La notte del 31 ottobre 1926 a Napoli
Il nostro autore racconta i giorni successivi all’attentato a Mussolini: nella notte del 31 ottobre 1926 gli squadristi organizzarono spedizioni punitive anche a Napoli
di Teodoro Reale
Il 31 ottobre 1926, durante la commemorazione della marcia su Roma, a Bologna il quindicenne Anteo Zamboni spara, senza colpirlo, un colpo di pistola verso il capo del governo, sfiorandone il petto. Quasi subito lo Zamboni fu linciato sul posto dalle camicie nere e colpito con numerose coltellate.
Dopo l’attentato, la reazione degli squadristi non si fece attendere: vennero effettuate spedizioni punitive in diverse città, tra le quali anche Napoli.
Un primo episodio fu quello ricordato dall’avvocato Mario Palermo: «Passando per piazza del Plebiscito, ero in tram, vidi l’arcivescovo di Napoli, cardinale Ascalesi, mentre usciva dal palazzo della Prefettura (ove si era recato per far giungere a Mussolini le sue felicitazioni per lo scampato pericolo) che veniva acclamato da una grande folla di scalmanati che inneggiavano al duce all’insegna di una forca, alla quale, essi gridavano, dovevano essere appesi i nemici del fascismo. Ma quale fu il mio stupore quando vidi che il cardinale, messosi in testa alla folla, sotto l’insegna della forca, si avviò verso a chiesa di san Francesco di Paola, ove intonò con quei criminali un Te Deum di ringraziamento.»
Probabilmente negli stessi momenti, vi fu un raid al Vomero in via Andrea Vaccaro: davanti alla casa di Mario Amendola, il quale in seguito alla tragica scomparsa del fratello Giovanni, ne aveva accolto i figli, si radunò un gruppo di fascisti.
In proposito così ha ricordato Giorgio Amendola: «Sotto le finestre del villino dove eravamo stati accolti io ed i miei fratelli, dopo la morte di mio padre, in casa di nostro zio e tutore. Quando la manifestazione divenne più minacciosa, intervenne la polizia, che fece ritirare gli squadristi. Evidentemente si pensò che non fosse opportuno insistere presso la casa che ospitava gli orfani di Amendola. Invece le squadre fasciste ebbero via libera e potettero compiere la loro vandalica opera nelle case di altri antifascisti, tra i quali v’erano quelle di Benedetto Croce, di Roberto Bracco, di Arturo Labriola.»
Infatti gli episodi più gravi avvennero nel corso della notte, quando vennero assalite le case degli antifascisti più in vista.
Tra le prime abitazioni ad essere assaltate fu quella del commediografo Roberto Bracco in via Santa Teresella degli Spagnoli, che riuscì a scampare alla furia degli assalitori perché era a cena con il giornalista Paolo Scarfoglio.
Mentre rincasava Bracco notò uno strano assembramento sotto casa, e venne subito riconosciuto da un paio di squadristi che si avvicinarono minacciosi, prontamente ridiscese verso via Toledo dove stazionavano alcuni Carabinieri, sottraendosi così all’aggressione. Ma nel corso della notte i fascisti ritornarono più numerosi, circa cinquanta, convinti di trovare il commediografo.
Bracco così narrò i fatti nella denuncia presentata il 4 novembre successivo, (conservata nel Fondo Bracco-Del Vecchio presso l’Istituto Campano per la storia della Resistenza, che ringrazio nella persona della direttrice, professoressa Giulia Buffardi), «Commendator Peruzy questore di Napoli.
Napoli, 4 novembre 1926
Illustre Commendatore,
alla sua sperimentata scrupolosità mi rivolgo affinché Ella tenga conto dei seguenti particolari che sono necessari a comporre il quadro completo di quanto riguardante relativamente ai fatti orrendi del 31 ottobre. Uno di questi particolari le fu già da me riferito senza ch’Ella avesse il tempo di prenderne nota. Quello che aggiungerò non credo siano risultati dalle sue indagini attraverso l’inevitabile confusione.
Comincio dal particolare che le fu già da me riferito. Quando io, avendo scorta una strana folla intorno al palazzetto in cui è la mia abitazione, mi avviai verso la Questura, due ceffi cominciarono a seguirmi, i quali dopo di avermi forse definitivamente identificato, affrettarono il passo. Non mi perdetti d’animo. Mi misi a correre deviando. Me li ritrovai alle spalle in via Speranzella. E alle spalle me li sentii, veloci come me, finché non attraversai – sempre più correndo- la via Toledo, che, essi non osarono attraversare.
Gli altri particolari sono questi. La mia casa subì due assalti. Non uno. I primi assalitori – otto o nove – procedettero subito all’opera di devastazione crudelissima e sapiente. Vollero anche frugare nei cassetti del mio studio, sacro al lavoro. Molti ne rovesciarono, sottraendo ricordi carissimi e manoscritti tra cui qualcuno inedito (nulla poteva colpire più profondamente il mio cuore!). E questi manoscritti insieme con una grossa quantità di libri quei bruti andarono a bruciare in strada. I secondi assalitori erano in gran numero. Più di cinquanta.
Suo Roberto Bracco.»
Il giorno dopo il Bracco fu visitato, come altre vittime degli assalti, dal giovane Giorgio Amendola: «Trovai Roberto Bracco per terra fra i suoi libri devastati, calpestati, bruciacchiati: la sua biblioteca, il suo tesoro, il suo più caro patrimonio. Piangeva, quest’uomo, piangeva come un fanciullo, e mi abbracciò e mi disse:«Ma perché se la sono presa coi libri? Potevano prendersela con me! Perché hanno fatto questo ai miei libri? Che colpa ne hanno i libri?». In realtà egli metteva il dito sulla piaga: il fascismo aveva paura dei libri, perché la cultura rappresentava un elemento di libertà e di democrazia, di indipendenza, che il fascismo voleva distruggere per affermare la sua dittatura.»
Verso la mezzanotte venne assalita l’abitazione di Arturo Labriola in via Giandomenico d’Auria n. 4 al Vomero. Come ha ricordato il figlio Lucio: «L’invasione ebbe luogo intorno alla mezzanotte di quel giorno dell’ottobre 1926 in cui si produsse l’attentato – o preteso attentato – attribuito al giovane Zamboni contro Mussolini a Bologna. Rinuncio a descrivere dettagliatamente quest’avventura tragicomica la cui sola vera vittima fu una parte del mobilio di casa, e nella quale, con nostra grande sorpresa, mio padre ed io non fummo né percossi né ingiuriati dagli invasori.
Basterà dire che, comunque, l’evento ci lasciò entrambi molti scossi e determinò in mio padre la decisione, come che si fosse, di lasciare l‘Italia.»
Dell’assalto all’abitazione di Amadeo Bordiga sappiamo da un rapporto, firmato con lo pseudonimo di Renzi, del successivo 5 novembre, dall’allora segretario interregionale del partito, il ferroviere pisano Athos Lisa, inviato al Centro Clandestino del Partito Comunista a Parigi, dal quale apprendiamo che alcuni assalti ebbero luogo anche in provincia, come nel caso di Gino Alfani, all’epoca dei fatti sindaco di Torre Annunziata: «Oggi potrò riallacciare i contatti. Ho (…) un abboccamento con Alfani onde vedere di riuscire nell’intento. Alfani ha avuta distrutta completamente l’abitazione, così si dice di altri quattro del suo rione. Delle altre rappresaglie in città avrete letto sui giornali, ma in ogni caso per adesso e solo ufficiosamente, posso confermare che le case di Amadeo, Labriola, Croce, Bracco, Scarfoglio, ecc. sono andate completamente distrutte.»
Un particolare curioso sull’avvenimento lo dobbiamo ad una tarda testimonianza del critico letterario Guido Botta, amico dei figli di Bordiga, Oreste ed Alma: «Dopo aver sfasciato a colpi di manganello e di calcio di moschetto tutto quanto aveva l’apparenza di politico o culturale, gli incursori si trovarono di fronte al busto di Marx. Attimi di perplessità, poi la storica sentenza del caposquadra, nutrito di sane letture patriottiche: “Questo lasciatelo stare. Garibaldi non si tocca”.»
Ad essere assaltata e saccheggiata fu anche la casa, con l’annesso studio medico, in via Duomo, di Dino Fienga, dal 1924 primo segretario della federazione comunista napoletana in via Duomo, e sempre nella stessa via i fascisti fecero irruzione nella casa del dentista anarchico Giuseppe Imondi, fondatore del bisettimanale Anarchia, e tra i promotori nel 1921 delle manifestazioni napoletane a favore di Sacco e Vanzetti,
Probabilmente l’ultima casa in ordine di tempo verso l’alba, ma non meno importante tra quelle assaltate fu quella di Benedetto Croce, nella via che oggi porta il suo nome, al n. 12, allora via Trinità Maggiore.
Il Croce medesimo nei suoi Taccuini il giorno dopo, 1 novembre, annotò: «Stanotte, alle 4, siamo stati svegliati da un gran fracasso di vetri rotti e di passi affrettati; era una dozzina o quindicina di fascisti, venuti a devastarmi la casa, hanno rotto tutti i vetri, sfondato quadri, e spezzato vasi e mobili delle stanze per cui sono passati.
Gettatomi dal letto, mi sono affacciato dalla stanza per domandare cosa fosse; mi hanno risposto: “Fascisti, fascisti”, e un tale ha aggiunto volgari parolacce. Mentre infilavo i calzoni e mettevo le scarpe, mia moglie si è precipitata loro incontro, passando per altre stanze, ed essi, alla presenza e alle parole, hanno smesso di colpo, si sono chiamati a raccolta, hanno spenta la luce gettando la casa nell’oscurità, e sono dileguati. Ci siamo affacciati al balcone, e li abbiamo visti rimontare nel camion con gli altri che facevano la guardia giù al portone. A giorno, ho ripreso le letture storiche e gli appunti dai libri letti e segnati; ma c’è stata un folla di amici, venuti a chiedere notizie dei fatti di stanotte, che ho potuto continuare a stento il lavoro, dal quale mi ero proposto di non distrarmi.»
Inoltre, pochi giorni dopo, il 5 novembre, il filosofo in una lettera a Giovanni Giolitti, aggiunse altre notizie: «Carissimo amico,
Nella notte dal 31 al 1, alle 4, una squadra ha fatto irruzione nella mia casa, dove dormivano otto donne e io stesso era immerso nel sonno, e ha fracassato quadri, vetrate, mobili in parecchie stanze, con grida e ingiurie.
La mattina dopo, ho appreso che avevano voluto fare in quel modo una rappresaglia per il colpo di rivoltella sparato a Bologna, e che, se altri attentati accadranno, faranno peggio.
Nell’informarti della cosa mi è grato rivolgere un pensiero a te, rappresentante del vecchio, probo e liberale Piemonte, e rinnovare nel mio animo il sentimento di italiana con quel Piemonte ebbero i patrioti liberali napoletani ai quali io mi sento congiunto non solo da ricordi storici ma da legami di famiglia. Sembra che ora siamo chiamati a sostenere a nostra volta le prove che essi sostennero ai tempi della “Santa Fede!”
Ti stringo la mano.»
Dopo gli assalti alle loro case, coloro che sedevano alla Camera dei Deputati, come Gino Alfani, Roberto Bracco, Arnaldo Lucci e Enrico Presutti – dei quali non sappiamo se anche le loro case vennero assaltate – nella seduta del successivo 9 novembre, su proposta del segretario del partito nazionale fascista Augusto Turati e di altri deputati fascisti, vennero dichiarati decaduti dalla loro carica insieme agli altri deputati dell’opposizione. Quelli comunisti vennero arrestati.