Il Racconto, Lucifero
di Lucio Sandon
Portici è come un bella signora languidamente adagiata sul fianco del Vesuvio e con i piedi nel mare. A volte la ridente cittadina viene alla ribalta delle cronache per i fatti più strani, tra cui quello di avere la maggiore concentrazione di abitanti d’Europa, ventimila anime per chilometro quadrato, che moltiplicate per i quattro chilometri quadrati della superficie del comune, fa più o meno sessantamila abitanti, all’incirca quelli di Cuneo (che però si estende su 120 kmq). Molti scolari che hanno frequentato le elementari nei decenni passati ricordano il nome di Portici perché è stata la sede della prima strada ferrata italiana: una diecina di chilometri di ferrovia, costruita per portare il re Borbone dalla sua reggia di Napoli a quella di caccia, nel bosco che divide la simpatica cittadina da Ercolano.
Quello che non tutti sanno invece è che quella esibizione di tecnologia non era fine a sé stessa: il re avrebbe potuto recarsi tranquillamente alla sua residenza estiva a cavallo o in carrozza oppure portato in spalla dalle sue guardie del corpo. Aveva invece bisogno, per continuare tenere lo spread dei suoi Buoni del Tesoro borbonici a un livello molto più basso rispetto a quelli del regno di Sardegna, di dare una dimostrazione della potenza industriale, e della capacità tecnica dello stato delle due Sicilie. I materiali venivano da Mongiana sulla Sila: si trattava dell’acciaieria più moderna dell’Europa d’allora cioè del mondo, mentre le locomotive venivano progettate in Inghilterra e costruite nel Real Opificio Meccanico, Pirotecnico e per le Locomotive di Pietrarsa, dove lavoravano oltre mille operai specializzati in costruzioni meccaniche, che ne facevano il maggiore opificio dell’Italia dell’epoca. Oggi il sito di Pietrarsa, dopo le accorte e amorevoli cure dello stato sabaudo, è un malinconico immenso museo sulla scogliera del mare di Portici. Talmente poco conosciuto e visitato che è stato colonizzato da una miriade di gatti, accuditi e nutriti amorevolmente da una torma di gattare in aura di santità ed in stato di mistica esaltazione.
La signora Imbergolle, gentile figura temuta in uguale misura dalle autorità civili e da quelle sanitarie, era invece amata senza ritegno sia dai suoi gatti che dal suo veterinario preferito, pur essendo la personificazione della figura mitologica della strega. Un metro e cinquanta di altezza per trenta chili di peso, capelli al vento afro, neri con ricrescita bianca di quindici centimetri, età indefinibile tra i cinquanta ed i cento anni, occhialini appoggiati su di un naso adunco, e un carattere da crotalo cui abbiano pestato i sonagli, ma con la predisposizione incontenibile al pagamento per contanti, motivo questo dello sfrenato amore del suddetto medico. All’epoca non esistevano i cellulari, e la signora Imbergolle era una delle poche persone a conoscere il numero di telefono di casa del veterinario.
Ora di pranzo. Drin Drin, Drin Drin…
«Filofteia, rispondi al telefono per cortesia?»
«Pronto chi parla? No, no no. No, dottore nònce… Ciao.»
«Filofteia! Ma chi era?»
Filofteia è una bella signora rumena, originaria di quella ridente cittadina, Bran, nei monti della Transilvania, dove il signorotto del paese aveva delle strane abitudini notturne. Filofteia ha dei bellissimi occhi verdi, un carattere dolce e affettuoso, dei capelli biondi tagliati corti. La donna, residente ormai da molti anni nella nostra città, gode di una fama di onestà specchiata e di una simpatia generalizzata, ma anche di un’aura misteriosa: dai ricordi di tutti quelli che li conoscono, lei e il marito, sono sempre uguali.
Dimostrano vent’anni, come li avevano vent’anni fa.
«Dòttore…era la signora Imbecille.»
«Ummarò Filofetia, ma se mi vedi che sto a casa, perché non me la passi?»
«Perché signora sua moglie ha detto di non passare mai telefonate di signore donne!»
«Dunque bisogna dire che Filofteia soffre di una simpatia e fedeltà morbosa per la sua datrice di lavoro, per vari e svariati buoni motivi che non sto ad elencare, non ultimo il finto apprezzamento della suddetta per un piatto tipico che la brava domestica portò orgogliosamente un giorno ad assaggiare presso la famiglia ove lavorava: si trattava di una pietanza tipica di quelle zone transilvaniche, ottenuta sobbollendo lungamente ingredienti assai strani ed improbabili ed aggiungendo come guarnizione finale delle penne di tacchino finemente triturate. Al momento dell’assaggio, sentito l’aroma del brodo, i presenti in casa si dileguarono come per incanto, a cominciare dal più smaliziato componente della famiglia, lasciando la padrona di casa da sola al cospetto dell’intingolo. Immerso il cucchiaio nel liquido con circospezione, ne portò una modica quantità alle labbra, poi dopo qualche secondo di apnea, lo ingoiò di colpo cambiando vari colori ma con il sorriso sulle labbra.
«Ottimo Filofteia, cos’è?»
Il collasso avvenne solo al momento della descrizione minuziosa del procedimento e degli ingredienti. Mantenendo l’espressione sibillina della giocatrice di poker e solo dopo avere annuito a lungo con un’aria che poteva essere scambiata per approvazione, la moglie del dottor Gardenia fuggì in bagno, da dove provennero per lungo tempo degli strani rumori.
«Filofteia! Non si chiama imbecille…Imbergolle! E poi non è una donna, è una gattara!»
«Va bene dòttore, imbecille detto telefona ambulatorio, gatti tutti malati, Lucifero peggio.»
La statua in ghisa di Ferdinando secondo è alta quattro metri e mezzo. La foto può da re solo una vaga idea dell’estensione del cortile e delle costruzioni del museo, che contiene alcune delle più antiche locomotive e carrozze di treni usati dalle ferrovie italiane.
Rincorrervi un gatto che non vuole farsi visitare diventa evidentemente oltremodo difficile, specie se si tratta di Lucifero, capobranco di oltre quindici anni, nero come notte, secco come una schioppettata e cattivo come da nome affibbiatogli. Dopo aver provato con scatolette di carne, moine, coperte lanciate da lontano e numerosi altri inutili stratagemmi, visitati i malati più malleabili e vista l’ora ormai tarda si decideva di lasciar perdere Lucifero e dar modo alla gattara di agire da sola l’indomani e portare il pestifero in ambulatorio. Cosa che avvenne puntualmente all’apertura: il micione era stato preso a tradimento e infilato in un portagatti, dentro il quale stava disteso su un fianco, respirando a fatica, apparentemente privo di sensi.
«Ieri stava meglio, se si fosse potuto visitarlo prima…»
«Cara signora, per cortesia favorirebbe di tirar fuori Lucifero dal suo contenitore. Sa bene che ho un po’ di timore dei gatti!»
«Ah no… Mi fa impressione vederlo così abbattuto, potrebbe essere già morto a causa della sua insipienza, lo prenda lei, è o non è un veterinario?»
Preso dai sensi di colpa, anche se non tutta la responsabilità del ritardo era stata sua, il giovin signore, data un’occhiata per conferma alla pergamena incorniciata alla spalle della scrivania, aprì la gabbietta e infilò la mano per estrarre il moribondo e visitarlo confidando nell’impressione di incoscienza dell’animale. Lucifero, riprendendosi per i suoi ultimi attimi di vita, fece ciò che aveva sempre fatto nella sua lunga esistenza: attaccò il nemico.
Difficile a questo punto descrivere il caos totale di quei momenti, anche perché il sanitario aveva la strana abitudine di venir meno quando vedeva il proprio sangue. Il compianto Lucifero diede il meglio di sé nei suoi ultimi momenti, provocando cinquantadue graffi e morsi alla mano sinistra del suo medico e trentotto alla destra (contati in seguito dalla figlia dello sfortunato dottore, lui non aveva il coraggio di guardarsi le mani). I testimoni presenti asseriscono che in quel momento, la bella Alessandra, bionda atletica dagli occhi di smeraldo, l’unica ad avere il pieno possesso delle sue facoltà mentali, con un balzo (felino) superò la catatonica signora Imbergolle e calò le mani unite a pugno sul turbine nero di Lucifero, senza badare alla forza del colpo né alla mira, infatti colpì contemporaneamente il tavolo d’acciaio, il micio, e anche il suo datore di lavoro, i quali caddero a terra, rimanendo esanimi sul pavimento già sporco di sangue e liquidi organici. Senza perdersi d’animo, l’amazzone prese in braccio il suo capo ancora incosciente e lo depositò delicatamente nella sua Fiat 500 amaranto, trasportandolo con tutta la velocità possibile per la vecchia vetturetta al locale nosocomio, incurante del sangue che rovinava le tappezzerie del veicolo. Arrivati al pronto soccorso, l’uomo ancora svenuto, venne portato prontamente in sala visite da due solerti infermieri peraltro affascinati dalla collega in green, e visitato da un annoiato chirurgo risvegliato appena dal suo stato di torpore dalla vista di Alessandra, novella Gorgone imbrattata di sangue.
«Mettetelo lì. Che cosa è successo? Se questo voleva suicidarsi mi sembra che ci abbia provato con poca destrezza! Pene d’amore?»
«Guardi bene dottore, è un veterinario, non vede il camice? È stato aggredito da un gatto!»
«Mi sembra strano, un gatto non può fare questi danni, sembra che abbia messo le mani in un tritacarne, mah. Comunque dopo averlo medicato io faccio la segnalazione al drappello di polizia e per lo psichiatra.»
Un’ora dopo, con le mani imbalsamate e sottoposto ad iniezioni di antibiotico, antitetanica e antiepatite, il malcapitato venne dimesso e, sempre assistito amorevolmente dalla sua collaboratrice, lasciò la sala visite del pronto soccorso, dirigendosi con andatura traballante verso l’uscita, ma venne intercettato da una coppia di poliziotti che lo attendevano e lo invitarono a recarsi presso i locali del drappello della polizia. Con un sogghigno ironico, il commissario della locale stazione di polizia spense con il tacco la cicca che stava risucchiando fino al filtro, e si mise sotto l’altro braccio dell’infortunato.
«Mi ha chiamato l’appuntato Esposito per il cambio di turno e ad un certo punto mi fa: “Commissario fatevi due risate: hanno portato uno che voleva tagliarsi le vene… Per amore. Lo ha accompagnato una bionda prorompente portandolo di peso, e lui per non essere mandato dallo psichiatra si è inventato di essere un veterinario e di essere stato graffiato da un gatto…Vedi un po’ la gente!”»
«Ci è voluto poco a capire chi era.- Occhieggiando il decolté di Alessandra – signorina, i miei rispetti.»
L’interpellata rispose con una smorfia. Il commissario non la interessava, anche se ci provava da anni.
«Oh, ma che è successo, il gatto ti ha mangiato anche la lingua?»
«Dolore, voglio andare a casa….»
«Va bene ingrati, andatevene pure via. Appuntato tutto a posto, è veramente un veterinario, lo conosco bene. Garantisco io.»
Durante il breve viaggio di ritorno verso l’ambulatorio vennero scambiate solo poche parole: Alessandra era immusonita per via delle avances del commissario, e della violenza che aveva dovuto usare per salvare il dottor Gardenia da guai peggiori. Il suo principale pensava invece solo a guadagnare la sua abitazione, dove avrebbe potuto stendersi a letto dopo aver preso un antidolorifico che l’ospedale si era ben guardato dal somministrargli. Purtroppo però i problemi della giornata erano lungi dall’essere finiti. All’arrivo in ambulatorio, trovarono la signora Imbergolle seduta impettita in sala d’attesa cullando il cadavere di Lucifero sulle ginocchia, come per indurlo a rianimarsi. La persona più responsabile in quella gabbia di matti, la bruna Marisa, sirena dagli occhi grigi, vigilava affinché la clinica non andasse a rotoli. Marisa intuì in un attimo che un incontro tra la strega ed i suoi colleghi sarebbe stato esiziale per tutti, e fece in modo di deviarli verso l’entrata secondaria. Si diresse poi con decisione verso la gattara addolorata dalla uccisione seppur involontaria del suo amato capobranco, e ben decisa a rampognare duramente coloro che riteneva responsabili del gatticidio. Marisa afferrò la signora Imbergolle sottobraccio, e le parlò in un orecchio, sussurrandole dolcemente.
«Il dottore non è in grado di discutere con lei stasera, è fuori di sé, sotto shock. Le consiglio però di allontanarsi velocemente portando con sé il povero Lucifero, perché mi è sembrato di cogliere nell’espressione di Alessandra un lampo di follia. Lei conosce la forza di quella pazza: potrebbe farla volare per strada con un solo calcio, accomunandola nella cattiva sorte al caro micio che ancora non si decide a mollare. Addio.»
La megera guadagnò velocemente l’uscita guardandosi alle spalle e profferendo oscuri sortilegi e promesse di denunce, che arrivarono regolarmente dopo qualche settimana, per maltrattamento di animali e minacce rispettivamente ad Alessandra e Marisa, oltre ad una richiesta di congruo risarcimento per la perdita del gatto, avverso il dottor Gardenia. Per fortuna, e con i preziosi consigli di un principe del foro, le accuse vennero smontate, anche con l’aiuto del referto autoptico dove si descrivevano le fratture delle prime tre vertebre cervicali, ma anche le terminali condizioni di salute, specialmente quelle dei reni, fegato, dentatura e apparato cardiopolmonare dell’ultraquindicenne de cuius. Altro grosso aiuto venne dai sanitari dell’ospedale, con il certificato rilasciato all’infortunato oltre che dalla loro testimonianza diretta. Le accuse di minacce vennero a cadere per mancanza di testimoni diretti.
Tracce di Lucifero si trovano ancora sul tavolo da visita in acciaio inox di grande spessore sotto forma di una bozza ben visibile in un angolo, sulle mani del dottor Gardenia, specialmente al polso sinistro ove rimane il segno degli ultimi due canini che erano rimasti al simpatico micione, e nei viali di Pietrarsa, in cui diecine di gatti neri dagli occhi gialli passeggiano ancora tranquillamente in attesa della cena.
(Foto di coperina by Eduardo Mallmann_Unsplah)
Lo scrittore Lucio Sandon è nato a Padova nel 1956. Trasferitosi a Napoli da bambino, si è laureato in Medicina Veterinaria alla Federico II, aprenso poi una sua clinica per piccoli animali alle falde del Vesuvio. Appassionato di botanica, dipinge, produce olio d’oliva e vino, per uso famigliare. Il suo ultimo romanzo è La Macchina Anatomica, un thriller ambientato a Portici. Ha già pubblicato il romanzo Il Trentottesimo Elefante; due raccolte di racconti con protagonisti cani e gatti: Animal Garden e Vesuvio Felix, e una raccolta di racconti comici: Il Libro del Bestiario.
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