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Il Racconto, Mia madre aveva quattro fratelli

È la storia di mele dello stesso albero. Si può essere fratelli, appartenersi, ma non essere del tutto uguali …

di Mimì Trapani

Mia madre aveva quattro fratelli. Nessuno di loro portava il cappello. Anzi no, uno di loro era uomo di divisa.

Il più piccolo chiacchierava sempre, gli piaceva ascoltare la sua voce e ogni argomento era estremo, senza appello alcuno.

Il più vecchio, invece, forse per compenso, parlava poco.

Il fratello di mezzo era appunto a metà, commentava il giusto ed era, manco a dirlo, il mio preferito.

Eccolo infine: il fratello con il cappello, terzo di quattro, non il più vecchio, non in mezzo, non il più giovane.

In verità non l’ho mai visto con il cappello. Anzi no, al funerale di mia nonna.

E poco importa non averlo quasi mai visto, perché quel cappello è stato un tappo ermetico utile a mantenere l’integrità del prodotto. È un uomo di divisa, il fratello con il cappello, gliela avevano cucita addosso, cappello incluso.

Tutti loro, compresa mia madre, erano intessuti di una sottile ironia che a volte sfociava in crudo sarcasmo e sfottere, deridere, ridere, puntualizzare erano gli sport preferiti di tutta la famiglia. Chi non si adeguava o non capiva il meccanismo era solo un povero stupido e, manco a dirlo, era tagliato fuori dai giochi. Era necessaria buona capacità di parola e chi non era allenato faceva fatica a distinguere la verità dall’arguzia.

E così sono cresciuta in una famiglia dove il senso di appartenenza era sacro, ma anche con l’accoglienza non si scherzava affatto.

Strano a dirsi, eravamo tanto ospitali quanto graffianti: il malcapitato estraneo veniva messo al centro di questa virtuale arena dove tutti partecipavano alla corrida, ma il matador, manco a dirlo, era sempre e solo lui, l’uomo di divisa.

Eravamo una bella baraonda allegra e scanzonata e il convivio di tutta la famiglia era l’olimpiade che avrebbe incoronato il vincitore e, fatta pace per la resistenza dell’apparato digerente, era una gara a chi riusciva con la battuta più sottile a mettere a tacere l’altro e, con i successi ottenuti nel lavoro o negli studi, a prevalere sull’altro.

Manco a dirlo, non c’era storia. Il vincitore era sempre lo stesso. L’uomo con il cappello.

Non è stato facile riconoscere o semplicemente conoscere altro, eravamo autosufficienti e dovevamo bastare a noi stessi.

Quello che non conosci fa paura ed è più facile negarlo o ancora meglio denigrarlo, è stato il mio mantra.

Così pensavo e ho pensato per molto tempo con quella nostalgia che diventa negli anni olfattiva, sonora, saporita, tattile, visionaria.

L’estate del 1973, ferragosto, non fu così. Sono morta, ma non lo sapeva nessuno.

Un buco nero nella memoria, manco a dirlo, nella mia: sprazzi di conversazioni interrotte, sguardi sfuggenti, commenti a fil di voce. Silenzio usato con maldestra cautela, perché se non ne parli, non esiste e la memoria svanisce.

Fuori fa molto caldo e la brace è ancora tiepida. Un alone rende l’aria pesante come i miraggi nel deserto. Mamma e le zie hanno finito di rigovernare in cucina spazzando ogni ricordo di briciole. Silenzio. Gli adulti sonnecchiano. Anzi no. L’uomo con il cappello intrattiene noi piccoli con le sue interminabili storie inventate e a uno a uno, cugini e fratelli si dileguano tutti.

Sono rimasta solo io e sto per dire che mi scappa, pur di sottrarmi, ma lui mi afferra il polso, mi blocca, delicatamente. Mi fa il solletico e rido, ma sottovoce perché rischierei di svegliare tutti.

Improvvisamente, mi soffia sul collo e io rido ancora, ma mi trattengo e lui sussurra all’orecchio –conosci il gioco con il trucco? – io dico di sì, senza riflettere, sto cercando di pensare in fretta, mi viene in mente solo simsalabim e abracadabra e non posso, non devo far vedere che non conosco quel gioco.

Mi accompagna, anzi no, mi spinge in un’altra stanza, delicatamente. È vuota. Sento improvvisamente freddo, avrò ispirato forte, sto cambiando i denti e ho tanti spazi vuoti, ma ingoio aria gelida nonostante la calura estiva. Si cristallizza la scena nella mia memoria, siamo solo noi due e le cicale in sottofondo.

Inizia il gioco. Il trucco per vincere è rimanere in silenzio e immobili, dice. Anzi no, puoi usare le mani e la bocca, continua, ma ad occhi chiusi, per imitare i miei gesti, e vediamo se sei davvero brava, sussurra.

Non voglio essere brava, stavolta. Non mi piace questo gioco. Voglio andare via, ma le mie gambe sono paralizzate. Mi viene da vomitare. È meglio giocare, e penso in fretta, volo via da quel luogo, da quel momento.

Ripasso a mente quel documentario sulla ghiandaia imitatrice, quello visto a scuola. Sì, farò così, come la ghiandaia, e andrà tutto bene, penso e volo via.

Sbatte una porta. Una voce annuncia il caffè. In quell’istante, quel richiamo mi ha salvato, forse. Anzi no, ne sono stata certa per molto tempo dopo. Scappo, corro a perdifiato.

Ultima immagine sfocata è lo sguardo di un cugino dietro una finestra socchiusa come i suoi occhi miopi nascosti da spesse lenti. Ho freddo. Tremo.

Non eravamo soli.

Chi c’era? Perché non ho gridato, perché non ho detto basta, perché il cugino miope non ha aperto bocca?  C’era solo lui? Dove erano nascosti? Mille domande accatastate nella mia giovane testolina e nessuna risposta. Silenzio.

Per anni ho provato, senza comprendere, un senso di vuoto incolmabile, ma avevo una percezione vaga e nebulosa, di aver provocato qualcosa di roboante e che, quegli sguardi sfuggenti, quei commenti a fil di voce, quegli occhi inquisitori li avevo causati io e soltanto io.

Che forza, avevo vinto la gara di ferragosto, ma ero morta e nessuno se ne è accorto, circondata da persone per le quali è difficile capire l’angoscia, la mia.

Per gli altri era difficile parlarne ed io, rimasta piccola nell’animo, per dispetto non facevo che parlarne. Avevo zittito tutti. Anzi no.

L’uomo con il cappello aveva continuato ad incantare con le sue favole truccate. Chissà chi altro ha partecipato ai suoi giochi o forse, ne ha svelato l’arcano.

Le vacanze sono finite e si torna alla solita vita. Io non sono più la stessa e nessuno, manco a dirlo, se ne domanda il motivo. Avevo chiesto una spiegazione e ho ricevuto solo una sentenza: colpevole perché stupida, e dovevo custodire questo segreto. Anzi no. Dovevo dimenticare.

Manco a dirlo, l’essere considerata stupida mi ha segnato, mi ha marchiato l’anima, non ero arrabbiata, non potevo chiedere vendetta perché loro erano più potenti, più forti di me.

Ancora adesso, mi chiedo perché proprio a me, cosa non avevo capito di quello che mi era stato descritto come un gioco, quale era il trucco? Mi sono chiesta se potevo semplicemente dire no.

Non era un gioco e non c’era nessun trucco.

La mia vita è andata avanti in una specie di bolla, sospesa tra la conoscenza e il mistero. Non mi hanno protetta, l’ho fatto da sola, sono stata strappata dal mio mondo ancora gravido di fate, magia e stupore.

Il trucco c’è e si vede.

In quell’estate ho smarrito la mia fanciullezza. Anzi no, sono morta.

È bastato fidarsi, è stato sufficiente non sapere dire di no e ho perso, cancellato, spezzato la mia tenera gaiezza, dissolto la mia genuina ingenuità.

Sono trascorsi più di venti anni per decidermi e intraprendere un lungo percorso verso la consapevolezza. Dovevo capire, dovevo sapere perché non riuscivo ad avere rapporti stabili, perché continuavo a volare con la ghiandaia.

La vita reale, quella fatta di carne e sangue, mi ha travolto e sono crollata insieme alle carte del mio castello.

Io non sapevo che il motivo della mia ricerca non era quello. Io non sapevo che stavo ricercando quel preciso istante in cui ero morta.

Già, perché chi lo sa cosa sarei adesso se solo lo avessi saputo prima, se solo avessi anche solo intuito quelle maledette regole del gioco, se avessi capito quale era il trucco.

Manco a dirlo, sono stata solo una stupida. Avevano ragione loro.

Non è un gioco, diceva mia madre. Come è possibile, rispondevo, tutto è un gioco, anche se non conosci le regole, ti butti e vai. Appunto, ti butti, diceva mia madre, ti sei sempre buttata via, per paura di perdere l’attimo, invece di valutare e capire veramente.

Ho vissuto nella finzione: dovevo riflettere e non l’ho fatto, dovevo stare zitta e giurai di non parlarne mai.

Anzi no. Ho parlato, a volte troppo. Sentivo l’obbligo di coprire quei silenzi, riscaldare quel freddo gelido che mi portavo dentro. In perenne agitazione, mi sono buttata nella vita illudendomi che non ci fossero regole e ho vegetato nell’inganno.

Tutti sapevano e tacevano e ho imparato che la conoscenza è sempre auspicabile, ma che la verità non sempre ci rende liberi.

Quella pietra d’inciampo mi ha cambiato in modo irreversibile e se ho insistito per farlo riconoscere è perché avevo paura che gli altri non sapessero chi ero e adesso sono diventata: non ero la stupida, in una famiglia di furbi, divertenti, pronti, intuitivi e intelligenti. Ero una bambina, ingenua e curiosa.

Ora so perché ho gestito gli inevitabili insuccessi della vita con un’alzata di spalle e capisco perché non ho affrontato la realtà. Non la vedevo.

Ho imparato che è giusto conoscere le regole, condividerle e accettare anche la sconfitta e se non ti piace, quel gioco non devi farlo per forza. Nessuno può costringerti se non vuoi, che tu sia adulta o che tu sia bambina.

Con tanta fatica, lacrime e rabbia ho portato alla luce l’inenarrabile verità ed ho maledetto l’ignoranza, la mia e quella granitica della mia famiglia.

Mi capita ancora di non saper smascherare un trucco, di non riuscire a vedere oltre una coltre di fumo, ma ne sono consapevole e questo mi basta, a volte.

Tutto è cambiato adesso. Sono morti tutti. Anzi no, l’uomo con il cappello rimane, è un grande vecchio.

Nessuno più gli riconosce l’autorità e men che meno l’autorevolezza, neanche i figli. Sta lì e vive.

Adesso, manco a dirlo, io so e non sono morta.

 

 

Mimì Trapani, medico anestesista, siciliana di nascita e formazione, vive e lavora a Caserta da più di venti anni.

Avida lettrice, da sempre si diletta a trasformare in scrittura le emozioni, i pensieri, le storie raccolte lungo il suo cammino, attingendo a piene mani nelle sue radici isolane e nella profonda passione per lo studio e la ricerca di risposte ad eterne domande.

Da circa dieci anni fa parte di una compagnia teatrale, “Matutae”, che tratta prevalentemente temi sociali, integrando il suo percorso in laboratori di formazione, sia di natura attoriale che di scrittura creativa.

 

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