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Il Racconto, Risorse

di Giovanni Renella

Oramai si contavano nell’ordine delle centinaia: un gran bel numero se rapportato a quello complessivo!

Quasi sicuramente la maggioranza.

Eppure erano in pochi a farci caso.

Solo i più anziani ricordavano i tempi in cui le frontiere erano chiuse e il loro accesso vietato.

Addirittura c’era ancora chi, riuscendo ad andare con la memoria più indietro nel tempo, fino al settembre del ’38, rammentava l’entrata in vigore delle leggi razziali e un Paese che aveva assistito, inerte, alla messa al bando e all’allontanamento di tanti ebrei che pure eccellevano in quel contesto e fino a quel momento avevano dato prova di grande abilità.

Poi c’era stata la guerra e alla fine anche le regole erano cambiate dando la stura ai primi arrivi dall’estero.

L’accoglienza era stata entusiastica, perché a quegli stranieri si guardava come a una risorsa, a un valore aggiunto che poteva portare risultati positivi.

Certo riuscire a integrarne un numero limitato era più facile: in tanti si concentravano sulla resa di pochi e lo spirito di squadra finiva con l’esaltare le performance dei nuovi arrivati.

Nei primi tempi la partecipazione era stata disciplinata, fino a essere regolamentata con la determinazione di  un numero chiuso.

Poi, con il trascorrere degli anni, le maglie della rete si erano allargate, e pure di molto, e il flusso era divenuto incessante, favorito da una deregulation da cui un po’ tutti traevano vantaggio.

Giungevano in Italia provenendo dai quattro angoli della terra; appartenevano alle etnie più diverse, non parlavano la stessa lingua, eppure riuscivano a comprendersi e a dialogare fra loro, attraverso una sorta di novello esperanto cinetico, che favoriva le sinergie fra i singoli e fra i reparti.

Nell’arco di qualche decennio, dal dopoguerra a oggi, i cosiddetti “stranieri” avevano occupato gran parte degli spazi a disposizione, dando vita ad un riuscito esempio di comunità multietnica, capace di convivere in armonia.

Certo il coglione di turno che si lasciava andare, ruttando acidi rigurgiti di razzismo e di xenofobia nei confronti di quelli con la pelle scura, non mancava mai; ma fortunatamente rappresentava il sentire di una minoranza così esigua da non destare alcuna preoccupazione.

Tutti gli altri vivevano con naturalezza, anzi con entusiasmo, quel gioioso mescolio d’idiomi, culture, religioni e pelli dalla pigmentazione diversa che, fra virtuosismi atletici e ammalianti fraseggi, animava i loro weekend.

Ai pochi italiani e ai tantissimi stranieri presenti in campo, il pubblico presente allo stadio, o seduto in poltrona davanti alla tv, chiedeva solo di portare alla vittoria la propria squadra di calcio, fottendosene se a segnare fosse un italiano o uno straniero.

(Foto Unsplash by Nils Nedel)

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