Culturaracconti

Il Racconto, Interrogazione di storia

di Lucio Sandon

Angelo si era svegliato presto, quel limpido mattino di gennaio. L’alba lividissima e gelida stava lentamente lasciando il posto a una giornata gravida di piogge e di voti pessimi. Il giorno prima Angelo aveva cazzeggiato a lungo sui social e al telefono con gli amici, ma quel mattino l’interrogazione di storia della seconda ora si era riproposta alla sua mente come un incubo, che lo aveva fatto quasi rotolare giù dal letto. Niente da fare, per lui quella materia era il male assoluto. Tutte quelle date e quei nomi non gli interessavano proprio per nulla, e gli scivolavano via dalla mente. Lui però, per puro scrupolo aveva deciso di riprovarci: accese la luce, prese il libro dal comodino dove lo aveva abbandonato la sera prima, aprì il quaderno degli appunti, e afferrò la penna. Niente: le parole gli sfuggivano sotto gli occhi, come acqua da un rubinetto guasto.

Caffellatte, biscotti, un rapido bacio a sua madre che lo osservava con aria sospettosa, poi scese le scale di corsa. Per non pensare all’interrogazione.

«Angelo, mi raccomando…»

«Si, mamma. Stai tranquilla.»

Che palle.

La strada alberata che scende verso il mare e porta al liceo era quasi deserta. La scuola avrebbe aperto da lì a un’ora, e i cancelli dell’istituto erano ancora sbarrati. Angelo si guardò intorno: nessuno dei suoi compagni era in vista. Anzi, in giro non c’era proprio nessuno in assoluto, nemmeno al bar di fronte. Normale: con quel freddo, sarebbero arrivati all’ultimo minuto, accompagnati da qualcuno in macchina, tutti assieme. Se però gli era rimasto qualche dubbio, ora davanti a quel cancello chiuso gli fu tutto più chiaro. Aveva voglia di un caffè, e anche di una sigaretta, ma accidenti non c’era in giro nessun amico cui chiedere anche solo un po’ di tabacco: gli erano rimaste solo due o tre cartine per rollarsi il fumo, ma nemmeno un piccolo residuo di tabacco da pompare nei polmoni. Si frugò in tasca, ma già conosceva bene quale sarebbe stato il risultato della ricerca: in pugno stringeva solo una moneta da due euro. Era solo giovedì, e per sabato, giorno di paghetta, mancavano ancora due giorni. Oltretutto se solo  suo padre avesse scoperto quello che aveva intenzione di fare  quel giorno, si sarebbe potuto scordare anche quella, e per diverse settimane. In fin dei conti con due euro poteva a malapena fare il biglietto della metropolitana per Napoli, ma non ne avrebbe avuto abbastanza per il ritorno. E poi, una volta arrivato in centro con i pochi centesimi rimasti ci sarebbe stato ben poco da divertirsi.

…Oppure poteva tentare la sorte e salire sul treno senza biglietto, tanto il controllore non passava  mai.

Mai? Con la fortuna che si ritrovava, lo avrebbero beccato sia all’andata che al ritorno. Poi valla a spiegare ai genitori, la multa da pagare per una corsa in treno in orario scolastico.

Con un’ultima risoluta scrollata di spalle, Angelo afferrò lo zainetto dei i libri, lo strinse sotto il braccio, e scese verso il Granatello.

Il ragazzo arrivò in pochi minuti alla sbarra del passaggio a livello: anche la stazione d’epoca borbonica era deserta, e nessun treno in arrivo era annunciato dagli altoparlanti. Alla fuga verso Napoli aveva già rinunciato, allora si infilò a testa bassa e trattenendo il fiato per non sentire la puzza di urina, giù per le scalette che portavano verso il porticciolo. Arrivato sul molo, lo spettacolo che gli si parò di fronte gli tolse il fiato per un attimo: il mare era perfettamente calmo e plumbeo in attesa della tempesta che da lì a poco si sarebbe scatenata. L’acqua era una lastra d’acciaio trasparente che lambiva appena gli scogli a difesa del porto, nel suo momento di marea più bassa. All’orizzonte, le isole del golfo, appena tratteggiate contro il grigio del cielo, a tratti sparivano, coperte dalle nuvole nere del temporale in arrivo.

Sulla destra, l’arcigno palazzo rossiccio e completamente ricoperto da una gabbia di impalcature, sembrava fare da guardia al piccolo approdo. Angelo osservò distrattamente la vecchia costruzione: sapeva che si trattava di un’antica villa in rovina, ma non ne ricordava il nome, anzi non l’aveva mai saputo, e in tutta sincerità non gli interessava nemmeno saperlo. Scese sugli scogli dove a volte d’estate veniva con gli amici a fare un tuffo, ma lì era troppo in vista. Qualche professore sceso alla stazione dei treni o peggio ancora, qualche infame compagno di classe, avrebbe facilmente potuto scorgerlo e tradirlo: dal momento che lui non si era presentato all’interrogazione di storia, il fulmine sarebbe ricaduto su qualcun’altro dei malcapitati presenti in classe in quel momento. Prima o poi, di questo ne era certo, avrebbe pagato per la sua vigliaccheria.

«Meglio poi.»

Aggirò con circospezione le transenne arrugginite che sbarravano il passaggio verso la grande villa, e si trovò ben presto in un piccolo anfiteatro sul mare. Un luogo inquietante e cadente, ma dove sicuramente nessuno lo avrebbe visto. Si rese conto però che non  poteva stare nemmeno lì perché  da un momento all’altro  avrebbe cominciato a diluviare. Sull’altro lato, verso nord, in direzione di Napoli il fuggiasco notò una sorta di caverna che si apriva nel terrapieno, e ci si infilò senza esitare. Era l’antica discesa a mare della villa, ma  anch’essa sbarrata. Si issò allora con un movimento agile su di un muretto che l’affiancava e dopo qualche contorsione si ritrovò a camminare sopra un’ampia spianata deserta, dove nessuno avrebbe potuto vederlo. In quel momento, il primo fulmine squarciò il cielo e le gocce cominciarono a cadere fittissime sul mare e sulle spalle del ragazzo, il quale a quel punto  incassò la testa, e si lanciò su per una scalinata mezza dirupata che con un elegante semicerchio saliva verso il primo piano della villa. Il portone era sbarrato, ma Angelo aveva assolutamente bisogno di ripararsi.

«Meglio che mi sbrighi – pensò il ragazzo – altrimenti qui una bronchite è garantita.»

Salì sull’impalcatura arrugginita, si sporse di lato e si afferrò con l’agilità di una scimmia alla balaustra semicrollata di una finestra, issandosi finalmente all’interno della costruzione. Una volta dentro, Angelo si bloccò stupefatto: mai aveva visto una abitazione così enorme e talmente malmessa. Dimenticò il freddo e la circostanza di essere bagnato come un pulcino, e tirò fuori dalla tasca il suo cellulare. Google maps gli rivelò subito dove si trovava: Villa D’Elboeuf. Il solerte signor Sotutto gli spiegò subito dopo anche il significato di quelle parole.

Da Real Museo Borbonico – Antonio Niccolini  – 1831

Ma fu questo come un barlume del giorno che cominciò a spuntare il 1711, quando il Principe d’Elbeuf saputo che nello scavarsi un pozzo sopra Ercolano si erano rinvenuti alcuni frammenti di marmo ordinò che si continuasse quello scavo sotto la direzione dell’ architetto Giuseppe Stendardo, il quale discoprì un tempio rotondo periptero sostenuto esternamente da 24 colonne di alabastro fiorito, e giallo antico, e nell’interno della cella da altrettante colonne dello stesso marmo tutto ornato di statue, fra le quali una di Ercole, e l’altra creduta di Cleopatra, le quali statue furono dal Principe d’Elbeuf mandate in Vienna a presentarne il Principe Eugenio di Savoia.

E questi scavi con tanta felicità cominciati, furono interrotti, nè prima ripresi del 12 novembre 1738, per ordine del re Carlo III, che dallo stesso punto partiti da dove sotto il Principe d’Elbeuf eransi cominciati  incontraronsi nel teatro d’Ercolano, nel foro ed in tanti altri pubblici e privati edifizii. E dobbiamo al grande animo di quel Monarca, tanto alle belle arti magnifico, l’aver aperto sì luminosa strada ai suoi Augusti Successori onde mostrare al mondo in queste città dissotterrate il più bello copioso e rilevante spettacolo che vantar possa l’Archeologia.

Napoli era da poco passata sotto il dominio austriaco. La storia della villa risale al 1709, quando il principe Emanuele Maurizio di Lorena, Duca d’Elboeuf, Barone di Routot e di Quatremarre, generale della Cavalleria Austriaca, nonché nipote dell’Imperatore del Sacro Romano Impero Carlo VI, venne mandato dal potente zio a Napoli, come viceré della città.  Il principe decise subito di farsi costruire una regale dimora nel luogo che gli sembrava il più ameno del suo vicereame, e ne affidò il progetto al migliore architetto del momento: Ferdinando Sanfelice. La villa, quattromila metri coperti, sorse immersa nella vegetazione che fioriva rigogliosa in quel luogo, … tra il rosso splendente del magma del Vesuvio e l’azzurro rasserenante del cielo e del mare del più bel golfo del mondo. Gli spendidi giardini erano alimentati da un complesso acquedotto, che attingeva deviandolo, direttamente dal fiume Clanio, ormai scomparso a causa delle ripetute eruzioni vulcaniche. L’edificio di pianta rettangolare si sviluppava su tre piani, con una loggetta rivolta al Vesuvio e due terrazze sul mare a forma di ali, una rivolta a sud e una verso Napoli. Sulla facciata principale si aprivano due portali, cui si accedeva da una doppia scala ellittica con balaustra, in marmo e piperno. Il principe d’Elboeuf fece piantare essenze esotiche nel giardino della villa, e la abbellì  poi con numerosi manufatti recuperati da quelli che sarebbero diventati gli scavi di Ercolano. Nel 1742 dopo la cacciata degli austriaci, la villa venne acquisita dai Borbone che ne fecero una dependance della reggia di Portici, e la arricchirono con lussuose sale da pranzo, alcove, e vari saloni per le feste e i banchetti. Il giardino, già confinante, venne riunito con il bosco delle Delizie, la grande riserva di caccia del Palazzo Reale di Portici.

Nel 1813 Carolina Bonaparte fece costruire al piano inferiore della villa il Bagno della Regina, uno dei primi complessi balneari italiani: un emiciclo a due piani a picco sul golfo, dove godere con sufficiente privacy dei benefici del mare, senza dover esporre direttamente la pelle ai raggi del sole e abbronzarsi, cosa all’epoca ritenuta alquanto disdicevole e lasciata a contadini e pescatori.

C’est au prince D’Elbeuf qu’on doit les premières fouilles qui conduisirent à la découverte d’Herculanum. Ce prince faisait bâtir une maison de plaisance sur le bord de la mer, à Portici. Instruit que des habitans de Resine, en voulant creuser un puits leurs frais, avaient trouvé quelques fragmens de beaux marbres; le prince, qui en cherchait pour faire faire du stuc, ordonna qu’on creusât ce même puits jusqu’à fleur d’eau. A peine avait on fouillé le terrain latéralement, qu’on trouva quelques belles statues, et plus loin un grand nombre de colonnes, quelques unes d’albâtre fleuri, mais la plupart de jaune antique, appartenant à un temple. Naples était alors sous la domination autrichienne; le viceroi forma des prétentions sur les statues; elles furent envoyées à Vienne, et données au prince Eugène de Savoie: ceci se passait en 1711.

(Al principe D’Elbeuf dobbiamo i primi scavi che hanno portato alla scoperta di Ercolano. Questo principe stava costruendo una casa per suo piacere sul bordo del mare, a Portici. Avendo saputo che alcuni abitanti di Resina, volendo scavare un pozzo per i propri interessi, avevano trovato alcuni frammenti di bei marmi, il principe, che stava cercandone per fare lo stucco, ordinò di scavare fino a fior d’acqua. Dove il campo era stato scavato lateralmente vennero trovate delle belle statue, e inoltre un gran numero di colonne, alcune di alabastro fiorito, ma la maggior parte di color giallo antico, appartenente a un tempio. Napoli era all’epoca sotto il dominio austriaco; il viceré (D’Elboeuf) fece delle pretese sulle statue, che furono mandate a Vienna e date al principe Eugenio di Savoia: questo accadde nel 1711.)

Angelo sollevò gli occhi dalle schermo e si guardò intorno incuriosito: di quanto aveva appena letto non restava nessuna seppur minima traccia. Un  lato del palazzo era addirittura collassato su sé stesso, e al posto dei solai crollati sotto il peso dei secoli e dell’incuria, rimanevano solo alcuni mozziconi di muro, tra i quali il cielo in tempesta scaricava tutta la sua rabbia.

«Qui rischio di rompermi l’osso del collo.»

Mormorò tra sé il ragazzo, mentre un brivido di freddo gli percorreva la schiena. Si guardò intorno: al posto dei pavimenti c’erano solo calcinacci, ferraglia, polvere, cartacce e vecchie assi, poi spazzatura di ogni genere e vecchie siringhe. Su di un lato dello stanzone una trave del solaio era crollata, piantandosi in mezzo alla stanza.  Su un altro lato scorse un grande buco aperto in una parete, e si avvicinò speranzoso,  guardando bene a dove metteva i piedi. Era proprio quello che sembrava: un caminetto. Anche se erano sparite la cornice e tutto il resto, forse era rimasta almeno la canna fumaria. Angelo raccolse qualche giornale vecchio di almeno vent’anni e un po’ di pezzi di legno, e li mise nel focolare, poi infilò la testa dove avrebbe dovuto esserci il canale per il tiraggio del fumo, per controllare che non fosse otturato. Speranza vana, il foro di uscita non esisteva più, riempito da secoli di detriti. Però, osservando con la coda dell’occhio l’interno del caminetto, il ragazzo notò una cosa strana. Dal lato che guardava verso l’interno della stanza, i mattoni si erano scostati, lasciando intravedere un piccolo vano, che sembrava contenere qualcosa. Il ragazzo prese un legnetto dal mucchio che aveva preparato per il falò e tastò alla cieca, anche per evitare di mettere la mano in un nido di ragni o di topi, o anche di peggio. Al tatto sembrava qualcosa di rigido, forse una scatola. Magari aveva trovato un antico tesoro! Angelo non sentiva più freddo: aveva dimenticato la paura, e infilò decisamente la mano nel buco, toccando con le dita una piccola scatola di metallo. La estrasse con delicatezza e la portò vicino a una delle grandi finestre prive di infissi. Era una scatoletta finemente lavorata, forse d’argento, e allora già di per sé valeva qualcosa: la aprì pieno di speranza, ma subito la delusione lo fece sbuffare. Era una tabacchiera, e dentro era rimasto solo un pizzico di foglioline marroni finemente tritate, e troppo secche per venire usate.

«Sarà stato il tabacco del giovane D’Elboeuf. Magari anche i suoi genitori gli rompevano le scatole con la storia di non fumare, e così  lui il fumo se lo nascondeva nel camino.»

Ridacchiando tra sé Angelo annusò il contenuto della scatola: alla fine non sembrava ammuffito,  anzi aveva un profumo quasi gradevole.

«Le cartine ce l’ho, il tabacco pure… e chi è meglio di me?»

Si arrotolò una sigaretta. Il materiale era poco, ma quattro o cinque tirate sarebbe riuscito a farle, così si sarebbe riscaldato un poco almeno dentro, mentre provava ad accendere il fuoco. La prima boccata di fumo non gli diede alcuna soddisfazione: sapeva di erba secca, e le orecchie reagirono tintinnando dolcemente. Provò di nuovo, e stavolta sentì più distintamente il suono. Da qualche parte nel palazzo, qualcuno stava facendo della musica. Con un pianoforte e forse con dei tamburelli.

Un pianoforte in quelle macerie?

«Voglio proprio vedere chi è questo genio che viene a suonare qui dentro. Con questo tempo, poi.»

Angelo dimenticò il caminetto, e mosse due passi verso l’interno del palazzo, e intanto inalò una terza boccata di fumo, che ora gli sembrava veramente delizioso. Attraversò una porta all’apparenza  meno rovinata delle altre, e mise il piede su di un pavimento di mosaico tirato a lucido, che però sembrava identico a quelli che aveva visto alla gita scolastica negli scavi di Pompei.

Il Palagio del duca d’Elbeuf si estendeva tanto sulla spiaggia del mare, che i flutti venivano a lambire un lato dell’immensa scalinata che immetteva negli appartamenti. Oggidì osservasi ancora quella magnifica e grandiosa opera d’arte tutta cinta da colonnette arabesche, da piperigno a screzii, e da marmi preziosi, la maggior parte raccolti da scavamenti fatti nelle prossime località, i quali si resero celebri per quello che da essi derivò per fortuito incidente. Avea in quel tempo quella residenza l’aspetto di un maniero degno d’albergare un tanto elevato personaggio.

Le stanze erano alte e sfogate, i loggiati stupendamente magnifici, i vani amplissimi e le porte somiglianti a quelle dei castelli baronali. Le supellettili erano fastosissime e la copia dei marmi, delle statue, dei bronzi e delle armature era così profusa che non esistea in tutto il contorno in sulla spiaggia del Tirreno palagio principesco (ed eranvene parecchi) che con esso potesse in ricchezza e delizia e lusso rivaleggiare.

Diego Rapolla “Memorie Storiche di Portici“ – 1891

«Qui i vandali hanno dimenticato di spaccare tutto.»

Angelo tratteneva il fiato, sia per tenersi dentro quanto più possibile quella delizia, ma anche perché la meraviglia di quello che stava vedendo con i suoi occhi non gli permetteva di respirare. Il salone dove si trovava era in perfette condizioni: il pavimento era sicuramente un mosaico di quelli venuti alla luce negli scavi della città sepolta di Ercolano, ma perfettamente sistemato e tirato a cera da mani esperte. I fauni si rincorrevano in una danza sfrenata alzando coppe di vino, mentre un feroce felino aveva azzannato al collo una pernice disattenta. Di fronte, sopra un tavolo dalle gambe tornite e ricoperte d’oro, un bacco di bronzo danzava nudo e felice, ebbro di vino. Le pareti della sala erano finemente dipinte a stilizzati motivi floreali, e pesanti tendaggi ornavano le ampie finestre dalle cornici laccate e lucidate. Il fiato uscì improvvisamente dal petto del giovane, con un colpo di tosse. La musica di clavicembalo e violino si interruppe di colpo, e due donne sfarzosamente vestite con ampie gonne a sbuffo e con elaborate parrucche bianche lo osservarono irritate, poi però con un profondo inchino ricominciarono a suonare la loro melodia. Angelo, imbarazzatissimo, restituì l’inchino e loro risposero con un sorriso nervoso. Lui però aveva notato qualcosa di ancora più strano: nell’atto di inchinarsi si era guardato le scarpe. Non erano le snickers che aveva indossato uscendo di casa, ma delle calzature lucide, con una fibbia dorata. E poi aveva i calzettoni bianchi! Non li metteva più dall’ultima partita di calcio, fatta l’estate prima al campetto della scuola. La testa gli girava, si abbrancò a una statua di Venere a grandezza naturale, accarezzandone di sfuggita le forme perfette, poi si sedette su di un divano trapuntato di seta broccata. Alle narici gli giunse il profumo stuzzicante di carne arrostita: da qualche parte nel palazzo stavano facendo un barbecue. «Ottima idea«, pensò Angelo, visto che ad occhio e croce ormai il mezzogiorno si stava avvicinando. Lui era a digiuno dalle otto di mattina e aveva tutte le intenzioni di tornare a casa per pranzo, ma prima di andarsene sarebbe andato a vedere, magari ci usciva un panino. Con un altro inchino salutò le suonatrici. Tra l’altro la più giovane aveva un bel sorriso, e gli rispose con un gentile cenno  del capo. Angelo si guardò intorno: il profumo veniva dal lato dove i solai erano crollati. Titubante, tornò sui suoi passi e affacciandosi alla porta che ben ricordava essere completamente distrutta e scardinata e invece ora era perfettamente a posto e arabescata d’oro, spalancò la bocca per la meraviglia. Le mura adesso erano perfette e tappezzate con preziosi parati di seta, e così anche i soffitti affrescati con scene mitologiche, mentre i pavimenti erano di marmi policromi e lucidati a specchio. La stanza era decorata da enormi arazzi con scene di caccia, e vigilata da armigeri medioevali completi di spadoni, mazze e scudi. Un tavolo di mogano e oro stazionava sotto un enorme ed elaborato lampadario di Murano, e intorno al tavolo un gruppo di eleganti gentiluomini discuteva tra loro indicando uno strumento al centro della loro attenzione. Il ragazzo si bloccò, interdetto sia dalla presenza di altre persone che dal lusso sfrenato degli ambienti. Per il terrore il cuore gli batteva all’impazzata nel petto. Angelo sperò che nessuno lo avesse notato, e fece per voltarsi e tornare indietro, invece una voce perentoria lo bloccò:

«Garçon! Viens ici, s’il vous plait

Angelo non parlava francese, ma aveva capito benissimo che ce l’avevano con lui. Si avvicinò al gruppo di elegantoni in abiti d’argento e broccato, e si esibì in un altro imbarazzatissimo inchino.

«Giovane nobiluomo, tu che sembri uno studente, sapresti per caso mostrarci il funzionamento di questo apparecchio misterioso, appena giunto a noi dalle nobili province lombarde?»

Anche ora se si era espresso in italiano perfetto, il tono dell’interlocutore era di leggera presa in giro, ma Angelo aveva immediatamente riconosciuto lo strumento. Si trattava nient’altro che di una rudimentale pila di Volta, che il giovane aveva costruito due anni prima alle medie, durante il corso di tecnologia.

Quella era la sua materia preferita. Senza una parola, aggiunse le soluzioni di acido che erano state ignorate dagli astanti, poi prese gli elettrodi e li appoggiò alle zampette di una ranocchia che giaceva morta su un vassoio. Il flusso di energia elettrica attraversò i tessuti dell’animale, stimolandone i muscoli e facendole compiere un balzo.

« È un miracolo!»

Gli astanti lo applaudirono come se fosse stato lui a inventare la corrente elettrica, complimentandosi per la sua sapienza. Angelo avrebbe voluto divincolarsi e fuggire via, ma quelli lo circondarono, trascinandolo poi verso l’uomo che lo aveva chiamato poco prima. Il ragazzo era sconvolto e spaventato dal sogno che stava vivendo, ma gli era impossibile sottrarsi all’attenzione di quella gente.

«Sembra che lei sia un vero genio, signore.»

Lo apostrofò quello che sembrava il padrone di casa, un uomo con una grande parrucca grigia piena di boccoli, dal mento pronunciato, e vestito più riccamente degli altri. Era seduto su una sedia assurdamente lavorata, che sembrava quasi un trono. Ridacchiando tra sé, e ammiccando verso i suoi ospiti, l’uomo abbassò la voce e chiese:

«Sa per caso anche dirmi, sapiente giovane, che cosa farà quel moccioso di Carlos Sebastián de Borbón y Farnesio? Sembra che voglia sottrarre questo bel reame alla nostra amata patria asburgica!»

Un altro uomo si abbassò a parlare in un orecchio ad Angelo.

«Stia attento a come parla, monsieur: quello è il vicerè d’Austria!»

Angelo, che già da un po’ di tempo stava pentendosi amaramente di aver marinato la scuola, si morse un labbro. Non sapeva nemmeno di cosa stesse parlando quella gente, ma gli venne un’idea: si frugò in tasca in cerca dello smartphone. Afferrò l’oggetto, lo tirò fuori , lo osservò per un attimo, e quasi gli schizzarono gli occhi dalle orbite: aveva in mano una scatoletta di legno con delle palline.

«A cosa le serve l’abaco, monsieur? Il principe le ha solo chiesto una notizia, non dei calcoli!»

Maledizione, pensò il ragazzo, poi si avvicinò a sua volta all’orecchio dell’uomo che gli aveva parlato.

«Mi scusi, ma in che anno siamo?»

L’altro dovette pensare che i geni sono sempre un po’ eccentrici, ma rispose con sussiego.

«Nell’anno del signore 1733, naturalmente!»

Angelo infilò la mano nel tascapane che portava appeso al fianco, pregando Dio che il testo di storia non si fosse trasformato in una tavoletta d’argilla, ma per fortuna i libri sono fedeli a sé stessi e restano sempre libri, e il suo libro di storia era rimasto identico a quando lo aveva abbandonato la sera prima.

«Allora vediamo… 1733… Ecco qui. Mhmm…»

Chiuse il libro e recitò ad alta voce.

«Nel 1734, la guerra di successione polacca impegnò gli Asburgo su quel versante dell’Europa. Carlo di Borbone si diresse allora verso il regno di Napoli per la riconquista della città: dopo aver sconfitto gli austriaci nella battaglia di Bitonto, il 10 maggio 1734 entrò trionfante a Napoli da porta Capuana, e si ingraziò non solo la popolazione lanciandogli denaro, ma anche le autorità ecclesiastiche, depositando a tale scopo nella Cappella del Tesoro di San Gennaro, un prezioso gioiello di diamanti e smeraldi.»

Il capannello di persone emise un boato di sdegno, e quello che tutti chiamavano Principe arrossì violentemente, saltò giù dalla sedia e prese Angelo sotto braccio, trascinandolo verso una finestra.

«Garçon, sei assolutamente certo di quello che dici? Nessuno, tranne pochissimi fedeli tra cui vi sono io, sa che l’imperatore d’Austria sta preparando la guerra alla Polonia! E assolutamente nessuno conosce le intenzioni di quell’usurpatore del Borbone!  Se è vero quello che dici devo prepararmi a togliere le tende al più presto…»

«Sì, signore, lo giuro sulla testa dei miei genitori!»

Ad Angelo a quel punto però, venne lo spaventoso dubbio di aver riposto un’eccessiva fiducia nel suo libro. Tentò di allontanarsi, ma il principe lo afferrò di nuovo per un braccio. Il nobiluomo si frugò a sua volta nelle tasche e dopo un po’ ne trasse una pietra rossiccia grossa come una nocciola, e la piazzò tra le mani tremanti del malcapitato giovane.

«Questo rubino arriva direttamente dal teatro di Ercolano: forse era il gioiello di qualche nobildonna romana. Tienilo come acconto per i tuoi servigi, e resta qui vicino a me: saprò ricompensarti in modo più che generoso per le tue rivelazioni.»

Angelo osservò la pietra: gli sembrava uno di quei vetri consumati dal mare che si trovano a volte sulle spiagge d’estate. Ringraziò il principe con un inchino, ficcò la pietra nella scatola del tabacco e poi nella tasca dei pantaloni, quindi si diresse verso il profumo del cibo, sotto lo sguardo attento e vagamente sospettoso di Maurizio D’Elboeuf. La sala da pranzo era illuminata da grandi lampadari di cristallo, e una lunga tavola era imbandita con ogni ben di Dio. Zuppiere fumanti, alzate d’argento cariche di carni e pesci, vassoi di verdure di ogni tipo e colore. Camerieri in alta uniforme trasportavano piatti da e verso una cucina invisibile ma non troppo lontana, e un cuoco con un grande cappello bianco affettava un maiale intero arrostito, magnificando la pietanza che aveva appena inventato:

«Avanti signori, provate la delizia di questa salsa: il Capsicum è arrivato dalle lontane Americhe! La salsa Axì è rossa come il fuoco, e infiammerà i vostri lombi e i vostri cuori… Prego signore, ne assaggi una lacrima, ma tenga il bicchiere a portata di mano… Brucia molto più del pepe di nero delle indie!»

Angelo, incuriosito si avvicinò: dai piccoli semi che spuntavano dalla salsa, riconobbe il peperoncino: di sicuro qualcuno dei gioiosi e ignari commensali avrebbe avuto una bruciante sorpresa! Ne prese una punta di cucchiaino e si allontanò sogghignando. La carne arrostita, con una punta di piccante, gli sembrò la cosa più deliziosa che avesse mai assaggiato, e anche il vino del principe non era da meno. Angelo si servì a sazietà, come d’altra parte tutti gli altri ospiti del banchetto, accompagnati durante il pasto dal suono dei clavicembali. Lui però, diversamente dagli altri, non era abituato a bere: appena si fu alzato da tavola ebbe un giramento di testa e fu costretto a sedersi  su uno di  dei divani di broccato del salone. L’ultima cosa che vide prima di addormentarsi fu la statua a grandezza naturale, di una matrona avvolta in una ricca toga pieghettata, poi l’oblio lo avvolse.

I frati Alcantariti avevano ordinato di scavare un pozzo nel proprio giardino e nello scavo era stato trovato un edificio di marmo. Di questo ritrovamento venne a conoscenza il duca d’Elboeuf, proprietario della villa d’Elboeuf a Portici, che continuò l’esplorazione asportando statue, marmi di rivestimento, colonne, iscrizioni e bronzi, che vennero raccolti appunto in quella che era la Reggia di Portici.. Il Principe d’Elboeuf acquistò il pozzo con il terreno e per circa nove mesi intraprese una personale campagna di scavo attraverso cunicoli. E tutto a proprie spese.

Quanto siano stati dannosi questi scavi e quale depauperamento abbiano arrecato al patrimonio archeologico, ognuno può ben immaginare. Il principe aveva individuato in questo paese straniero, per lui di conquista, il punto esatto della “miniera” dalla quale poter estrarre la preziosa merce. E di merce di scambio si trattava. Molte delle opere d’arte partite da Resina presero la strada dell’oltralpe e precisamente di Vienna, direttamente a casa del cugino Eugenio di Savoia. Le prime a partire furono tre statue in marmo, la Grande Ercolanese e le due Piccole Ercolanesi, oggi custodite nel museo di Dresda. Morto Eugenio di Savoia il 21 aprile 1736, le tre statue vennero trasportate presso la corte di Augusto III di Sassonia, re di Polonia e padre di Maria Amalia, che era la moglie di Carlo III di Borbone.

Driiin, driin! Il trillo del cellulare risvegliò Angelo dal suo sonno profondo. A tentoni, cercò il telefono nelle tasche del giubbotto, e finalmente lo recuperò.

«Pronto mamma.»

«Ma che fine hai fatto? Perché non rispondevi? Ero preoccupatissima!»

«Non so, non c’è mai linea a scuola, lo sai.»

«La scuola è finita da un sacco di tempo! Perché non sei venuto a mangiare?»

Angelo guardò il display del cellulare: le 16,45.

«Mamma mi sono fermato a studiare storia, adesso torno a casa… »

Si guardò intorno stranito: il palazzo era tornato a essere una rovina cadente. Impiegò un po’ di tempo per alzarsi, sentendosi un po’ debole sulle gambe, poi guardò fuori  dalla finestra: il buio stava calando sul golfo ma aveva smesso di piovere, e una rosea luce soffusa illuminava la costa.

«Domani sarà una bella giornata… Speriamo.»

Tornato a casa, Angelo si rannicchiò sul suo lettino e prese a sfogliare il libro di storia: improvvisamente i fatti raccontati in quel volume che aveva sempre odiato, gli sembravano quasi un romanzo. Meravigliosamente interessante. Le guerre, i regnanti, le rivoluzioni, gli apparivano adesso come fatti reali. Al giovane, mentre sfogliava quelle pagine sgualcite sembrava quasi di sentire la puzza della polvere da sparo e il rombo dei cannoni. Quando la madre lo chiamò per la cena, lui rispose che non aveva fame: quello che stava leggendo gli interessava troppo, e poi aveva ancora lo stomaco pieno dell’ottima carne del principe D’Elboeuf.

La signora Pina si affacciò alla porta della stanza e lo guardò preoccupata: mai in vita sua Angelo aveva rifiutato la cena, e mai, mai in assoluto, era rimasto a studiare più di un’ora, anche se minacciato di tremende ritorsioni.

«Dovrò parlare con il medico, questo non sta bene. Magari anche con i professori, si dovesse ammalare, a stare tutto quel tempo sui libri…»

Non ci fu verso. Angelo studiò fino a notte tarda, ma la mattina dopo era già sveglio di buon’ora, vestito e pronto per l’interrogazione. Prima di uscire, ricordò il mattino precedente, e la voglia di caffè. Si frugò nelle tasche, e come al solito tra le dita si fermarono i due eterni euro del giorno prima. Ma non solo quelli.

«Ciao mamma, io vado… Mi molleresti un paio di euro, eddai! Ah, ieri ho trovato questa cosa lungo la strada: tieni te la regalo, forse vale qualcosa.»

La signora Pina era di buon cuore, e lo scambio avvenne in un lampo.

«Non fare tardi come solito!»

Angelo uscì con un bacio, e lei restò in piedi in cucina a guardarsi la mano. Suo figlio le aveva messo in mano una vecchia tabacchiera d’argento massiccio del settecento, con dentro un rubino grezzo da cinque carati.

 

Lo scrittore Lucio Sandon è nato a Padova nel 1956. Trasferitosi a Napoli da bambino, si è laureato in Medicina Veterinaria alla Federico II, aprendo poi una sua clinica per piccoli animali alle falde del Vesuvio. Appassionato di botanica, dipinge,  produce olio d’oliva e vino, per uso famigliare. Il suo ultimo romanzo è “La Macchina Anatomica”, un thriller ambientato a Portici. Ha già pubblicato il romanzo “Il Trentottesimo Elefante”; due raccolte di racconti con protagonisti cani e gatti: “Animal Garden” e “Vesuvio Felix”, e una raccolta di racconti comici: “Il Libro del Bestiario”. Il racconto “Cuore di figlio”, tratto dal romanzo “Cuore di ragno”, in prossima uscita, ha ottenuto il riconoscimento della Giuria intitolato a “Marcello Ilardi” al Premio Nazionale di Narrativa Velletri Libris 2019. Il romanzo “Cuore di ragno” è risultato vincitore ex-aequo al Premio Nazionale Letterario Città di Grosseto Cuori sui generis” 2019.

 

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