La Recensione, Blade runner 2049
di Francesco “Ciccio” Capozzi
Los Angeles 2049: l’agente anti-Replicanti K s’imbatte in un mistero che potrebbe sovvertire l’intera civiltà attuale che si regge sul lavoro dei Nexus, i Replicanti simil-umani, di ultimissima generazione. Nell’investigare incrocia Deckart il BladeRunner (Cacciatore di Replicanti) leggendario, nascosto ma vivente.
Porsi di fronte a questo film (USA, ‘17) non è semplice. Da una parte, abbiamo la continuità-confronto,supervisionato dallo stesso autore, Ridley Scott in qualità di Produttore Esecutivo, con un cult assoluto della storia del cinema, il BladeRunner del 1982. Dall’altra abbiamo il regista canadese di qualità, con un proprio distinto profilo autorale, Denis Villenueve, che ha affrontato la tematica con un commendevole sforzo di autonomia e di personalità.
Il film dell’82 ha avuto una travagliata storia editoriale: ci sono state due successive edizioni. La prima del ‘91, con un finale diverso, e il Finalcutdel 2007, peraltro più simile alla prima, cioè l’edizione definitiva, col montaggio stabilito dal regista: quella in cui ci si esprimeva con maggiore (relativa) chiarezza sul fatto che anche il carismatico Rick Deckart (Harrison Ford) fosse anch’egli un Replicante senza saperlo.
Però per i pubblici del mondo l’editio di riferimento è la prima: la più romantica, visionaria, e crudele nello stesso tempo, ispirata al racconto di Philip K. Dick. In cui l’ipnotica musica di Vangelis, all’interno delle scenografie geniali del grande artista concettuale Syd Mead (non accreditato) e dello scenografo Lawrence G. Paull, e dei cromatismi dell’eccellente
Direttore della foto Jordan Cronenweth (scomparso prematuramente nel 96 a 61 anni), scandivano dei tempi narrativi profetici, ma epici e misteriosi. Il sequel non scioglie definitivamente il dubbio su Deckart: ma K (Ryan Gosling) si sa che è un replicante (“lavoro in pelle”, è indicato dagli umani con disprezzo), programmato per dare la caccia ai suoi confratelli che si ribellano al loro destino. Ma le cose stanno rapidamente cambiando: i Nexus sono talmente tanti e insostituibili che un sovvertimento sociale nel controllo della società, potrebbe essere alle porte.
Come ci testimonia la figura del cieco demiurgo (Jared Leto), il creatore dei Replicanti di ultima generazione. Che è anch’esso un Replicante: anche se questo tema resta in ombra. Benché la sua spietata ed efficiente killer abbia la funzione di investigatrice sul segreto che potrebbe radicalmente mutare il panorama della società.
Blade runner 2049 si concentra sulla ricerca da parte di K, e vede, nella II parte, il ritorno di Harrison Ford nelle vesti di coprotagonista. Perché parte del segreto riguarda lui, in continuità cogli eventi e le persone del 2019 svolti nel primo film.
Il sequel ha lasciato perplessi molti spettatori, perché il suo procedere solenne e talvolta ieratico potrebbe sembrare lento. Ma qui si parla di trasformazioni dell’intera umanità, in un’atmosfera che già le vede in atto nel concetto stesso di esistenza.
Le scenografie sono postapocalittiche e sembrano tutte come tracce di passati distrutti,che incombono sul destino e la sorte degli umani: un po’ alla Mad Max. Dennis Gassner, lo scenografo, ha operato scelte completamente diverse dal film dell’82. Mentre quelle si sviluppavano sul senso dell’altezza, compatta e attraversata da preziose idee figurative, qui, invece, sul senso della linearità orizzontale compositiva, ma assai più inglobanti. Che ci suggeriscono, con la stessa efficacia artistica, un mondo e un’umanità in grave sofferenza.
La fotografia di Roger Deakins, uno dei più grandi direttori della foto americani, riempie di tonalità opache e nebbiose la drammatica e sofferta odissea di K, che in realtà persegue un personale percorso, lui che è un replicante: quello della conferma di una dimensione di umanità che ormai gli è propria, nonostante la sua natura, di cui è perfettamente a conoscenza, e lo stesso lavoro che fa. La sua è una sofferenza segreta, perché sa che non gli si permetterà di svilupparla se vuole rispettare l’ordinamento di cui è parte. Di qui il conflitto interiore e le fantasie, poi brutalmente disilluse, che lo consumano. Ma ciò gli dà una connotazione di personaggio propria e originale. Che si manifesta con leggere increspature, sottili ma efficaci, in una recitazione per lo più molto fisica.
D’altronde tutti i Replicanti aspirano all’umanità, che comunque è parte di loro: come si vede anche nel confronto col primo che K “ritira” (fa fuori).
Le musiche sono di Hans Zimmer: anch’esse di grande coinvolgimento; come il montaggio di Joe Walker che ha spesso lavorato con Villeneuve.
Mi ha colpito il personaggio di Joy, un ologramma-assistente, generato dal computer. Come anche in altri film (Lei, ‘13, di Spike Jonze), capita che il processo di immedesimazione del computer col suo padrone, generi processi di umanizzazione reciproca. Qui l’attrice Ana De Armas ne dà una versione allusivamente sexy, ma anche sottilmente e soffertamente romantica.