Io sto con Roberto
di Giovanni Renella
«A Giovanni, Pina e la piccola Roberta, queste righe di rabbia e passione. Roberto Saviano». Ricordo che era un lunedì sera di un caldo 17 luglio del 2006 e un giovanissimo Roberto Saviano aveva da poco finito di presentare il suo Gomorra, pubblicato ad aprile di quello stesso anno e già alla IV edizione. Il luogo era la villa comunale di Portici e l’occasione un dibattito a due voci sulla legalità, moderato dal sottoscritto, con don Tonino Palmese, attuale presidente della Fondazione Polis che, bontà sua, da più di trent’anni mi onora della sua amicizia.
Saviano aveva raggiunto Portici, da Napoli, con la Circumvesuviana: da solo, perché ancora non era sotto la tutela dello Stato. Lo riaccompagnai a casa in auto, insieme al mio amico Paolo Allegro, e ricordo che si fece lasciare in piazza Trieste e Trento: penso che all’epoca vivesse, da uomo libero, ai quartieri spagnoli o in quei pressi.
La memoria di quella chiacchierata in macchina fa parte del mio vissuto personale e poco incide sulla storia pubblica dei giorni nostri. Lo rividi a settembre di quello stesso anno a Casal di Principe. Anche quella volta ero insieme a don Tonino Palmese e lì, nella piazza di Casale, alla presenza del presidente della Camera Bertinotti e di altri rappresentanti delle istituzioni, assistemmo alla sfida a viso aperto che quel giovane scrittore stava lanciando, dal palco di una manifestazione contro la camorra, ai boss del clan dei casalesi. Fu l’ultima volta che incontrai Roberto Saviano.
Il 21 dicembre gli inviai una e-mail per gli auguri di Natale cui mi rispose così il giorno dopo: «Caro Giovanni è molto dura per me. Calunnie, insulti, isolamento. Davvero è tanto. Spero di vederti presto magari per fare quella cosa nelle scuole a cui tengo molto. Abbracci. R. » Quella cosa nelle scuole era un progetto di divulgazione del libro fra gli studenti delle scuole cittadine, così come stava accadendo altrove, affinché acquisissero una maggiore consapevolezza sulle infiltrazioni della camorra nel tessuto sociale del Paese, grazie alla lettura del libro e a un successivo confronto con l’autore, che si rendeva disponibile ad incontrarli.
«Per il resto se non vado nelle scuole ho fallito il mio compito. Un abbraccio stretto. Roberto». E questa è stata la conclusione dell’ultima e-mail scambiata con Saviano il 27 dicembre 2006, alle ore 19,07: già era cominciata la sua vita sotto scorta, perché i camorristi di Casal di Principe lo avevano “condannato a morte” per aver squarciato il sipario sulla loro realtà criminale e reso di dominio pubblico le dinamiche e i modi di pensare degli affiliati al clan dei casalesi. Una fatwa che, a distanza di dodici anni, ancora oggi pende sul suo capo.
Da allora non ho più sentito Roberto Saviano e neanche so se si ricorda più di me. Ma poco importa, perché io continuo a seguire il suo lavoro attraverso i giornali, la televisione, i social e so che è vivo: a dispetto dei camorristi e di chi, nelle istituzioni, ne ha mutuato la logica e il linguaggio.