Il Racconto, La battaglia di Canne
Il racconto La battaglia di Canne è tratto da un libro dell’autore non ancora edito
di Lucio Sandon
Afris prope iam fessis caede magis quam pugna (I Cartaginesi erano quasi più spossati per la strage compiuta che per il combattimento), Tito Livio, Ab Urbe Condita libri, XXII, 48
Pianura dell’Ofanto, cittadella fortificata di Canne, secondo giorno di agosto. L’ora che precede il tramonto.
Ero fermo, incredulo e quasi attonito, le mie spalle desolatamente curve per la fatica. Le vesti strappate e la corazza di cuoio scuro che indossavo erano completamente incrostate di sangue.
Il mio sguardo ormai perso nel vuoto.
Con la mano destra artigliavo ancora in una stretta quasi inconsapevole la spada da combattimento, ricurva e a doppio taglio, anch’essa sporca di sangue fino all’elsa. L’impugnatura della falcata, colpita dagli ultimi raggi del sole, splendeva però ancora d’oro e rubini, e rivelava a chi fosse stato in grado di osservarla, la sua finissima fattura: era stata scolpita da un orafo geniale con la forma della testa di elefante. L’animale sembrava volersi lanciare in battaglia con la proboscide leggermente sollevata, e i suoi occhi di rubino scintillavano come gocce di sangue, pregustando la vittoria.
I miei generali, veterani di mille battaglie e gli anziani senatori di Cartagine, che avevano affrontato con spavalderia ma con la morte nel cuore l’apparentemente impossibile scalata delle Alpi innevate, si erano lentamente avvicinati e poi raccolti in cerchio intorno al loro comandante, in religioso silenzio.
Attendevano una sola parola del loro stratega, ancora increduli anche se avevano visto con i loro stessi occhi. Una sola parola, che li incitasse a risalire a cavallo, e lanciarsi ancora intrisi del sangue caldo dei loro nemici, verso l’obiettivo finale. Verso nord, in direzione del sogno che li aveva spinti ad attraversare il mare, conquistare città, e infine a superare montagne mai valicate da nessun esercito prima del loro.
Il fumo degli incendi che divampavano ancora sul campo di battaglia e il profumo delle carni che già arrostivano nelle cucine del campo laggiù nella valle, si mescolavano nell’aria dolce della notte.
Le preziose corazze d’oro dei ricchi nemici uccisi o fatti prigionieri, accatastate davanti al mio padiglione, mandavano bagliori, riflettendo le macchine da guerra nemiche date alle fiamme.
Maharbale, tarchiato comandante numida, primo condottiero della cavalleria punica, si avvicinò a me zoppicando per la fatica e il dolore e si piegò in ginocchio sul tappeto formato dalle toghe intrise di sangue, strappate agli ottanta senatori romani massacrati dai suoi uomini. Quel mattino all’alba, prima di venire uccisi in battaglia, i più nobili rappresentanti dell’Urbe le avevano indossate con orgoglio e presunzione sopra ai loro lucenti usberghi incrostati di pietre preziose.
Insieme a Bomilcare, il comandante della mia guardia del corpo, Maharbale tese le mani verso di me, imitato subito dopo da tutti gli ufficiali e infine da tutti i militari che gli stavano vicino.
Qualcuno di loro aveva le lacrime agli occhi.
«Guidaci, o prediletto da Baal, grande tra i mortali! Roma è ormai ai nostri piedi: ordinaci di saltare a cavallo, e tra non più di cinque giorni ci ritroveremo tutti insieme a banchettare sul Campidoglio!»
Rimasi ancora muto. Immobile, come pietrificato, in mezzo ai miei soldati. Non ero più lì.
Il mio pensiero in quel momento volava come un gabbiano nell’aria della sera e si librava sopra quei dolci declivi coperti di viti, dove i cadaveri di ottantamila soldati nemici giacevano insepolti, mentre il loro sangue colorava di rosso l’erba secca delle colline.
Per dirla tutta in verità, non riuscivo ancora a capacitarmi della fortuna che mi aveva assistito quel giorno.
La notte precedente non avevo dormito nemmeno per pochi minuti: mi teneva sveglio il pensiero di come fosse possibile affrontare le due straripanti armate che il governo di Roma mi aveva scagliato contro. Due legioni, tutte insieme. I loro strateghi, o come diavolo si chiamava chi li comandava in quel momento, volevano essere certi di vendicarsi delle sconfitte subite e di riuscire a schiantarmi definitivamente, una volta per tutte.
Le prime luci dell’alba di quella che già si presentava come una giornata torrida, avevano lentamente cominciato a rivelare l’accampamento dello schieramento nemico. I bivacchi dei militari romani si stendevano in un mare di tende e vessilli. Corazze, carri, uomini e cavalli, un oceano in armi disteso in ordine perfetto, a occupare tutta la vallata al di là del fiume.
Io, nella mia qualità di stratega degli eserciti cartaginesi ero già in giro per il campo da molte ore, e tutto sommato avrei dovuto essere ben preparato a quello spettacolo spaventoso. I miei informatori mi avevano da tempo riferito tutte le cifre circa la preponderante consistenza delle forze di Emilio Paolo e Terenzio Varrone, ma in quel momento, vedendoli con i miei occhi, anzi con l’unico che mi rimaneva, il mio cuore stava minacciando di risalire fino in gola e di scoppiarmi nel petto.
Qualche giorno prima avevo conquistato e distrutto la loro cittadina fortificata, e ora le sue rovine ospitavano il comando dell’esercito punico. Riconobbi a me stesso che era ottimo punto da cui osservare il nemico.
Ero rimasto diverse ore immobile sul crinale del colle, ad osservare attentamente la pianura che si stendeva sulle rive del piccolo fiume. I fuochi ardevano ancora a migliaia tra le tende romane tutte uguali e maniacalmente piantate secondo un perfetto schema geometrico.
Quale diversità pensavo, rispetto al campo del mio esercito, dove ogni etnia raggruppava in modo autonomo e disordinato i suoi padiglioni, delle forme e colori i più svariati e fantasiosi.
Un accurato calcolo, e dopo qualche tempo ero giunto alla conclusione che le spie e gli esploratori non mi avevano mentito: Roma aveva mandato due esperti consoli e una quantità di militari bene addestrati mai vista prima, con l’intento dichiarato di mettere una buona volta la parola fine alla mia avventura.
E specialmente alla mia persona.
Sembra che tra loro circolassero diverse leggende circa l’invincibilità dello stratega punico Annibale Barca, senza parlare di tutte le paure che il sottoscritto rappresentava. Per il loro popolo ignorante ero l’orco, il demone cannibale venuto di là dal mare, e spuntato come un lupo famelico dalle montagne.
Questa volta però per me era finita, non avevo scampo: i nemici erano troppi. Quello sarebbe stato l’ultimo giorno, per me e anche per i miei fedeli soldati.
Per un attimo ripensai alla bella Himilke, la compagna di una vita, la donna che non vedevo ormai da tanto tempo.
Troppo.
Così da non ricordare quasi più i tratti del suo dolce viso. Pensai a mio figlio Amilcare, per il quale avevo attraversato il mare e sfidato i ghiacci delle montagne. Pensai alla mia patria lontana, con i suoi dei così crudeli, e infine al voto solenne che avevo fatto a uno di essi, che mi aveva portato fino a quel punto. Rabbrividii nonostante il caldo infame: tutto questo solo per dover morire in quella polverosa pianura piena di olivi, dopo avere conquistato e depredato quasi tutto il mondo conosciuto ed essere arrivato a un solo passo dal raggiungere il mio scopo.
Il gabbiano della mia mente aveva preso il volo: con un grido rauco virò leggero, accarezzato dalla brezza del mare, poi superò con un solo colpo d’ala le montagne vicine, e infine tutto il Mediterraneo che si stendeva immenso dall’altro versante dei monti.
E vide.
Come in un sogno, gli occhi della mia mente videro quel maledetto giorno, il primo giorno dell’estate di due anni prima.
La villa fortificata della mia famiglia, i Barca, sorge nel punto più centrale della città di Cartagine, la Byrsa, all’apice della collina che sovrasta il porto, al centro del quartiere alto, lontano dal frastuono del porto e dei mercati, tra giardini ben curati e verdi di alberi ombrosi, difesa da alte mura oltre che da feroci cani da guerra.
Quando quel mattino all’alba ero uscito dal portone corazzato che proteggeva il palazzo dovevo sicuramente avere il volto buio e corrucciato: diversamente dal solito, i militari di guardia mi avevano salutato con un cenno rispettoso ma gli occhi puntati a terra. Come sempre mi accompagnavano i miei due più fedeli collaboratori, mio fratello più piccolo Magone, e Bomilcare, e naturalmente anche un drappello di ufficiali del battaglione sacro in assetto da combattimento, così com’era d’uso comune tra gli Strateghi, come venivano chiamati a Cartagine i massimi dirigenti punici. In realtà non avrei avuto bisogno di alcuna scorta: il nostro castello era circondato dalle dimore dei parenti più stretti e da quelle dei più fedeli generali, tanto da formare un intero quartiere della capitale, sulle cui strade potevano circolare in tutta sicurezza e disarmati i suoi fortunati abitanti. E poi fin da quando avevo compiuto i quindici anni ero perfettamente in grado di combattere in battaglia al fianco di mio padre, il grande generale Amilcare Barca, amatissimo Stratega prima di me.
Quello però era un giorno particolare: la convocazione presso il tempio di Tanit non era più procrastinabile, e sapevo anche troppo bene come quella chiamata costituisse un cattivo presagio per chiunque, ma in special modo per i membri delle più potenti famiglie di quella città.
Volevo però provare a presentarmi a quell’appuntamento con i neri sacerdoti di Tanit dando loro l’impressione di forza e sicurezza, sentimenti però che nel profondo del mio cuore sentivo venir meno ad ogni passo.
Appena superato l’architrave che ornava il portone della casa, un raggio di sole mi colpì sul viso, e sollevai la testa proteggendomi gli occhi con una mano. Il disco di fuoco che in quel momento stava sorgendo da dietro le verdi colline che circondavano la città, mi abbagliò con il suo riflesso sul mare. Anche di prima mattina il mio occhio destro lacrimava già abbondantemente, e me lo asciugai con il risvolto della giubba. Di là dell’azzurro della baia comunque, riuscivo a scorgere con l’occhio buono il promontorio che abbracciava il porto imprendibile della sua città.
Respirai con voluttà l’aria fresca del mattino, e trattenni a lungo il respiro, quasi a voler tentare di rallentare il battito del cuore, che avevo l’impressione volesse scoppiarmi nel petto. Esitai giusto il tempo di un altro respiro di quell’aria che profumava di ginestre e di mare aperto, poi abbassai la testa e mi diressi con passo deciso verso il sacro recinto di Eshmoun. Costruito sull’acropoli della città, quasi come un avvoltoio pronto a divorarla, sorgeva appena a qualche centinaio di cubiti dal nostro quartiere. Accanto al tempio principale consacrato a Baal, era stato eretto un altro tempio, non meno inquietante e dedicato al culto di Tanit, l’oscura e sanguinaria divinità femminile portata fino in quel luogo dagli antichi fondatori della nostra città.
Se avessi potuto scegliere, avrei preferito di gran lunga scalare la montagna più alta dell’Atlante piuttosto che entrare tra quelle mura nere. La fatica che mi costavano quei pochi passi era indicibile. Terribile il dolore, e oscura la paura che mi provocava l’essere costretto a recarmi a quell’incontro, al quale mai avrei voluto sottostare.
Il tempio di Tanit sorgeva verso la sommità del colle, circondata da un lugubre cimitero costellato di pietre tombali. Le case più prossime sembravano quasi volersi tenere a debita distanza e ritrarsi da quel luogo di orrore e dal suo simbolo più terribile: la statua di bronzo, simulacro della dea, nera di sangue raggrumito.
Lo rividi nella mia mente, e rabbrividii nuovamente al pensiero.
Si trattava di un grande idolo cavo di pietra, con forme vagamente femminili, tra le cui braccia tese venivano deposti i doni sacrificali alla dea Tanit e destinati ad essere bruciati nel fuoco che ardeva nelle sue viscere. Conoscevo in ogni più orrendo particolare l’orribile rito che vi si celebrava quando la città correva gravi pericoli, proprio quello che stava succedendo in quel momento, quando la nostra amata patria era sotto la minaccia di un altro attacco da parte dei Romani.
Secondo quella maledetta usanza, le famiglie nobili avevano fin dai tempi più remoti il dovere di offrire in sacrificio alla dea della luna il loro frutto più prezioso: la vita dei propri figli non ancora adolescenti, l’unico modo per placare la furia di Tanit.
Solo facendole bere quel sangue innocente si poteva evitare che la sua rabbia funesta si scaricasse sull’intera comunità.
I fanciulli, ignari e drogati, con le mani legate dietro la schiena e con il capo coperto da un velo nero per non farli riconoscere, venivano fatti incamminare verso i crudeli sacerdoti del tempio, i quali dopo averli presi in braccio li sgozzavano come agnelli per donarli alla divinità delle tenebre, scaraventandoli infine nella bocca rovente dell’idolo.
Nell’alba tersa di quel mattino, Annone l’Oscuro, il supremo sacerdote di quel terribile e malvagio culto, attendeva in piedi il nostro gruppo, davanti alla porta del suo tragico tempio, sotto il bronzeo idolo della morte.
Spaventoso nella sua lunga veste, nera per nascondere le macchie di sangue che vi si erano incrostate, con il volto emaciato e le guance mal rasate, Annone portava sul cranio un alto copricapo cilindrico recante il terribile simbolo della divinità che serviva: un triangolo isoscele sormontato da una corta barra orizzontale per simboleggiare la terra, e da un disco a rappresentare la luna piena. Tanit. La divinità tenera e protettrice, distruttrice e ingannevole.
Il sole dell’Africa illuminava il volto del sacerdote.
Solitamente cupo e dagli occhi allucinati, in quel momento esibiva invece un largo sorriso sardonico: nell’osservarmi mentre mi avvicinavo, doveva aver scorto sul mio volto l’espressione atterrita che avevo tentato di camuffare.
Non era un problema nato da poco, quello tra di noi: le nostre rispettive famiglie si erano combattute per secoli e non solo politicamente, alternandosi con diversa fortuna nella guida della città, ma da parecchi anni i Barca avevano preso saldamente in mano non solo il comando dell’esercito, ma in modo quasi completo anche quello del consiglio cittadino.
Come però ben sapevamo sia io che lui, a Cartagine il potere dei sacerdoti del tempio era quasi più importante di quello militare, per cui un’offesa a Tanit da parte mia avrebbe rappresentato la fine del mio governo e anche quello di tutta la mia stirpe.
La mia scorta si fermò pochi metri prima dell’arco in pietra che delimitava le sacre terre di Tanit, io invece dopo un’ultima breve esitazione andai finalmente incontro al sacerdote, andando a bloccare il mio petto protetto da una corazza scolpita di cuoio e bronzo, solo a meno di un palmo da quello scheletrico e palpitante dell’alto prelato.
Sovrastavo Annone di tutta la testa, ma il prete aveva calzari di legno dai tacchi rialzati, così alla fine con quel ridicolo copricapo in testa sembrava quasi più alto me.
In effetti come quasi tutti i componenti della mia razza, tranne mio fratello Magone che era un vero gigante, ero di statura leggermente superiore alla media dell’epoca. Non sono di certo grosso, ma nerboruto sì, per effetto della continua attività fisica e di combattente. Il mio volto già bruno, è sempre abbronzato e piuttosto regolare anche se con un naso piuttosto importante, quel giorno era ombreggiato da una corta barba, mentre in genere i miei occhi nei giorni in cui stanno bene, brillano di ironia.
Al mio fianco brillava l’elsa della spada che era stata di mio padre Amilcare: oltre che un ricordo prezioso, si trattava di un’arma molto particolare, portata fin lì da Himilko, il mitico navigatore cartaginese che secoli prima aveva navigato lungo le coste africane fino a raggiungere l’Iberia e poi la Gallia, attraversando poi un mare sconosciuto, fino a giungere sulle coste di un’isola gelida e perennemente coperta dalle brume.
I Britanni, così pare si chiamassero gli abitanti di quelle terre lontane, avevano accolto come amici quei navigatori dalla pelle abbronzata, e come pegno di amicizia, al momento della loro partenza, avevano fatto forgiare da uno dei loro druidi una spada, che mostrava sull’elsa il simbolo di un animale per loro mitico: l’elefante africano era stato loro descritto e disegnato da Himilko stesso, durante le lunghe notti passate a scambiarsi racconti intorno al fuoco.
Lo scrittore Lucio Sandon è nato a Padova nel 1956. Trasferitosi a Napoli da bambino, si è laureato in Medicina Veterinaria alla Federico II, aprendo poi una sua clinica per piccoli animali alle falde del Vesuvio. Appassionato di botanica, dipinge, produce olio d’oliva e vino, per uso famigliare. Il suo ultimo romanzo è “La Macchina Anatomica”, un thriller ambientato a Portici, vincitore di “Viaggio Libero” 2019. Ha già pubblicato il romanzo “Il Trentottesimo Elefante”; due raccolte di racconti con protagonisti cani e gatti: “Animal Garden” e “Vesuvio Felix”, e una raccolta di racconti comici: “Il Libro del Bestiario”. Il racconto “Cuore di figlio”, tratto dal romanzo “Cuore di ragno”, in prossima uscita, ha ottenuto il riconoscimento della Giuria intitolato a “Marcello Ilardi” al Premio Nazionale di Narrativa Velletri Libris 2019. Il romanzo “Cuore di ragno” è risultato vincitore ex-aequo al Premio Nazionale Letterario Città di Grosseto “Cuori sui generis” 2019.
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