La recensione, Animali notturni
di FRANCESCO ”CICCIO” CAPOZZI
Susan, gallerista di successo, dalla vita esteriore brillante, benché inquieta e infelice, riceve il manoscritto del romanzo dell’ex marito Jake, finalmente terminato. Lei lo aveva lasciato infatti, quasi vent’anni prima, a causa della fragilità emotiva e indecisione creativa ed esistenziale. Ma il romanzo parla di loro …
Premiato a Venezia 16 col Leone d’Argento e il Gran Premio della Giuria, il film (USA, ‘16) attesta definitivamente le qualità autorali del suo regista, qui anche sceneggiatore e produttore, Tom Ford.
Questo aitante, piacione giovanottone maturo (ha 55 anni ben portati) proveniente da Austin (Texas), architetto, nasce come fashion stylist, avendo lavorato con griffes del calibro di Maison Gucci, che anzi, aiuta a rilanciare, e più recentemente con Yves Saint Laurent, e poi una sua. Dopo aver operato nel cinema nel settore dei costumi, Tom Ford decide di passare alla regia: nel 2008 con A single man, pure presentato a Venezia, firma la sua prima.
Come si vede, ha una provenienza atipica. L’esperienza c’induce a guardare, se non con sospetto almeno con cautela, a questi artisti che in possesso di professionalità, se non anche di evidenti talenti in segmenti molto specifici dell’espressività comunicazionale per immagini, passano al cinema. Tendono a privilegiare, a discapito delle altre numerose componenti stilistico-narrative che rendono il cinema unico e complesso, quella loro. È capitato con artisti scenografi, oppure magari magici creatori di sfx (effetti speciali) che, passati alla regia, hanno toppato.
La formazione e il gusto di Ford, di grande qualità cromatico-visivo, sono stati molto e fin troppo presenti in quel suo primo film, tratto come il presente, da un romanzo preesistente. Però la narrazione, nonostante i numerosi, minuti, maniacali compiacimenti estetizzant i- che ricordano, nel bene e nel male, Luchino Visconti -risultava “a finale” ben costruita sulla forza concentrata e l’emotività controllata del suo protagonista, interpretato da Colin Firth, che ottenne una meritata Coppa Volpi per l’interpretazione.
Nel film odierno, invece, la sfida si è fatta ancora più ambiziosa. Nella sostanza, Animali notturni, come ha detto il regista, è una «… storia d’amore, non di vendetta», ma, contemporaneamente, lo sguardo che l’autore pone, attraverso il mondo dell’arte, sulla società, mette in evidenza «… l’assurdità del mondo, dell’America esagerata, sovralimentata, invecchiata».
È molto arduo tenere insieme questi elementi. Eppure, il film ci riesce. La bellissima sequenza iniziale della Mostra-Evento di Body Art, scandita dalle musiche quasi totemiche di Abel Korzeniovski, che ricordano quelle di Jocelyne Pook del kubrickiano Eyes wide shut, e dal montaggio “aggirante” di Joan Sobel, è di una bellezza e di una efficacia tematica sconcertanti.
Sono delle vere metafore viventi quelle donne più che grasse, proprio obese (F. Botero?), semidiscinte, “catturate” in una loro identità fatta di attrazione e di repulsione. Di sensualità fascinosa, commista al ribrezzo per ciò che, secondo i comuni canoni, è “brutto e rivoltante”. Di gridata benché indifesa umanità delle persone ivi ritratte.
Tali donne danno puntualmente vita a ciò che ha affermato il regista. Cui fa da contrappunto la presenza di Susan, imprenditrice-artista di successo: è algida, distaccata. Bellissima e inattaccabile. Olimpica nella sua refrattarietà al mondo: sembra che nulla possa colpirla, inarrivabile ma “buia”, benché sempre incorniciata dal rosso fiamma dei capelli, e dal verde smeraldo degli occhi. Perché nella sua anima c’è il vuoto.
L’attrice Amy Adams, bravissima, ne dà una rappresentazione intensa: ma si scioglie come neve al sole quando “entra” nell’universo narrativo del romanzo dell’ex marito. Le sue angosce tornano a galla e la devastano e si sente indifesa, impotente rispetto alla nullità della vita e dei rapporti umani che ha “scelto”. In realtà è la sua appartenenza sociale, se non clanica, che l’ha spinta a lasciare il marito, “semplice” commesso di libreria, pur se sensibilissimo intellettuale, con cui conduceva una vita oscura.
La terribile madre le ricorda chi era e a cosa lei voleva ed era stata educata ad essere destinata: al successo, alla ricchezza e al glamour costoso dei ricchi. C’è un dialogo tra la madre, interpretata da una splendida Laura Linney, che tra l’arpia e la psicologa, la invita a non ingannare se stessa, e a non sposare quello sfigato. E lei, dopo qualche velleitaria resistenza, si adegua. Le sue sono state “non scelte”: come anche ora per apatia e paura della solitudine continua a subire il disamorato e vanesio marito, che l’ha spinta in alto nella società.
E a tutto si contrappone la secchezza violenta e rude, senza fronzoli o abbellimenti di sorta, né di scenografia, né di colori, della vicenda di brutalità e stupro subita dalla famiglia del protagonista del romanzo, che ha le sembianze dell’ex marito (Jake Gyllenhaall). Che è tutta una elaborata, ma chiara metafora, del gesto irreparabile da lei perpetrato con meditata finalità, nel lasciarlo e gettarsi nelle braccia del ricco amante, poi marito.
Ma è una metafora animata da personaggi viventi come il poliziotto, un simil cowboy delle praterie texane, a sua volta in cerca di giustizia, e dall’umanità segnata dentro dalla sofferenza. O dai cattivi, dalla crudeltà casuale e senza causa: come il marito, bello, egoista e privo di umanità.
I livelli narrativi del film sono ben tre: il presente, la meta-narrazione del romanzo, e il confrontarsi col passato. Non solo sono distinti, ognuno con una sua precisa funzione drammaturgico-narrativa, cui si accompagna una adeguata e originale declinazione di montaggio e di cromatismi fotografici: ma “entrano” ognuno nell’altro con accorta fluidità e “necessità” strutturale.
Ad esempio: la fotografia, curata da Seamus McGarvey, dà di ogni fase una definizione cromatica diversa: il presente ha una luminosità fredda, ma in cui sono visibili spietatamente, i più piccoli dettagli; quella della narrazione del libro è “un grande cielo” opprimente e senza fine; il passato ha una pastellosità più umana e vicina agli attori.E tutto ciò rende il film fortemente unitario. E questa è la migliore lode che si possa fare ad un prodotto così elaborato, ma di così grande fascino.
La grande bellezza spesso copre il grande vuoto.