La recensione, Animali fantastici e dove trovarli
di FRANCESCO “CICCIO” CAPOZZI
1926: il magizoologo, ovvero un ricercatore e allevatore di animali fantastici e magici, Newt Scamander arriva dall’Inghilterra a New York. Ma dalla sua valigia-mondo scappano alcuni dei suoi esemplari. A parte il vivo fastidio che provoca tra i maghi USA, si trova al centro di uno scontro tra l’oscuro Gellert Grindewald, che sembrava fuori gioco, e tutta la magia ortodossa.
Pareva strano che dopo il successo miliardario della ”infinita” saga del maghetto Harry Potter (in realtà sette film di cui l’ultimo in due parti), il team creativo che si era formato potesse “star fermo”. Ecco quindi che la vera chiave di volta dell’operazione, la scrittrice inglese Joanna Kathleen Rowling, che ha scritto tutti i libri di Harry Potter, ha tirato fuori dal cilindro della sua inesauribile e geniale fantasia una specie di spin off della saga più famosa.
Personalità molto forte, la Rowling ha avuto un controllo pressoché totale sia in fase creativa che di casting:, concordando ogni passaggio col regista, la produzione, gli effetti speciali, ecc.
Questo magizoologo Scamander è, anzi lo era fino a pochissimo fa, l’autore semisconosciuto di un testo di studio adottato a Hogwarts, e che l’autrice si era divertita a scrivere nel 2001 creando un breve catalogo di 75 creature fantasioso-fantastiche – ispirandosi a J.R.R.Tolkien – presenti nel modo parallelo a quello “babbano”(i non maghi). Testo usato anche dal Maghetto.
Come in tutte le saghe che si rispettino, ogni singolo, benché piccolo personaggio, è latore di una narrazione che lo riguarda. La Rowling, che è esempio di fine, colta e profonda letterarietà, accoppiata ad una fantasia sfrenata e potente, ha dato una vita autonoma al personaggio, configurandolo nelle fattezze dell’attore, assolutamente azzeccato nella parte, Eddie Redmayne.
Ma questa volta, non si è limitata ad ideare il film (UK-USA, ‘16): ne ha scritto la sceneggiatura e l’ha coprodotto, anche se il principale produttore di riferimento è l’inglese David Heyman, che ha dato fiducia alla Rowling e ha seguito con successo e perseveranza fin dall’inizio l’impresa Harry Potter.
Inoltre, i due hanno trovato in David Yates il regista adatto, presente in ben quattro titoli di Potter, compresa la II parte dell’ultimo. Chiaramente, l’atmosfera narrativa è simile a quella della saga precedente. Ma vi sono differenze, anche piuttosto rilevanti. La più importante è tematica.
La saga di Harry Potter era, nella sostanza, un grande romanzo di formazione, che aveva accompagnato la vocazione, prime avventure e crescita, di questo adolescente che credeva di essere un brutto anatroccolo, del suo confrontarsi col mondo degli adulti, e con le difficoltà della vita, in una metafora fascinosa e multiforme, dai molti e complessi risvolti psicologici.
Però essa negli ultimi titoli si era evoluta. Era diventata una riflessione sul potere. Shakespearianamente, la ricerca del padre si era rivelata un confronto serrato tra le diverse e contraddittorie componenti motivazionali che spingono all’agire consapevole. Una delle quali, la più insidiosa, è quella dell’ambizione sfrenata che si nutre della considerazione che si ha di sé, se non è mitigata da altre e più articolate valutazioni. Il potere di fare, diventa desiderio di essere senza limiti ciò che si ritiene di aver diritto di diventare, grazie alle facoltà superiori di cui si ha possesso.
È la qualità letteraria presente nei romanz, che ha permesso alla saga di evolvere. Nel presente film abbiamo un protagonista che è un giovane adulto, che viene dal Vecchio Mondo, a “mettere al suo posto” un animale fantastico. È ingenuo, sognatore e sensibile, ma non stupido. Ha già un quadro di valori definito: il suo amore per gli animali fantastici è intriso di desiderio di conoscenza e rispetto.
Lo scontro tra la realtà americana dei Maghi e il suo modo di vivere, più “europeo”, è forte: essi sono più burocratizzati, perché così ritengono debbano difendersi dalle paure che i no-mag, così sono chiamati i babbani oltreoceano, possono nutrire nei loro confronti. Del resto, viene posto come contraltare al personaggio principale, Scamander, un umano non mago, un improbabile ma simpaticissimo aspirante pasticciere , l’attore Dan Fogler, specie nei rapporti con l’affascinante maga telepatica, bella e destabilizzante (l’attrice Alison Sudol). Costui accompagnerà le vicende di Newt.
Pure questa è una non piccola differenza con la saga del Maghetto: il confronto con chi è fuori del circuito magico, indica un desiderio di uscire dall’autoreferenzialità narrativa, suscitare una riflessione più contrastiva sul mondo della magia, rispetto alla restante umanità. Tra l’altro, ciò serve a meglio animare e mirare l’aspetto metaforico insito nella narrazione.
La Rowling, intelligentemente, in questo ha fatto propria la lezione del cinema tratto dalla letteratura disegnata (i fumetti):, in particolare della Marvel, in cui gli eroi, pur positivi, non ignorano e/o sono spesso in contrasto cogli umani. Come anche ha “preso” dai film Men in Black alcune idee figurative: come il disegno di alcuni animali e quella di “smemorizzazione”, che però ha “rinforzato” con l’uso fantastico del controllo della dimensione temporale, che avviene in una visualità originale e potente.
La caratteristica di questo film è la sua orizzontalità: è cromatico-visuale e narrativa a un tempo. L’intera città di New York è la protagonista: interamente ricostruita negli attrezzatissimi studios inglesi di Leavesden nell’Hertfordshire, è il teatro dell’azione, immersa nella dimensione fotografica “cupa e dorata”, come ha detto lo stesso regista, commentandone l’apporto del grande Philippe Rousselot.
E anche l’atmosfera dei tardi anni ‘20, nel pieno della crisi economica, serve a creare un ponte con le angosce di una fase di drammatica trasformazione dell’intera società globale odierna.
Però, ad onta di questa cupezza, indotta soprattutto dalle storture dell’umanità sia dei maghi che dei no mag,si libra la piena, ariosa felicità creativa degli animali fantastici. Specie quelli alati, ricordano l’Orlando Furioso e sono frutto di preziosi e fantasmagorici effetti speciali, soprattutto visuali, coordinati da Tim Burke e Christian Manz. Hanno leggerezza, profondità e complessità creative, ironia nel modo di presentarsi, drammaticità quando serve.