notevole Little Odessa (‘94), è sempre stato considerato dalla critica con un occhio di riguardo. Anche Civiltà perduta ha avuto in generale recensioni positive. E il fatto è che anche queste scelte operate nel progettare il film rivelano la sua taratura autorale.
Gray non ha inteso rifare una specie di Indiana Jones, o un Aguirre herzogiano, né un Tarzan fuori tempo massimo, ma ha voluto confrontarsi, attraverso la straordinaria e avventurosa esistenza di Percy Fawcett (che anzi, grazie ad Arthur Conan Doyle è stato l’ispiratore di Indiana Jones), con quel complesso di temi cui accennavo. Presenti già nel libro di James Grann da cui è stato tratto. A mio avviso, per convinta scelta di metodo, ha “intellettualizzato”, facendoli addirittura prevalere sull’ordito dell’azione e del coinvolgimento, i punti tematico-culturali che gli stavano a cuore.
Credo che abbia fatto un film “didattico”, ma nel senso brechtiano. Ha manifestato, cioè, rispetto alla complessa materia storica, un approccio inusuale rispetto ai parametri della Mecca del cinema: ha adottato una sorta di “estraniamento”: quello che Berthold Brecht chiamava verfremdungseffekt.
È come se il regista avesse lasciato “scorrere” narrativamente i tre affluenti del fiume magno dalla narrazione davanti a sé; volendo che lo spettatore se ne rendesse perfettamente conto. Perché la materia era così complessa e articolata, che prevedere una qualunque prevalenza di un aspetto rispetto ad un altro, l’avrebbe impoverita.
Il dato unificante, oltre all’aspetto culturale dei temi in gioco, era la personalità del Colonnello, salda roccia fisica e caratteriale: cui Charlie Hunnam, già visto nel recente King Arthur, dà una rappresentazione vivida ed energica. Viene così affrontato il senso della cultura della colonizzazione: la National Geographic Society, un ente privato ma di interesse nazionale, che sponsorizza le varie esplorazioni, era, nell’Inghilterra dell’800, molto più che una prestigiosa, semi-accademica e magari noiosa istituzione culturale super partes, come amava presentarsi all’opinione pubblica internazionale. Era l’apripista alla penetrazione imperiale nei sottosviluppati continenti extraeuropei, e dovunque potesse rappresentare, implementare e difendere, anche con la successiva presenza militare, gli interessi economici inglesi, secondo la ben nota triade commercio/missionario/cannone.
All’inizio di Civiltà perduta viene sottolineato come la vera motivazione che aveva fatto proporre, per chiudere quella querelle sui confini tra Bolivia e Brasile, l’intervento della Nat. Geogr. Soc., era la gomma, di cui i due stati, proprio in quelle zone, erano i massimi produttori. Materia prima che molto interessava i britannici.
Motivi economici completamente estranei all’indomita ed eroica personalità di Fawcett, intelligente e culturalmente assai aperto nei confronti del diverso: che viene catturato dalla possibilità di scoprire la Città Z: una favolosa civiltà ricca e opulenta nel cuore della foresta, molto precedente alla stessa storia precolombiana. La cui scoperta avrebbe cambiato radicalmente la concezione dell’uomo bianco europeo rispetto ai nativi, considerati in blocco sprezzantemente dei selvaggi primitivi e inferiori, non solo culturalmente ma geneticamente; e avrebbe migliorato il suo incerto destino nella carriera militare.
Del resto Fawcett stando nella foresta a contatto con quegli uomini cambia radicalmente il suo modo di pensare nei loro confronti: si sente uomo e persona, di fronte ad altri uomini e persone che vivono in ambienti, ritmi vitali diversi. E comunque, la cosiddetta “civiltà” stava per abbattere sugli umani la sciagura voluta della I Guerra Mondiale, col suo inenarrabile carico di sofferenze e lutti, come si vede nel film. Guerra da cui il colonnello si ritirerà sfiduciato e fatalisticamente scettico circa la possibilità che il “superiore” uomo bianco possa accettare culturalmente una forma di civiltà realmente superiore. Sarà il figlio, l’attore Tom Holland, ultimo interprete di Spiderman, a risospingerlo verso l’ignoto. I ritmi narrativi di questa parte sono visivamente i più ricercati.
Il direttore della foto è Darius Khondji, a suo agio sia in grandi produzioni che di tipo sperimentale: qui riesce a dare un senso di incombenza contemporaneamente favolistica e misteriosa: paura e sospensione nella stessa cromaticità. Collega e unifica i diversi teatri dell’azione con una patina come di lontananza storica documentaria: un che di grigio e innaturale; denso e armonicamente diffuso in interni ed esterni.
Interessante e ricca di sfumature la personalità della moglie, resa con efficacia e diversi sottotoni gestuali, da Sienna Miller: tra l’altro è provato che proprio la moglie sostenne e trovò conferme documentarie a diverse ipotesi di Percy Fawcett.