La Novella, Serena – La Memoria
Alle nostre madri: senza di esse non saremmo state così… E noi, cosa siamo diventate noi? Le prime della classe, come Allegra e la sua memoria …
di Bianca Sannino
Mi sono nutrita di tutto ciò che i poeti latini, greci, i filosofi, gli artisti di tutti i tempi hanno lasciato a perenne memoria. Il racconto struggente e appassionato dell’anima dell’umanità.
Ogni volta nascevo, morivo, soffrivo, gioivo, rinascevo e ogni volta ero una persona diversa, arricchita e nutrita di tutto ciò che imparavo, studiavo e facevo mio. Diventava il mio sangue e il mio nutrimento. Trascorrevo ore a leggere, mi immergevo così totalmente nella lettura che il mondo circostante non esisteva più, venivo trasportata in un non luogo senza tempo.
Di pomeriggio, quando mia madre andava a trovare mia nonna, amavo fare lunghe passeggiate nel giardino fuori casa sua. Parlavo con gli alberi, con i fiori e quando pioveva mi immergevo sotto quella fonte sacra e mi purificavo. Spesso ero presa da un vero e proprio furore sacro e quasi in una danza mistica mi prostravo in terra e ringraziavo il Dio vivente per tutta la bontà del creato.
Ero decisamente una ragazzina un po’ strana, vivevo sempre sospesa tra il reale, che mi appariva grigio e triste e questo mondo parallelo, dove tutto era possibile e dove l’ideale platonico regnava sovrano.
A scuola avevo stretto rapporti con poche persone, in particolare con due compagne d’infanzia che condividevano con me la stessa provenienza dalla periferia suburbana.
Il mio liceo era frequentato da persone appartenenti a varie zone della città, che un mio compagno di classe, Flavio il riccio, aveva suddiviso in varie tipologie: quelli che per giungere a scuola prendevano la cafoniera, perché abitavano in periferia o addirittura in provincia, i montanari e i collinari, perché abitavano nelle zone collinari della città, i chiattilli, quelli che provenivano dalle zone bene, i quasi cittadini, coloro che provenivano dalla città ma in zone più periferiche e i cittadini, coloro che abitavano nel centro storico. Lui apparteneva a questa ultima categoria, ma aveva deciso che io, pur essendo una che prendeva la cafoniera, era degna delle sue attenzioni, perché sveglia e sognatrice al tempo stesso.
Mi girava intorno, mi lusingava con mille moine, mi accarezzava i capelli, ma io ero intimidita e soprattutto il suo nasone non me lo faceva somigliare affatto a quelle bellissime statue greche di cui ero innamorata. Mi chiedevo se il principio greco del kalòs kai agatòs potesse essergli applicato, se la bellezza e la nobiltà d’animo davvero coincidessero e nell’incertezza lo allontanai da me.
Il professore di latino e greco del ginnasio era un francescano, ma di carità cristiana e amore compassionevole non ne conosceva nemmeno il significato più elementare. Aveva un aspetto tetro e quando d’inverno indossava la cappa nera sul saio marrone ci sembrava più simile a Belfagor che a quelle immagini agiografiche che ci portava ad ammirare nel meraviglioso chiostro nel quale aveva la fortuna di vivere.
Ci chiedevamo, infatti, se il vero motivo per cui avesse indossato quell’abito non fosse legato al privilegio di appartenere ad un ordine religioso che non ad una vera vocazione. Per lui studiare male era un peccato capitale, spesso capitava, quando non eravamo sufficientemente preparati, che ci condannasse all’inferno.
In realtà l’inferno lo vivevamo quotidianamente con lui, non potevamo parlare, girarci, ridere. Violenti conati di vomito mi prendevano prima di varcare la soglia di quel portone: Per me si va nella città dolente, per me si va nell’etterno dolore, per me si va tra la perduta gente. Questa frase era stata incisa con un temperino nel legno del portone da qualche studente un po’ burlone che però aveva colto nel segno.
Sulle scale di marmo lise e scivolose campeggiava una lapide a memoria dei giovani studenti del liceo caduti durante la Prima guerra mondiale, su un elenco interminabile di nomi senza volto c’era questa scritta: Morendo si sottrasse a morte il santo stuolo. Ogni volta che andavo in bagno e salivo quelle scale il pensiero della morte gloriosa, della memoria e dell’immortalità si rincorrevano nella mia mente: morendo si sottrassero a morte. La morte del corpo in cambio dell’immortalità della memoria, il sacrificio di giovani vite per guadagnarsi una lapide guardata distrattamente da altrettanto giovani vite.
Cosa abbiamo imparato da ciò? Credo quasi nulla, anzi il nulla. La mia è una generazione di falliti, e non parlo di risultati professionali, economici o sociali. Parlo del fallimento dei valori, dei principi.
Bianca Sannino, docente appassionata nella scuola statale italiana, vive e insegna a Portici da più di vent’anni.
Dopo aver attraversato perigliosi mari in vari ambiti e settori ed essersi dedicata alla redazione di libri saggistici e specifici del settore dell’insegnamento, esordisce oggi nel genere novellistico.
Due lauree, corsi di specializzazione, master non sono bastati a spegnere la sua continua, vulcanica e poliedrica ricerca della verità.
Da sempre, le sue parole che profumano di vita e di umanità, arricchite dalla sua esperienza e sensibilità, restituiscono delicati attimi di leggerezza frammisti a momenti di profonda riflessione.
Nel 2021 inizia la collaborazione con LoSpeakersCorner.
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Uno dei racconti più belli che abbia mai letto. Complimenti a questa scrittrice.
Bellissima❤❤❤