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Il Racconto, La città del Sole

di Lucio Sandon

‘A coppa Sant’ Ermo, vede ‘o purpo a mmare.

Lo si dice di chi si affanna a voler raggiungere un risultato che certo invece gli mancherà, come di chi volesse pescare un polpo e volesse farlo dall’alto della fortezza di Sant’Elmo, che è vero guarda il mare, ma lo fa da una collina alta duecentocinquanta metri.

La sommità della collina era denominata Paturcium, e vi sorgeva una chiesetta dedicata a Sant’Erasmo, oltre ad una torre di avvistamento normanna.

Castel Sant’Elmo, (da Sant’Erasmo, Sant’Ermo, San Telmo ed infine Sant’Elmo) venne edificato nel 1329, con pianta stellata a sei punte, forma del tutto nuova e rivoluzionaria per quei tempi, e fu circondato da un ampio fossato che ne proteggeva le ciclopiche mura.

Sul maestoso portale il vicerè di Spagna, Pedro di Toledo, fece apporre uno scudo marmoreo con l’aquila bicipite e le armi dell’imperatore Carlo V. Per la sua possente mole e per l’assoluto dominio che esercitava sull’intera città, Castel Sant’Elmo fu sempre guardato dai napoletani con un senso di timore, e infatti appena completato nel 1547, fece sentire la voce dei suoi cannoni in occasione dei tumulti dovuti al tentativo d’introdurre a Napoli l’inquisizione spagnola, resa ancora più atroce dopo le disposizioni emanate dal priore Tomàs de Torquemada.

Il tentativo fallì per la rivolta del popolo, così ricordato da un’epigrafe posta entro le sue mura:

Ai popolani di Napoli che nelle tre oneste giornate di luglio MDXLVII laceri, male armati e soli d’Italia, francamente pugnando nelle vie dalle case contro le migliori bande d’Europa tennero da sé lontano l’obbrobrio della inquisizione spagnuola imposta da un imperadore fiammingo e da un papa italiano, e provando ancora una volta che il servaggio è male volontario di popolo, ed è colpa de’ servi più che de’ padroni.

Nel 1604 fu involontario ospite del castello il frate e filosofo domenicano Tommaso Campanella, confratello di Torquemada ma irriducibile avversario delle scuole teologiche ufficiali, che era stato processato per ribellione ed eresia, condannato a vita e rinchiuso nella fossa del castello insieme ad un feroce coccodrillo, giusto per non dargli modo di annoiarsi. Lui, appena trovava un pezzo di carta scriveva, e frammento dopo frammento, compose Tommaso Campanella, anche se il sole, dalle celle di Castel Sant’Elmo non lo vide per ventisette anni.

Il gatto si chiamava Pascià, e da Sant’Ermo vedeva il purpo a mare… e cercava anche di prenderlo, o perlomeno così pensava il suo padrone.

Il padrone di Pascià era un giovane funzionario del commissariato di una ridente cittadina spalmata sulle pendici del Vulcano, e quella gelida mattina di un inverno gelido come sa esserlo l’inverno da quelle parti, si presentò pallido e tremante alla porta dell’ambulatorio del dottor Gardenia, stringendo tra le mani un fagotto di stracci insanguinati.

«Caro Ispettore, come mai da queste parti?»

«La prego dottor Gardenia, salvi il mio Pascià… È caduto giù dal balcone!»

Il tono era implorante: contrariamente al solito, l’ufficiale non aveva un sorriso ironico sul volto bruno, anzi sembrava quasi per scoppiare in lacrime, lui che del cinismo aveva fatto quasi una maschera per nascondere le angosce del suo mestiere.

Lo conoscevano bene, in ambulatorio: più volte era intervenuto per problemi legati all’attività della struttura, altre volte per far controllare il suo cagnolino o Pascià, il grosso persiano maschio grigio ferro. In qualche circostanza era andato lì solo per corteggiare discretamente la bella Alessandra, di cui era innamorato senza alcuna  speranza.

Il povero animale venne prontamente soccorso, e mentre i sanitari si prodigavano intorno al povero animale, le cui forme eleganti erano ormai irriconoscibili e ridotte ad un ammasso di pelo insanguinato e arruffato, il poliziotto raccontava una storia assurda.

Pascià aveva intuito il sistema di apertura della portafinestra che dava sul terrazzo di casa, posto al terzo piano di un antico palazzo al centro della cittadina: con la zampetta apriva il balcone ed andava ad appollaiarsi sul corrimano della ringhiera, e da quella posizione superba ma precaria, contemplava languidamente i suoi simili che passeggiavano liberi sulle strade e per i giardini circostanti, richiamandone l’attenzione con dei miagolii modulati. In tutto ciò non ci sarebbe stato nulla di male se non fosse stato che Pascià, vuoi per il suo temperamento tranquillo, vuoi per la noia, in quella precaria posizione ogni tanto ci si addormentava, e poi cadeva giù come una pera matura. Finché atterrava dal lato del terrazzo nulla di male, ma già due volte nel sonno si era rigirato verso il vuoto, precipitando sulle corde del bucato della signora del piano di sotto, che lo aveva raccolto e riportato all’allibito proprietario.

Questa volta gli era andata male: nonostante l’alba gelida e piovosa, Pascià aveva approfittato della stanchezza del suo padrone ed aveva guadagnato la sua pericolosa postazione. Al risveglio, non trovando il suo piccolo amico, l’uomo si era subito affacciato al terrazzino, e non vedendolo si era sporto per capire se Pascià fosse rimasto appeso alle corde del bucato, ma aveva scorto solo una grossa macchia di sangue sul selciato del cortile interno, almeno quindici metri più in basso.

Incurante dell’umidità, il poliziotto aveva disceso di corsa le scale ed era andato a controllare se il micio si fosse trascinato da qualche parte, ma non trovando altre tracce del suo piccolo amico, si era precipitato a chiedere al portiere del palazzo, intento a prepararsi il caffè in guardiola.

«Buondì ispettore, come mai così presto stamattina?»

«Don Gennaro, per caso avete visto Pascià, il mio gatto…sapete quel grosso persiano grigio scuro…»

«Ispettore, in verità io stamattina presto ho visto un gatto quasi nero, ma era steso nel cortile in una pozza di sangue… Ho pensato che una macchina lo avesse schiacciato facendo manovra: era morto, così l’ho raccolto con la pala e l’ho messo nel bidone dell’immondizia».

Disperato e bestemmiando ad alta voce, Montalbano era uscito  per strada ed era andato ad aprire il cassonetto: sopra ad una montagna di sacchetti della spazzatura giaceva scompostamente Pascià. Vedendo la luce del sole, il gatto aveva sollevato a fatica il capo insanguinato, salutando il suo padrone con un flebile lamento.

Senza indugi il giovane si era tolto la giacca del pigiama usandola per avvolgervi il povero animale che rantolava nella spazzatura, proprio mentre in fondo alla strada compariva il compattatore della nettezza urbana.

«Don Gennaro, con voi facciamo i conti più tardi.», fu la torva minaccia lanciata al portiere, mentre andava a recuperare degli indumenti più adatti al clima e le chiavi della macchina.

«…Ed eccomi qui, ho fatto una corsa incredibile: vi prego, salvatemi Pascià!», implorò l’ispettore guardando negli occhi i tre medici, il dottor Gardenia e le sue belle assistenti, come se ognuna di quelle sei mani rappresentasse la differenza fra la vita e la morte del suo amato e spericolato amico.

Il gatto che non sapeva volare aveva tre zampe fratturate, il palato spaccato in due come un melone, diversi denti spezzati, contusioni ed ematomi in tutto il corpo, aveva perso molto sangue, ma era vivo e nel giro di qualche settimana,  fu anche in grado di tornare a camminare.

Superato il momento di crisi per il brutto trauma di Pascià, il simpatico poliziotto non perdeva l’occasione per portare il suo acciaccato beniamino a controllare presso la clinica veterinaria, sobbarcandosi a cuor leggero le noiose attese, pur di poter perdersi negli occhi verdi della sua amata Alessandra, che dal canto suo non faceva nulla per nascondere il fastidio che le provocava tale corteggiamento.

Quando il gattone fu guarito, anche se  dimagrito di circa un terzo dei suoi otto chili iniziali, non c’era  più alcuna scusa che il poliziotto innamorato potesse inventare per presentarsi nella sala d’attesa, così fu con meraviglia e sospetto che la bionda professionista salutò l’ispettore che sedeva con fare corrucciato bilanciando il portagatti sulle ginocchia.

«Lo ha fatto di nuovo! Per fortuna stavolta c’era un camion parcheggiato sotto al balcone per un trasloco, gli operai hanno sentito il colpo e lo hanno trovato svenuto sopra il cassone di vetroresina che ha attutito il colpo, e quel deficiente del portiere stavolta mi ha avvertito subito.»

Alessandra guardò il gatto che ronfava tranquillo nel suo contenitore e guardò di sottecchi il proprietario, che sembrava preoccupato, ma anche vagamente divertito, avendo già constatato che Pascià riusciva a camminare speditamente e non perdeva sangue.

«Credo che dovremo sottoporlo ad un po’ di indagini: probabilmente ci sarà bisogno di ricoverarlo per un paio di giorni Immagino che non le dispiaccia, vero ispettore?»

«Ma si immagini dottoressa, faccia pure tutto ciò che ritiene necessario: mi fido ciecamente di lei. Posso aspettare qui?»

«Meglio che vada, anzi vada, vada pure! Ma… un po’ di attenzione in più per evitare incidenti, non sarebbe possibile?»

Dopo essere faticosamente riuscita ad allontanare il focoso giovanotto, Alessandra chiamò il titolare e Marisa, e mostrando il piccolo paziente, cominciò ad esporre i suoi sospetti.

La notte era gelida e piovosa, ma le due colleghe non rinunciavano: già due nottate avevano trascorso sul lastrico solare della piccola costruzione sul lato opposto del marciapiede  di fronte alla casa del poliziotto: erano giunte alla conclusione che l’uomo, impazzito per amore, aveva deciso si sacrificare il proprio animale, immolandolo sull’altare della defenestrazione, pur di avere la possibilità di vedere Alessandra da vicino, e così avevano deciso di sorvegliarlo, per sorprenderlo sul fatto.

Imbacuccate in pesanti maglioni e piumini, con guanti di lana e cappelli imbottiti, si tenevano caldo con un grosso thermos di caffè corretto, fornito gentilmente dal signor Vincenzo, l’anziano vedovo proprietario del villino di fronte all’abitazione del giovane poliziotto. Don Vincenzo era rimasto molto colpito dalla strana richiesta delle due veterinarie, che intendevano studiare le abitudini notturne dei gabbiani proprio dal terrazzo di casa sua, e quella sera nell’attesa delle due belle ragazze che venivano a fargli compagnia ogni notte, era andato sul porto ad aspettare i pescherecci che erano usciti nonostante il mare grosso, e aveva acquistato un po’ di purpetielli, quelli che piacevano tanto alla sua  povera Maria, nativa di Santa Lucia.

I luciani, gli abitanti del più antico borgo marinaio di Napoli, oltre ad essere esperti nella pesca dei polpi, hanno inventato una ricetta per cucinarli in un modo squisito. Per questo però bisogna avere a disposizione il purpetiello verace, che si distingue dal parente povero di fondale perché ha due file di ventose sui tentacoli, è molto profumato, si veste di un colore marrone con preziose sfumature rosa e abita tra gli scogli. Verso le otto di sera, don Vincenzo mise i polipetti  in un tegame di creta, poi appena incominciarono  a cuocere aggiunse  i pomodori,  l’olio di oliva,  l’aglio,  il pepe  e le olive di Gaeta, e completò  la cottura a fuoco lento sigillando il pignatiello con carta oleata  legata ben stretta con uno spago, “tirando” la salsa finchè non diventò densa e lucida.

Quando Alessandra e Marisa si presentarono con il loro zainetto con panini e birra, il buon vecchietto aprì  la porta di casa per invitarle a una spaghettata alla buona, e poco ci volle a convincere le due colleghe ipnotizzate dal profumo che sprigionava dall’abitazione, ad onorare la tavola dell’anziano gentiluomo.

Incuranti dei gabbiani appollaiati sulle corde del bucato che le osservavano con interesse, le giovani donne, ancorchè riscaldate dalla cena principesca e dalla caraffa di fresco Piedirosso che l’aveva accompagnata, erano intente a scambiarsi il binocolo e una stecca di cioccolato alle nocciole, quando verso le due del mattino, mentre il cielo, oscurato da ammassi di nembi spaventosi regalava loro un altro scroscio di pioggia gelida, un rumore dall’altro lato della strada ne attirò l’attenzione: sul terrazzo del funzionario si udiva un suono come di un raspare insistente mentre l’appartamento era avvolto nell’oscurità.

Dopo qualche minuto la portafinestra si aprì di pochi centimetri, ma le due donne non riuscirono a vedere chi si nascondeva dietro ai vetri: il riflesso dei lampioni stradali impediva la visuale. Dopo una manciata di secondi, videro una grossa sagoma pelosa grigioscura che, saltata con balzo un po’ incerto sul corrimano del terrazzino, si sporgeva verso il cortile come per osservare qualcosa al di sotto: Pascià era riuscito ancora a guadagnare la sua postazione preferita.

Dopo qualche minuto di attenta osservazione dei dintorni, le piccole orecchie triangolari tese a captare qualunque rumore, accertatosi che non vi erano movimenti di uomini o animali, il micione funambolo si accomodò placidamente in equilibrio sul corrimano, raggomitolò la coda vaporosa, con ogni evidenza spazzolata quella sera stessa, e infilò la testa sotto al suo soffice  mantello, partendo istantaneamente per il mondo dei sogni.

Alessandra e Marisa si guardarono in faccia smarrite e spaventate: dovevano agire immediatamente per salvare Pascià da un’altra caduta dal balcone, ma come potevano avvertire l’ignaro padrone senza far scoprire la loro sospettosa malafede?

«Andiamo giù e facciamo telefonare dal signor Vincenzo!», disse Marisa.

«Ma a quello gli prende un colpo, se andiamo a suonare il campanello a quest’ora! Ci ha dato apposta la chiave, per uscire senza disturbare!», rispose Alessandra.

Improvvisamente dall’altro lato della strada si accese una luce, e la portafinestra si spalancò, lasciando vedere la sagoma del giovane funzionario che, seminudo si avvicinò al gatto dormiente e, incurante del gelo notturno, pian piano lo sollevò dal corrimano e, stringendolo dolcemente al petto, rientrò lentamente in casa per non svegliare il suo amato Pascià.

Le due colleghe si guardarono di nuovo in faccia, ora con espressione diversa: ecco qui, dicevano i loro occhi, non era come pensavamo noi, abbiamo sbagliato a giudicarlo… Beh, meglio così!

«Però, che fisico!», sbottò Marisa.

«Ma vai a quel paese, tu e lui, qui se non mi viene la polmonite è un miracolo!», tispose la bionda infreddolita, che però non aveva potuto fare a meno di notare i muscoli scolpiti dell’uomo e i suoi movimenti elastici.

Scesero in strada ridacchiando sommessamente tra loro, dirigendosi verso la macchina di Alessandra, parcheggiata poco distante, quando davanti a loro si parò un’alta figura coperta da un pesante cappotto dal bavero rialzato.

«Che piacere vedere le due dottoresse insieme sotto casa mia… Ma non è un po’ freddo per una passeggiata? Hei, ma non è che mi stavate tenendo d’occhio? Magari una di voi pensa un pochino a me?»

Il sorriso ironico e scanzonato del poliziotto faceva pensare che avesse intuito qualcosa più di quanto dicevano le sue parole. Ad Alessandra, dopo un attimo di smarrimento, tornò alla mente il vecchio proverbio che sentiva spesso a casa dei genitori : A coppa Sant’Ermo pesca ò purpo a mmare…

E allora gli si avvicinò, e pensando al suo gesto di poco prima nel salvare Pascià, gli stampò un bacio sulle labbra. Era un bacio dolce, molto dolce, e forse il giovane poliziotto lo ricorda ancora.

 

Lo scrittore Lucio Sandon è nato a Padova nel 1956. Trasferitosi a Napoli da bambino, si è laureato in Medicina Veterinaria alla Federico II, aprenso poi una sua clinica per piccoli animali alle falde del Vesuvio. Appassionato di botanica, dipinge,  produce olio d’oliva e vino, per uso famigliare. Il suo ultimo romanzo è La Macchina Anatomica, un thriller ambientato a Portici. Ha già pubblicato il romanzo Il Trentottesimo Elefante; due raccolte di racconti con protagonisti cani e gatti: Animal Garden e Vesuvio Felix, e una raccolta di racconti comici: Il Libro del Bestiario.

 

 

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