Jep incontra Paolo. Un dialogo
di Francesco “Ciccio” Capozzi
Il regista Paolo Sorrentino, improvvisamente si sveglia. Sono le tre passate. Alza il suo busto in mezzo al letto: la moglie dorme al suo fianco. Il suo ronfare gentile al buio, come al solito, nel produrre attorno a lei un alone sonoro di tenerezza, lo placa: è tutto tranquillo.
Ma non è solo la sua insonnia a risvegliarlo: è come se avesse sentito un rumore, per quanto ovattato e lontano, al di là della stanza da letto, proveniente dal soggiorno. Si alza, mette le pantofole ai piedi e si dirige verso là. Entra, in quel semibuio rischiarato dalle lontane luci dei lampioni della strada, e, senza accendere la luce, lo vede. Anzi: lo distingue, comodamente spaparanzato sulla poltrona “sua”, quella più comoda, tacitamente, da tutti i membri della famiglia, a lui riservata. Sta là. Lo guarda. Lo sta aspettando.
«Ué!, finalmente sei venuto … – gli fa – Ti facevo più insonne e sensibile …». «Si, ma lei chi è?», interloquisce Paolo, né spaventato, né particolarmente sorpreso di trovarsi quello che gli sembrava un perfetto estraneo in casa. Anche se, bisogna dire, un’impressione soffusa, che si allargava dentro, proprio nel suo stomaco, più che nell’intelligenza, lo avvertiva che quel tizio là non gli era poi così estraneo.
«Comme, chi so’? So’ Jep. Jep Gambardella. Ci siamo conosciuti nel tuo film…Aspetta. Mo’ me metto ‘o cappiello … ‘o Panama n’capo…», così facendo ecco che apparve il famoso cappello di Panama tra le mani. Se lo mise in testa. «E accussì me saie?», soggiunse, mentre un sorriso compariva sulle labbra.
«Ora sì – fa Paolo, comunque sconcertato – Ma tu non sei Toni?»
«Ma nun dicere cazzate! È Servillo che ha copiato me, dopo che tu gli avevi detto chi ero!… »
Paolo lo guarda con quel distacco che sa di fatalismo e di accettazione passiva di ciò che resta inspiegabile, di chi comunque vuole avere a che fare con ciò che non si capisce … ma si sentiva soprattutto intrigato da quella forma di pura arazionalità, che si stava svolgendo attorno a lui, e di cui si sentiva un impotente testimone. «Sì, ecco la parola: arazionale – si diceva – E che vuole da me, ora? Alle tre di notte … E poi … Ma chi le ha dato le chiavi di casa mia?», soggiunge, né impaurito, né offeso: più che altro curioso di come fosse riuscito a entrare.
«Uh che domande! Ma tu me le hai date! Ti sei scordato quando mi cercavi sempre, giorno e notte, a qualunque ora, e pure di pomeriggio, quando mi sarei voluto fare la sacrosanta pennica del sessantenne, per tutti quei giorni, sia feriali che festivi, senza mai saltarne uno, fosse anche delle festività di Natale! Ah, te si’ scurdato?»
E guardava fissamente Paolo, come per dirgli mestamente con la pura forza del pensiero: «Mentre mo’, ca ’e ‘vuto pure (hai avuto pure) l’Oscar per me … non mi fili più per niente …»
Però, Jep intellettuale e sapiente, esperto di vita e di mondo, bon vivant, non avrebbe mai e poi mai, per puro orgoglio, pronunciato queste ultime parole … Si sarebbe solo e inutilmente sentito umiliato, come uno di quei maturi e sciocchi amanti respinti, perché aveva capito benissimo che sarebbero state impotenti frecce, cadute miseramente in terra, lontane dal bersaglio.
«Eh, già! Mo’ t’a faie cu ’e prievete! », pensò Jep, ma disse: «Pe’ carità! L’artista deve essere e sentirsi libero rispetto ai condizionamenti esterni, economici. Ma anche da quelli interni, diciamo così, provenienti da passate elaborazioni, da passate passioni … Uno deve andare avanti, creare, conoscere, confrontarsi con personaggi e gente nuova … Non dirlo a me, che la noia del vecchio, del passato, del trito mi consuma…»
E qui fece una pausa, – a effetto? di tipo compiaciutamente narcisistico? – come in parte era abituato a fare nelle sue conversazioni, volendo dare il tempo al suo interlocutore di riflettere sulle sue parole, quasi facendole assaporare: di farle pesare, in un certo senso. La pausa era data dall’inalare voluttuosamente il fumo della sigaretta, che si era acceso quasi senza accorgersene, come un gesto meccanico. Ma era il mezzuccio cui ricorreva spesso nelle conversazioni, specie di quelle che giudicava “di peso”.
Il silenzio della stanza era solo in parte riempito dal tremolio azzurrino del fumo, attraversato dalle luci lontane della notte, incerto e senza forme precise. Paolo lo guardava con attenzione, il mento appoggiato sulla mano, ben comodo sull’altra poltrona di fronte a lui: distaccato e anche curioso, come se fosse normale incontrare una figura come Jep Gambardella in carne e ossa, per giunta “uscito” dal suo film … Nel suo salotto, nel cuore della notte.
Il suo silenzio, né sussiegoso, né timoroso, era un tacito invito a continuare; e difatti Jep riprese: «Però mi sembrava, dalle nostre chiacchiere, diurne e notturne … – soggiunse abbassando la voce, con un sorriso quasi di complicità – che sarei potuto diventare una specie di “guida” con cui affrontare e illustrare altri aspetti di Roma, o di Napoli, perché, tu lo sai, io sto a cavallo di queste due metropoli antiche e future …»
E qui un’altra pausa, come di concentrazione e riflessione su quello che stava dicendo, ma anche questo era un “silenzio-esca” con cui abbabbiarsi l’attenzione dell’interlocutore, per acchiapparla, e fare “uscire” il fascino di Gambardella causeur (conversatore) versatile e charmant, con cui legare a lui l’anima del suo interlocutore – così pensava, bene o male… – mentre faceva uscire dalle labbra e dal naso un’altra nuvola di fumo, densa e d’effetto.
«Città che non hanno presente … – continuò – L’unica presenza vera è quella, quasi mitologica della Suora Santa, che conversa cogli animali e osserva come anche il Cardinal mondano si azzittisca davanti al mistero della fede in un Dio che vive nascosto nell’ordinario nella banalità …»
Un altro silenzio s’intrufolava tra le parole di Jep. Ma stavolta era il silenzio anche di Paolo, che ascoltava affascinato, ammutolito da come la sua stessa ispirazione – che per lui stesso era talvolta un insondabile mistero – da cui aveva tratto le raffigurazioni poste in quel film si trasformassero in qualcosa che non gli apparteneva più. Erano parte di quel Jep che aveva di fronte, che una volta, non molto tempo fa, era “parte” di lui, lo aveva “abitato” giorno e notte, per mesi incessantemente, quasi ossessivamente. E ora gli era quasi del tutto estraneo. Anzi, lo ascoltava come per la prima volta, suo malgrado affascinato …
«Ma che? Non parli? – lo interloquì quasi infastidito Jep – Tu ca parlavi ogni volta, e ogni volta avevi qualcosa da dire, che fai? Te stai zitto?» Ma fu una specie di grido silente, quasi pieno d’angoscia, da parte di Jep: sapeva che il silenzio era peggio della negazione. Sarebbe stato di rabbia, se avesse avuto un venti, trenta anni di meno: ma anche qui, si rese conto che era tutto inutile … Con la spietata consapevolezza che oltre a quell’incontro, ci sarebbe stato il nulla Jep, “ascoltò” il silenzio di Paolo.
Dopo qualche istante – pochissimo tempo, ma sembrò tanto – fu Paolo a parlare: «Che vuoi che ti dica Jep? – cominciò – Tu sei tu … Tu mi hai guidato in quella bellissima bolgia che era Roma: tu sei stato la mia ispirazione … Tu sei la persona più ricca di sfumature che avrei potuto incontrare: tu sei contemporaneamente La Capria, Pasolini e Fellini: tutti e tre insieme, ma felicemente insieme. E in più sei uno che sa e che mi ha insegnato a campà (vivere): gli americani lo hanno capito più intensamente, più lucidamente degli italiani. Perciò hanno dato “a te” l’Oscar … Solo uno come te poteva estraniarsi e contemporaneamente partecipare al mistero dell’eternità che è Roma, pur nella sua odierna fatiscenza, che è l’organizzato modo di sfarsi nella sua tracotante, titanica bellezza, carica di storia e di umanità … E poi devo a te, al tuo punto di vista, con cui guardavi alla Chiesa, o meglio a quei rappresentati lì messi in mezzo, i momenti di riflessione che mi hanno portato a concepire The Young Pope. È la chiesa cattolica l’istituzione che “interpreta” questa natura così inafferrabile e in grado di trasformarsi, della città di Roma: anzi vi è “consunstanziale”, potrei dire. La Chiesa “è” Roma. Addirittura vi ha costruito un potere che, per quanto spirituale e indiretto, nella sua apparente fragilità è uno dei più efficaci del mondo attuale. E la complessità ed estrema difficoltà delle sfide cui essa è chiamata a rispondere mi hanno dato il senso del personaggio del Papa Giovane. Sfide, la cui non risposta, o debole, potrebbero rappresentare la sua fine. E con lei di Roma …» E si zittì.
I due rimasero in silenzio nel buio, come ad ascoltarsi. Dopo un po’, senza una parola, Jep si alzò, si diresse verso la porta di casa. Sulla soglia si voltò per lanciare, senza parlare, un ultimo sguardo intenso a Paolo e se ne andò, accostando delicatamente la porta dietro le spalle.
Paolo restò in salotto ancora un po’, anch’egli immobile e in silenzio. Si alzò, ritornò in camera. Si rimise a letto, dove la moglie ronfava con la stessa morbidezza di prima, si distese al suo fianco e riprese a dormire.