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Il Racconto, Scirocco

di Lucio Sandon

«Pranzammo a Torre Annunziata con la tavola disposta proprio in riva al mare. Tutti coloro erano felici d’abitare in quei luoghi. Alcuni affermavano che senza la vista del mare sarebbe impossibile vivere. A me basta che quell’immagine rimanga nel mio spirito

Questo è quanto annotò il tredici marzo 1787 nel diario del suo viaggio in Italia, Wolfgang Goethe.

Torre Annunziata è una ridente cittadina che sorge alle falde del vulcano che distrusse ogni cosa, dopodiché sulla colata di lava nei secoli sorse una fitta boscaglia, infestata da belve e ladroni. Ora, chiusi quasi tutti i pastifici che la resero celebre, i depositi di grano, e anche la Real polveriera e fabbrica di polvere di cannone fondata dai Borbone, il luogo ha l’aspetto triste di una città umiliata e abbandonata.

«Dormi, o Poppea terrena dea» canta Claudio Monteverdi. È meglio davvero che la bella moglie di Nerone riposi in pace, perché se tornasse in vita, la sua vendetta nei confronti di chi ha ridotto così la sua villa a Oplontis, nello sfacelo economico e urbanistico di Torre Annunziata, sarebbe terribile.

Arduo immaginare cosa farebbero gli americani o i francesi se avessero la fortuna di avere in casa loro il tesoro inestimabile che è la Villa di Poppea: vedremmo un’area di rispetto, parcheggi, visitor center. Magari anche una struttura multimediale per introdurre gli ospiti alla comprensione di quanto sia importante ciò che stanno per vedere, a partire dalla stupefacente parete coi due pavoni, ove si vede una prospettiva studiata in tutto il mondo.

E poi un museo con i meravigliosi «Ori di Oplontis» trovati nella villa di Lucius Crassius, che sta a poche decine di metri, spersa e umiliata come la residenza dell’imperatrice, dentro una casbah sgangherata di orrende palazzine tirate su per mano di geometri e architetti resi dementi dal dio stesso della bruttezza.

Sul porto, a poche decine di metri dalla villa, i gabbiani strillavano furiosi la loro stizza contro le barche ormeggiate, mentre il vento sembrava ruggire da un’enorme fornace,  accesa dalle parti di Capri.

L’uomo correva boccheggiando e tamponandosi la fronte sudata con uno straccio sporco, alla ricerca ora del telefono ed ora della rubrica telefonica.

«Mannaggiammiseria n’dovcazzstà? Eccoqua…pecchènunrisponnmannaggiammisseria! »

«Ambulatorio, veterinario.»

«Ahhh, finalmente, Dotto’, avete capite chi sono?»

«In verità non proprio.»

«So Ciccillo dottò! Dottò, è urgente! Ci sta la signorina, con gli occhi chiari, quella bellina, svelta?»

«La dottoressa Marisa è in ferie, all’estero.»

Marisa era a un metro da lui, in carne ed ossa, più carne che ossa.

«E quell’altra, la bionda?»

«La dottoressa Alessandra sta operando, posso esserle utile io?»

«Allora nun ce sta nisciuno?»

«Abbia pazienza, non è che può dire a me, sono il titolare.»

«Hummm, vabbuò venite voi, però fate presto.»

«Se mi dice di cosa si tratta, mi segno la notizia e dopo la chiusura vengo a fare la visita!»

«Non mi sono spiegato dottò, è cosa urgente… Se non venite subito vi mando a prendere dai ragazzi»

«Un brivido corse lungo la schiena del dottor Gardenia nonostante i trentaquattro gradi e l’umidità al novanta percento, regalo del vento di scirocco: i “ragazzi” sopraggiungevano solitamente con delle moto potentissime che guidavano a velocità folle nel traffico, in gruppi compatti di tre o quattro, facce da paura, rigorosamente senza casco e vistosamente armati.

«Dieci minuti e sono da lei, ma non mi può anticipare niente?»

«Che v’aggia dì? Lèon è caduto nel pozzo, mentre stavamo giocando con la palla, correte!»

Lèon era un pastore belga, nero come il peccato e cattivo come il demonio, e montava la guardia alla villa di Don Ciccillo’o Sospetto, così soprannominato già da giovane dagli agenti del locale commissariato di polizia, forse a causa dell’espressione aperta e simpatica del suo volto.

La villa era stata costruita abusivamente, con vista sugli scavi della villa di Poppea, e vi si accedeva tramite un vicoletto presidiato ventiquattr’ore al giorno dai “ragazzi” a scanso di visite sgradite di gang rivali o forze dell’ordine. Superato il check point, il veterinario in sella alla sua vetusta Moto Guzzi, fu fatto passare attraverso una robusta cancellata in ferro battuto che chiudeva un arco in pietra evidentemente d’epoca romana, e da qui fu accompagnato ossequiosamente da due robusti guardaspalle presso l’abitazione. Si trattava di una lussuosa costruzione disposta intorno a una piscina, con davanti un grande prato perfettamente curato che terminava in un limoneto, al cui confine faceva bella mostra di sé un pozzo, con il suo giubbetto di parietaria e l’impalcatura per il secchio.

Don Ciccillo, si sporgeva con tutto il tronco all’interno del pozzo, appendendosi maldestramente alla catena e rischiando di rimanere incastrato il nell’imboccatura, sempre imprecando e chiamando il cane a gran voce, mentre dall’interno del pozzo proveniva un furioso abbaiare in risposta alle sue urla.

«Finalmente dottò, siete venuto a piedi?»

«Ho fatto una corsa, don Ciccillo, ci ho messo dieci minuti!»

«Vabbuò, vedete cosa dovete fare, questi deficienti hanno paura di entrare nel pozzo. Volevo calarmi io ma sono troppo grosso, per questo volevo le signorine! La grata era aperta per fare un po’ di pulizia. Domani  la faccio saldare definitivamente.»

Il dottor Gardenia era giovane e snello, ma non aveva dimestichezza con la speleologia e soprattutto era oppresso dalla paura. Paura dell’ira di don Ciccillo, paura di entrare in quell’antro oscuro e specialmente paura di Lèon, il quale ogni volta che si trovava al suo cospetto gli dimostrava tutto il suo disprezzo e la sua antipatia, con ringhi e bianche zanne sguainate.

«Dottò, salvatemi Lèon, sapete bene che la mia gratitudine non ha confini!»

Bene, questo era vero, e la rata del mutuo era un nembo minaccioso all’orizzonte.

«Datemi una pettorina, una torcia e recitate una preghiera per me.»

Si calò nella buia voragine, tenendosi ben stretto alla catena mentre una robusta corda tenuta da due killer gli segava la schiena e le spalle. In mano la torcia e il guinzaglio, e dentro l’anima il terrore.

Man mano che si addentrava nel pozzo, strisciando fra erbe e pietre, mentre gli arbusti gli graffiavano il viso e disgustosi insetti gli ronzavano intorno, sentiva il sudore scorrere sulla fronte fino a fargli bruciare gli occhi, mentre il corpo si ricopriva di polvere accumulata in molti secoli nell’antro disseccato, e poi mischiandosi al sudore si rapprendeva in rivoli nerastri.  Masticando bestemmie contro Lèon e la malasorte che gli aveva fatto scegliere quel mestiere, il giovanotto cercava di fare un po’ di luce verso il fondo, in modo da fermarsi a debita distanza dai canini della bestia impaurita e ad un certo punto cominciò a distinguere la base del pozzo senza però vedere Lèon, da cui arrivavano comunque urla e guaiti.

La temperatura del cunicolo si avvicinava a quella di un forno, e il battere impetuoso del suo cuore non aiutava certo a rendere agevole la discesa, ma finalmente la punta di una scarpa toccò le pietre del fondo, poi con le gambe tremanti si abbassò per vedere meglio dove si trovava. Dal punto in cui era atterrato si apriva una piccola galleria parallela al terreno che si dirigeva in leggera pendenza verso il basso. Era proprio qui che si era rifugiato il cane nero, di cui distingueva solo la brace che sprizzava dai suoi occhi ed il baluginare candido della dentatura, mentre ringhiando rinculava nella galleria per allontanarsi dal dottor Gardenia, convinto forse che quello fosse lì per la sua vaccinazione annuale.

Il cunicolo dove la bestia si ritirava ed il veterinario avanzava con la torcia puntata, era lunga quattro o cinque metri ed alta meno di ottanta centimetri. Dietro, alle spalle di Lèon, si distingueva una flebile luce provenire dal basso, come se sfociasse in una cavità comunicante con l’esterno: di questo l’animale non si rendeva conto in quanto procedeva strisciando all’indietro e con la torcia puntata negli occhi cosicché arrivato alla fine della galleria finì con le zampe posteriori nel vuoto. Perse l’equilibrio ed iniziò ad annaspare con le anteriori per tentare di riguadagnare il terreno solido, che però essendo limaccioso e viscido tendeva a farlo scivolare ancora di più verso il basso trascinato dal suo stesso peso.

Quando la mano del veterinario gli bloccò con una stretta ferrea la grossa zampa, la reazione fu quella di ogni cane quando gli si stringe forte un piede: morso immediato. Invece Lèon piantò i suoi occhi neri in quelli del suo medico, e in un attimo lungo una vita, instaurò con lui un patto: «Non lasciarmi, salvami la vita e io non ti stacco la mano con un morso».

Centimetro dopo centimetro la bestiaccia venne issata sul bordo della galleria e mentre l’uomo si abbandonava al suolo cercando di ingoiare un po’ d’aria, il cane prese a leccargli il viso: il suo alito non era proprio una ventata di freschezza ma con le due mani lui prese il testone nero e lo strinse in un abbraccio liberatorio. Dopo qualche minuto, visto che da fuori cominciavano ad agitarsi, si decise a tornare indietro, ma la curiosità prese il sopravvento.

Strisciando bocconi si avvicinò al bordo del baratro cercando di capire da dove venisse quella luce: era capitato in un’antica cisterna d’epoca romana che prendeva luce da una feritoia posta sulla sommità, forse comunicante con le cantine della villa imperiale, mentre nel fondo si scorgeva del vasellame ed altri oggetti semisepolti. Un vero tesoro per un archeologo, ma anche uno scrigno da saccheggiare per delinquenti come quelli che lo aspettavano in superficie.

Mentre si trascinava a ritroso verso la superficie, il cagnone aiutava il suo veterinario nell’impresa, elargendogli gli impulsi del suo fiato pestilenziale ad un centimetro dal suo naso, che provvedeva anche ad inumidire con frequenti leccate di gratitudine.

Ritornati a vedere il sole, cane e uomo, riportati in superficie dalle forti braccia di numerosi scagnozzi e da essi riempiti di complimenti, Lèon perseverava nelle sue manifestazioni di affetto e riconoscenza nei confronti del suo salvatore, ignorando il legittimo proprietario e suscitandone in tal modo la gelosia indignata.

«Comunque grazie dottò… Ve vulite fà ‘na doccia? State ridotto che fate schifo! Ma come mai non uscivate più, avete trovato il tesoro di Poppea?»

«No, ero rimasto incastrato in una roccia. Grazie vado via subito, scappo a fare un tuffo in mare! E corse via a cavallo della sua moto, non senza aver fatto un’ultima carezza al grosso cane.

Il mare di Torre Annunziata non era più quello che aveva affascinato il poeta. Nel porto sfociava il collettore principale della fogna cittadina con il suo carico di liquami, non essendo mai stato previsto un depuratore, e quindi per fare un bagno bisognava uscire parecchio al largo. Il guardiano del circolo nautico, Enzo detto ‘o farfallone per via di un vistoso tatuaggio che si era fatto fare sulla schiena durante un lungo e noioso soggiorno a Poggioreale, era dotato di un greve accento locale.

«Dotto’ meglio che nun esci in mare, nce sta viento ‘e scirocco!»

«Enzo, vado solo a fare un tuffo, ora sono le due, tra mezz’ora sono di ritorno!»

La barchetta del dottor Gardenia solcava rapidamente le acque del golfo nella più assoluta solitudine: il vento di scirocco teneva tutti lontano dal mare, ma lui non ci badava, ansioso solo di fare una rinfrescante nuotata per togliersi di dosso la polvere, il sudore e la puzza di Lèon. In pochi minuti il piccolo fuoribordo lo portò in vista delle coste di Capri, circa a metà strada tra l’isola e la costa, dove l’acqua era cristallina e i delfini accompagnano i natanti. E qui fece l’errore fatale. Immemore di quanto aveva imparato in tanti anni di mare, fermò il motore e si tuffò  strappandosi di dosso i  vestiti luridi e canticchiando un canzoncina in voga, senza calare prima l’ancora.

Non aveva calcolato la forza dello scirocco.

La piccola imbarcazione si spostò di pochi metri impedendogli di toccare la scaletta con il braccio teso.

«Ok, pensò lui, due bracciate e ti prendo!» Le bracciate divennero dieci, ma la barca sembrava beffarlo spostandosi di qualche metro lontano dal punto in cui lui aveva pensato di raggiungerla. Dopo due o tre tentativi a vuoto, cominciò a subentrare un poco di ansia, ma il fisico era ancora fresco, e un po’ di movimento non gli avrebbe fatto altro che bene, pensò.

Ma ogni volta che si soffermava un attimo a riprendere fiato, la barca si allontanava di una decina di metri, così senza indugio lui si lanciò alla rincorsa con tutta la forza che ci poteva mettere, ottenendo il risultato di rimanere senza fiato in mezzo alle onde mentre l’amato gozzo si allontanava sempre di più dalla sua portata.

A quel punto, messo da parte l’orgoglio pensò di guardarsi intorno per cercare aiuto, ma il mare tutt’intorno era una distesa deserta, mentre si rese improvvisamente conto che a pelo d’acqua la curvatura terrestre gli impediva di scorgere la riva. Poteva vedere tutt’al più la mole del vulcano e la sagoma dell’isola di Capri, e a quel punto si trattava di decidere verso quale riva dirigersi. L’imbarcazione veniva spinta verso la terraferma dal vento che soffiava da sud e questo gli fece pensare che sarebbe stato meglio seguire la stessa direzione, facendosi trasportare un po’ dalla corrente.

L’acqua del mare che gli era apparsa stupendamente fresca dopo l’afa della mattinata, ora sembrava divenire sempre più fredda, mentre crampi muscolari gli bloccavano ora le gambe ora le braccia, impedendogli di nuotare, e obbligandolo a frequenti soste in cui si metteva nella posizione del “morto” che però lo obbligava a pensare alla condizione in cui si trovava, e ad immaginare i titoli dei giornali del giorno dopo: «Noto professionista disperso in mare al largo di Capri, il corpo non si trova ancora, affannose le ricerche in mare».

Non vedeva più nemmeno il gozzo, sospinto rapidamente verso riva dalla forza dello scirocco.

La forza cominciava ad abbandonarlo, insieme alla speranza di salvarsi, quando sentì in lontananza la vibrazione di un potente motore e dei latrati insistenti. Con gli ultimi spiccioli di energia prese a dibattersi agitandosi e urlando verso l’imbarcazione che veniva verso di lui e che pochi minuti dopo averlo avvistato, lo raggiunse.

Toni ‘o negùs (soprannome di non facile interpretazione) e il suo compare Ciro ‘o puorco (interpretazione più agevole) erano stati spediti da don Ciccillo alla ricerca del naufrago, dopo la preoccupata telefonata dell’ormeggiatore, il quale non vedendo rientrare la barca del veterinario, aveva pensato di avvertire innanzitutto il suo datore di lavoro. La decisione sulla direzione da prendere era stata affidata a Lèon, il quale aveva smaniato per salire a bordo del lussuoso yacht, e piazzatosi a prua aveva iniziato ad abbaiare e puntare le orecchie in una direzione ben precisa. I due malviventi e il cane avevano presto avvistato il gozzo

alla deriva, e avevano poi proseguito nella direzione indicata dall’intelligente animale.

Tra volgari battute e grasse risate, il professionista venne riportato alla banchina del porto ove, vestito solo con un paio di boxer azzurri,  venne aspramente richiamato dal guardiano, e ammonito per il futuro a tener debito conto dei consigli degli esperti.

Fu con tale abbigliamento, che con forte ritardo sul solito orario, il dottor Gardenia raggiunse la sua clinica, dove lo aspettavano alcuni allibiti clienti e le sue collaboratrici, le quali provvidero a rivestirlo sommariamente e sottrarlo alla curiosità degli astanti, ma non certo alla loro, che fu soddisfatta con un breve resoconto dell’accaduto. Negli anni successivi tale racconto servì a rallegrare gli animi e a  ghignare di gusto, al ricordo dell’uomo disperso in mare.

Alcuni dei protagonisti di questa storia sono deceduti prematuramente per intossicazione acuta da piombo, mentre altri hanno preferito trasferirsi in lidi dove l’aria fosse più respirabile.

Leòn morì a sedici anni, tra le braccia del suo salvatore che lo accompagnava verso il suo destino con gli occhi pieni di lacrime.

Lo scrittore Lucio Sandon è nato a Padova nel 1956. Trasferitosi a Napoli da bambino, si è laureato in Medicina Veterinaria alla Federico II. Appassionato di botanica, dipinge, produce olio d’oliva e vino, per uso famigliare.

 

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