Il Racconto, Languedoc
di Lucio Sandon
Per la villa bisogna scegliere un custode di corpo grande e grosso, di latrato risonante e acuto, primo perché atterrisca i malandrini facendosi sentire, e poi anche con lo spavento che incute la sua vista, e qualche volta senza neppure farsi vedere, mette in fuga chi tenta di rubare solo con il suo sordo mugolìo. Sia però di colore unito, il bianco è da preferirsi per il cane da pastore, il nero per quello da cortile, il mantello pezzato non è pregevole né nel primo né nel secondo tipo. Il pastore preferisce il bianco perché è molto diverso dal colore delle bestie selvatiche, e di questa diversità c’è grande bisogno quando si dà la caccia ai lupi nella luce incerta del primo mattino o del crepuscolo, per non correre il pericolo di colpire il cane al posto della fiera. Ma il cane da cortile che si oppone a incursioni di uomini, quando il ladro venga ne il giorno chiaro, ha certo un aspetto più terribile se è nero, di notte poi non si vede perché somiglia alle tenebre, e perciò coperto da esse, il cane può avvicinarsi all’insidiatore con meno pericolo. Si preferisce quadrato piuttosto che lungo e tozzo, con il capo tanto grande che sembri la maggior parte del corpo, con le orecchie abbassate e pendenti, con occhi neri o glauchi, lucenti di una luce fiera, con il petto ampio, spalle larghe, zampe tozze e irte, coda corta, spesse callosità, larghissime dita e unghioni alle zampe, che i greci chiamano artigli. Questa sarà la conformazione più pregevole in un cane da cortile. La sua indole non deve essere né mitissima né per contrario truce e crudele, il primo infatti blandirebbe anche un ladro mentre il secondo assale anche la gente di casa. (De Re Rustica, Gaio Giunio Columella)
I molossi furono addomesticati nel Neolitico dagli abitanti dell’attuale Iran: allevati in branchi, e sovente addestrati per la guerra, furono utilizzati dai Babilonesi, dagli Assiri, e dai Persiani. Questi cani temibili venivano utilizzati per il combattimento, la sorveglianza dei templi e delle grandi proprietà, ma anche per la caccia al cinghiale e al leone. Nei campi di battaglia, dove erano utilizzati i soggetti più resistenti e poderosi, in grado di affrontare lunghe marce, i mastini resi pressoché invulnerabili contro le frecce da corazze e maglie di ferro, precedevano le fanterie nell’attacco, dimostrandosi spesso decisivi per le sorti della battaglia.
Nel secondo secolo avanti cristo, Capua era la città più potente dell’impero dopo Roma, ed era il luogo deputato all’addestramento ed accampamento delle truppe e dei gladiatori.
Proprio lì c’erano anche gli allevamenti dei terribili canes pugnax che terrorizzavano gli eserciti nemici.
Muovendo da Capua, dai castrum poco oziosi sotto il monte Tifata, l’esercito di Annibale li adottò come arma da guerra dopo la perdita dei suoi elefanti da combattimento.
Il condottiero punico li diffuse in tutta l’Italia meridionale, ma il ceppo principale del molosso da guerra sopravvisse per secoli alle falde del Vesuvio, dove resta tuttora arcigno e incorruttibile custode della proprietà.
Nascosta nelle pinete del Vulcano, la bella villa con piscina era stata trasformata dalla sua proprietaria, un’elegante signora francese, biondissima e appassionata di mastini napoletani, in un allevamento di neri cani da difesa.
Il dottor Gardenia era appena agli inizi della sua carriera, ed in verità era più pratico di polli e conigli piuttosto che di cani, ma il mastino napoletano era sempre stata la sua razza preferita: gli piacevano la mole imponente, gli occhi tranquilli, il carattere da burbero benefico, ed in generale l’aria di sicurezza che trasmettevano quei grossi animali.
L’ambulatorio era ancora in fase di completamento, lui lavorava da solo e non aveva nemmeno una linea telefonica, per questo i clienti che lo conoscevano, telefonavano a casa dei suoi genitori per ricevere assistenza urgente.
Il padre del giovane veterinario era andato da poco in pensione e si prestava con garbo al delicato incarico. Tranne quando doveva rispondere alla signora francese.
Il brav’uomo non teneva in alcuna stima né simpatia i cugini d’oltralpe, ed aveva i suoi buoni motivi, anche se non tutti condivisibili: a ventun’anni, novello ufficiale di artiglieria, era stato spedito in prima linea, in occasione del l’occupazione della Francia ordinata dal duce nel giugno del 1940.
Era appena sceso da cavallo e stava avvicinandosi alla batteria di obici piazzata sulla cresta del col du Chenaillet, sul Monginevro, giusto sotto la Roccia delle Aquile, quando il baldo sottotenente venne colpito al ginocchio dall’unico colpo di moschetto sparato in quella calda sera di San Giovanni. Il cacciatore delle alpi francese, probabilmente più confuso e spaventato di lui, forse aveva esploso un colpo di avvertimento sbagliando mira.
La pallottola della carabina MAS 36 a palla perforante, di 9,6 grammi di piombo, colpì al ginocchio il sottotenente Gardenia provocandogli lo spappolamento di rotula, tibia e femore destro, e decretando così per lui la fine della guerra. Tra ricovero, interventi e terapie, lo sfortunato (o forse troppo fortunato) ufficiale passò tre anni all’ospedale militare e riportò un’invalidità permanente, ma non accettò mai l’idea che probabilmente quella pallottola gli aveva salvato la vita. Il suo battaglione sparì nelle nevi delle pianure Russe, nell’inverno del ‘43.
«Ah…ha telefonato una signora, come si chiama…quella francese.»
«Bene, che voleva?»
«Dice se le vai a visitare un cane»
«Ma subito? Volevo mangiare qualcosa e poi andare a riposare per qualche minuto… Ha detto di che si tratta?»
«Naaa, ha un cane che non riesce a partorire, cosa vuoi che sia, pranza con calma, è quasi pronto.»
«Scusa papà, a che ora ha telefonato Madame?»
«Veramente ha chiamato stamattina presto, ma che fretta vuoi che ci sia?»
Mentre rotolava giù per le scale rischiando di rompersi l’osso del collo, il dottor Gardenia decise che al più presto avrebbe fatto mettere il telefono in ambulatorio e avrebbe anche preso un’aiutante. No, meglio due.
La vetusta Centoventisette rossocorallo sembrava percepire i momenti di premura, e con maligna precisione manifestava tutta l’improntitudine accumulata durante le centinaia di migliaia di chilometri accumulati in tutti i suoi componenti: ci vollero blandizie, bestemmie e la solita spintarella per convincerla a partire. Meno male che il dottor Gardenia aveva ormai imparato a parcheggiarla sempre in discesa.
Arrivato al cancello della grande villa, sceso dall’auto per suonare al campanello, le sue narici furono colpite da un profumo strano, ma deliziosamente appetitoso. Certo, a quell’ora, e a digiuno, avrebbe mangiato anche un mastino crudo.
Madame lo accolse con una stretta di mano asciutta e decisa, ma senza il solito sorriso, anzi diede un’eloquente occhiata all’orologio da polso. Lui cominciò a farfugliare del padre anziano e distratto, di traffico, di auto che non voleva partire, ma si interruppe bruscamente quando, passando vicino al grande gazebo in muratura a fianco della piscina, vide quello che c’era sul tavolo apparecchiato per il pranzo.
Sopra un tavolino di legno massiccio, un marmitta sobbolliva sopra un fornelletto scaldavivande, mentre sul desco faceva bella mostra una grande zuppiera fumante e sulle braci quasi spente del barbecue si rosolavano delle fette di bianca baguette.
«Trés dèsolé, mon cher docteur… Avevo preparato la bouillabaisse, ma Singarellà sta troppo mal, dobbiamo andare subìt, sarà per un’altra volta!»
Il malefico genitore che non aveva ritenuto opportuno avvertire il figlio dell’invito ad un pranzo transalpino presto avrebbe pagato per le sue malefatte, intanto però il profumo dei pesci di scoglio e dei crostacei cotti in un fumetto di pesciolini, con scorzette d’arancio, finocchietto, pomodorini e zafferano, provocava strane visioni nella mente del giovane professionista.
Zingarella era un’esemplare di due anni, color grigio argento, di carattere serafico e una stazza di quasi settanta chili quand’era in forma: ora, al termine della sua prima gravidanza, si avvicinava ai novanta ed era stesa a terra ansimante, nel suo comodo box con vista mare.
I ricoveri dei mastini si trovavano in un lieve declivio a poca distanza dalla costruzione principale ed erano ombreggiati da una rigogliosa siepe di bouganvillea e gelsomino, i cui fiori bianchi e viola spandevano un profumo quasi inebriante, disturbato in quel pomeriggio di primavera, dalla puzza proveniente dal box della puerpera. Appena udì avvicinarsi i passi della sua padrona, Zingarella si sollevò faticosamente, e quando la porta del suo ricovero venne spalancata per far passare il contrito veterinario, dimostrò tutta la sua felicità con un profondo latrato ed una potente scrollata, completa di un solido spruzzo di bava collosa: sembrava esattamente una matrona del popolo che richiamava il suo giovane ginecologo un po’ distratto, ma con fare bonario, senza malizia.
«Allez, allez, Singarellà, vitvitvit! Le médecin est finalement arrivé!»
Madame era sempre molto gentile, ma questa volta era un po’ tesa e preoccupata per la sua cagnona e irritata per il ritardo del veterinario, le cui flebili scuse non l’avevano affatto convinta. La visita però fu rapida. C’era urgente necessità di ricovero e di intervento con taglio cesareo, pena la morte di Zingarella e dei suoi cuccioli.
Mentre era stato relativamente semplice convincere lo spropositato quadrupede a salire nell’apposito vano dell’altrettanto spropositata ma stupendamente barocca DS station wagon del ‘72, per sollevarlo sul tavolo operatorio il dottor Gardenia dovette cooptare una torma di nullafacenti che stazionavano nelle vicinanze dell’ambulatorio, con i quali dovette poi ingaggiare un violento corpo a corpo per farsi restituire il microscopio nuovo, che uno di loro voleva assolutamente adottare celandolo sotto la maglietta.
Dopo i rapidi controlli di routine, e con l’indispensabile aiuto di Madame, bardata di tutto punto con casacca verde e guanti sterili, Zingarella venne anestetizzata, ma mentre il giovane veterinario si apprestava a rasare il pelo sotto il pancione del mastino addormentato, l’allevatrice fermò la mano che teneva la tosatrice, e con voce sommessa e occhi bassi, chiese: «Excuse moi, dottor Gardenià, posso chiedere une cortesià… Ho visto un suo collega in France, fare un taglio sul fianco, qui a gauche, per dare la possibilitè ai cuccioli di succhiare il latte di maman. Si est possible…»
Con l’incoscienza della giovane età, il dottor Gardenia provò, e fu un successo: l’utero della cagna era bloccato da un cucciolo enorme che aveva avuto la brillante idea di nascere di coda, sbarrando così la strada a tutti gli altri nove fratelli e sorelle.
In quel momento la porta interna della sala operatoria si spalancò di colpo: come al solito, senza annunciarsi, né bussare era entrato Peppino ‘a Pastiglia, allevatore di setter inglesi e tossicodipendente storico della cittadina, bassino, magro e sempre nervoso.
«Uè dottò, disturbo?»
Per una volta nella sua vita, Peppino non venne accolto con una salva di “vaffanculo”, ma proprio in virtù del momento topico e contingente, e della sua esperienza di ostetrico pratico, fu pregato di lavarsi le mani, cambiarsi e aiutare nell’assistenza ai neonati, che iniziavano già a ossigenarsi i polmoni urlando a squarciagola.
Peppino era maleducato, presupponente e insolvente e veniva sopportato solo per via del gran numero di amici cinofili che dirottava verso il nuovo ambulatorio, ma quel giorno forse non aveva preso la sua dose, ed era più invadente del solito: dapprima andò a curiosare sul tavolo operatorio guardando da lontano, poi chiese lumi a Madame sull’intervento che ormai era quasi terminato.
«Chi lascia la via vecchia per la nuova, sa cosa lascia ma non quel che trova». Fu il suo lapidario commento riguardo al taglio cesareo fatto sul fianco, poi si occupò dei neonati di cui aveva indubbia esperienza, pulendoli e asciugandoli con destrezza, ma sempre borbottando tra sé.
La nemesi arrivò come lui, senza annunciarsi.
«Pardon messiè, le dispiace tirare un poco indietro la sampa di Singarellà, paschè le doctor deve mettere gli ultimi punti?»
Messiè Pastiglià, guardando Madame in tralice, girò intorno al cane, prese l’enorme zampa e la tirò verso di sé, per stendere la cute dell’addome: tale movimento però, diede a Zingarella la possibilità di liberare i gas del suo intestino, e lo fece con atto repentino e micidiale, come nella sua natura di cane da guerra.
Il peto vulcanico colse Gigino in pieno volto, togliendogli il fiato per qualche istante, mentre lo shrapnel mucofecale gli devastò il volto e la camiciola azzurra aperta sul petto.
«Ecchemiseria è successo?»
Ancora intronato dal colpo, il piccolo aiutante volontario si guardò le mani e poi se le passò sul viso, e nel guardarle, sbiancò e venne meno, poi fuggì bestemmiando verso il bagno. Madame, che sogghignava con evidente soddisfazione, avendo in poca stima il collega allevatore, si spostò nell’altra stanza, dove i cuccioli urlavano a più non posso la loro gioia di essere venuti al mondo, e dopo qualche istante, prese ad ululare anche lei.
«Sono solo nove, dov’è l’altro cucciolo?»
Messiè Pastiglia, asciugandosi con ribrezzo le mani, la camicia tutta bagnata ma non certo pulita, si affacciò dalla porta del bagno, urlando «Signò, il primo cane era morto, l’ho buttato nella spazzatura, dopo provvedo io a seppellirlo.
La bionda signora, scarmigliata e sconvolta, sospettosa al massimo su qualunque cosa dicesse o facesse il piccolo allevatore, si lanciò verso il contenitore dei rifiuti e lo aprì, scoprendo con raccapriccio ed altri ululati nella lingua di Baudelaire, il cucciolo nero ed enorme che ancora si muoveva al di sopra di garze e residui di placenta, lamentandosi sommessamente a differenza dei suoi fratelli, e immediatamente lo ripulì, gli liberò le narici dal muco e prese a massaggiarlo febbrilmente per riscaldarlo e riattivargli la circolazione.
Dopo diversi minuti di «malédiction, connard, sale mouche» rivolti al fedifrago, alternati a «mon cherie, mon petite, mon brave» sussurrati al cucciolo redivivo, il piccolo grande cane cominciò a urlare anche lui come gli altri e ad agitarsi a occhi chiusi, cercando il corpo caldo della madre, che appena sveglia, iniziò immediatamente a leccare i figlioletti ed il figliolone con una grossa lingua rosa e umida, e a raccoglierli sotto di sé per dar loro il latte, incurante del dolore per la ferita chirurgica.
Dopo quella brutta esperienza, Gigino venne scacciato in malo modo dall’ambulatorio, con il divieto di farsi vedere mai più: evidentemente aveva pensato di “rapire” il cucciolo, facendolo passare per morto, onde affidarlo a una delle sue nutrici, per poi rivenderlo e comprarci qualche dose di “roba” buona.
Il cucciolo redivivo fu chiamato Califfo, divenne un enorme e magnifico esemplare di colore grigio ferro. Partecipò a innumerevoli gare e mostre canine, vincendole tutte e diventando campione in tutte le categorie, ma conservando per sempre il carattere socievole e tranquillo che gli era stato trasmesso da Zingarella. Madame se ne dovette staccare dopo qualche anno, perché aveva avuto un’offerta a cui non si poteva rifiutare, da parte di un appassionato allevatore tedesco che si era perdutamente innamorato del suo enorme molosso da guerra. Non è dato conoscere il motivo vero: nostalgia della “Douce France”, pentimento o depressione per la perdita del suo gioiello a quattro zampe, sta di fatto che Madame, incassata la somma stratosferica per la vendita del suo Califfo, dopo pochi mesi cedette tutti gli altri cani e la villa con piscina, e si trasferì armi e bagagli in un castello sul mare della Provenza, ma non prima di offrire al suo affamato veterinario una sontuosa bouillabaisse, la zuppa di pesce dei pescatori marsigliesi, accompagnata dalla rosea e piccantissima salsa rouille, e abbondantemente innaffiato da un delicato rosè della Riviera.
Consilia qui dant prava cautis hominibus et perdunt operam et deridentur turpiter. Canes currentes bibere in Nilo flumine, a corcodillis ne rapiantur, traditum est. Igitur cum currens bibere coepisset canis, sic corcodillus «Quamlibet lambe otio, noli vereri». at ille «Facerem mehercules, nisi esse scirem carnis te cupidum meae».
Chi dà cattivi consigli ai prudenti, spreca fatica ed è deriso con sua vergogna. Si racconta che i cani bevono nel fiume Nilo correndo, per evitare di essere presi dai coccodrilli, ma ad uno di essi che cominciò a bere e correre, un coccodrillo disse: «Bevi caro, lecca con calma, non aver paura», Al che l’altro rispose: «Lo farei perdio, se non sapessi che sei ghiotto della mia carne!» (Gaio Julio Fedro, Favole)
Lo scrittore Lucio Sandon è nato a Padova nel 1956. Trasferitosi a Napoli da bambino, si è laureato in Medicina Veterinaria alla Federico II. Appassionato di botanica, dipinge, produce olio d’oliva e vino, per uso famigliare.