Il Racconto, Il viaggio di Amilcare
“Il viaggio di Amilcare” è tratto da un libro di prossima pubblicazione dell’autore incentrato sulla spedizione cartaginese
di Lucio Sandon
Questo viaggio sta cominciando a diventare un po’ noioso, e non mi piace più come prima. Da ormai da troppo tempo ce ne stiamo rinchiusi in questo palazzo di Nuova Cartagine. Sarà anche bello guardare il panorama di una baia sul mare riparata da tutti i venti, ma da quando siamo arrivati qui non sono mai potuto scendere alla spiaggia per fare il bagno, perché sembra che sia troppo pericoloso.
Mia madre mi ha detto che la città è piena di spie dei Romani, di quelle del senato di Cartagine e perfino dei sacerdoti di Tanit.
Io non capisco proprio cos’ha da spiare tutta questa gente.
E poi un giorno, senza nessun avvertimento, l’esercito si è messo in movimento ed è ripartito di colpo. Quel giorno è capitata una cosa strana: la mia mamma non è venuta assieme a noi ma è dovuta rimanere chiusa e bloccata dentro al palazzo di Nuova Cartagine.
Lei, e il cugino Mafthabale. Mio cugino in questi mesi è diventato simile a me.
Un’altra cosa ancor più strana è stata che quando siamo andati via con l’esercito, per farmi uscire dalla città mi hanno fatto nascondere in una botte di vino vuota. Mi hanno detto che era uno scherzo, però non ho capito a chi dovevamo farlo, questo scherzo. Io non ho detto niente per non offendere nessuno, ma mi sembrava uno scherzo abbastanza stupido. Io comunque come ho già detto non mi diverto più come prima, e poi mi mancano gli abbracci e le carezze di mia madre. Quando ci siamo salutati lei mi ha stretto come se volesse spezzarmi, e mi ha riempito di baci e di lacrime.
Mi manca persino il mio nuovo cugino Mafthabale.
Alla fine dopo averlo conosciuto bene ho capito non era poi così antipatico, e insieme ci divertivamo parecchio. Prima di partire gli ho raccomandato di vegliare sulla mia mamma, ma quando gliel’ho detto lui si è messo di nuovo a piangere.
Qui piangono tutti. Quasi quasi, veniva da a piangere anche a me. Figuriamoci, il prossimo stratega di Cartagine, che piange come una bambina.
Quando hanno finito di frignare, siamo partiti.
«Stai tranquillo che viaggerai bene dentro alla botte. E poi è solo per poco tempo. Vedrai, sarà divertente.»
Ma io proprio tranquillo non ero: mentre mi sballottavano da una parte all’altra, mi sono ricordato di tutte quelle storie che si raccontano a Cartagine sul console romano, Attilio Regolo, che dentro ad una botte all’epoca, ci ha lasciato le penne.
Comunque, dopo mezza giornata di viaggio mi hanno tirato fuori dalla botte, più morto che vivo per la puzza di vino e il caldo che faceva all’interno, e mi hanno anche impedito di tuffarmi nel fiume che l’esercito stava attraversando.
Mio padre ha detto che aveva paura che mi vedessero le spie dei Galli. Tutti spiano, in questo posto.
Io a mio padre proprio non lo capisco più, lui che ha combattuto contro i Romani ha paura persino di qualche gallo.
Mah, chissà se domani avrà paura anche delle galline.
Dopo aver superato il fiume, abbiamo cominciato a salire su per delle montagne altissime: abbiamo camminato in salita per giorni e giorni, e ogni giorno faceva sempre più freddo e mi si congelavano i piedi e le mani. Poi a un certo punto ha cominciato a venire giù dal cielo della polvere bianca e morbida che faceva scivolare i soldati, i cavalli e specialmente gli elefanti. Zio Magone mi ha detto che si chiama neve.
Gli elefanti sono morti quasi tutti, sopra quelle maledette montagne, qualcuno è scivolato giù per i burroni, qualcun altro è morto congelato per il freddo.
Per poco non sono morto congelato anch’io.
Per fortuna mio padre mi aveva portato delle pelli di orso per coprirmi, e Uruk ogni sera è venuto a dormire al mio fianco. Probabilmente anche a lui piaceva stare al calduccio sotto la pelle di orso, e anche a me piaceva molto sebbene puzzasse un poco. Ho idea che il mio amico sia più freddoloso di me.
Dopo moltissimi giorni di viaggio nella neve, finalmente abbiamo cominciato a discendere giù dalle montagne.
All’inizio c’era il sole a riscaldarci, ma quando siamo arrivati nella pianura, il sole non c’era più. Era tutto coperto di fumo, un fumo strano, freddo, che non puzza tanto come il fumo ma solo un po’, come la muffa, però ti entra nei polmoni e non ti fa respirare, e poi ti entra anche nelle ossa e ti fa rabbrividire.
Questo fumo strano copre tutta la pianura e non si dirada mai. Forse sarà anche velenoso, perché molti dei soldati si sono ammalati di strane febbri, e anche gli ultimi elefanti che erano riusciti a sopravvivere alla neve, sono morti uno dopo l’altro.
L’unico che non sembra avere problemi è il mio amico Sirius, che mi prende con la proboscide e mi abbraccia senza farmi male.
Da sopra la sua schiena il fumo è meno fitto, e si riesce a vedere fino a una decina di metri di distanza.
Nella zona fumosa abbiamo incontrato i soldati romani che volevano farci la guerra ma mio padre li ha sconfitti e ne ha fatti molti prigionieri. Questi Romani sono molto ricchi: alcuni hanno addirittura delle corazze d’oro massiccio che mio padre, dopo averli ammazzati, gliele toglie e le fa fondere.
Gli operai poi ne ricavano dei mattoni d’oro pesantissimi, che poi vanno a finire in dei grossi bauli assieme alle pietre preziose che i romani abbandonano nei templi, prima di scappare. Le pietre sono molto belle, brillanti e colorate. Mio zio Magone dice che valgono ancora più dell’oro, ma sinceramente a me non dicono proprio niente. Preferirei invece qualcosa di buono da mangiare: mi mancano moltissimo i pesci, le conchiglie e i granchi che andavo a pescare sugli scogli vicino al porto della mia città.
Per fortuna mio zio ha tirato fuori la ricetta di quella sua salsa che ha inventato quando era governatore delle Isole Baleari, quella fatta mescolando le uova, l’olio e i limoni. Ormai tutti la chiamano la “salsa Magonese” e fa diventare più buoni tutti i cibi che mangiamo.
A me, fa ricordare il sole di Cartagine, così sono meno triste.
Purtroppo dopo qualche giorno in cui sembrava che tutto andasse bene è morto anche Sirius. La povera bestia non ha resistito a questo tempo freddo e umido. Mi ha lasciato salutandomi con un ultimo barrito, appena dopo la battaglia sul lago Trasimeno.
La stella più luminosa del Cane Maggiore, il mio amico più buono, adesso dorme sepolto ai piedi di una montagna, in questo paese dove quando non si muore per il freddo, si può morire per un fumoso maleficio degli dei romani.
Mio padre mi ha detto che Sirius l’ha ucciso la puntura di una zanzara: a me questa sembra proprio una cosa impossibile, ma lui sa tutto, e se lo dice lui potrebbe essere vero.
Anche lui non sta tanto bene. Da diverso tempo porta sempre una benda sul suo occhio destro che gli lacrima tanto, e certe volte gli provoca dei mal di testa terribili, così potenti che è costretto a stare un giorno intero a riposare nella tenda, e non può parlare con nessuno, nemmeno con me.
Povero papà, mi dispiace tanto che stia così male, vorrei poter fare qualcosa per aiutarlo.
Adesso siamo anche rimasti senza elefanti, e le ceste piene di oro, di pietre preziose, e di gioielli sono diventate sempre più numerose e sempre più grandi e pesanti.
Zio Magone dice che con tutte queste ricchezze potremo pagare il debito dovuto al senato di Cartagine, arruolare moltissimi soldati e comprare molti altri elefanti per conquistare Roma. In questo modo, dice lui, potremo dare quanto promesso al tempio della dea Tanit, ed essere ancora ricchissimi.
In effetti io avevo l’impressione che fossimo già abbastanza ricchi prima di partire per questo viaggio. Sì è vero, solo sono un ragazzo, ma mi sembrava che prima di imbarcarci in questa avventura, vivessimo molto più sereni e tranquilli, nella nostra bella Cartagine.
Nemmeno la morte di Sirius ha fermato l’esercito di Cartagine: il nostro viaggio è continuato senza sosta verso il sud di questa terra cosi strana.
Abbiamo attraversato altre montagne, più basse e senza neve, dove ci sono tantissime mucche e boschi infiniti pieni di strane piante che fanno frutti selvaggi e pieni di spine, che sono buoni da mangiare, e sono dolci più del pane.
Abbiamo attraversato valli e pianure dove la gente viveva in pace, e gli abbiamo distrutto le case e rubato tutto, poi siamo arrivati di nuovo sul mare, ma questo è un mare molto diverso da quello della mia città. È verde questo mare, invece che blu scuro come quello che sta di fronte a Cartagine. Qui ci si può camminare dentro senza paura, perché le acque sono molto calde e non ci si affonda mai. Molti fiumi arrivano dalle montagne e si versano in mare senza mai riuscire a riempirlo. I fiumi di questo posto scorrono molto lenti, non sono pericolosi, e si può attraversarli con i cavalli e i carri usando delle grandi zattere di legno che vengono tirate da una riva all’altra con delle corde e dei cavalli.
I soldati romani ci seguono sempre per minacciarci, anche se li abbiamo battuti tante volte. Loro cercano di farci paura ma l’esercito cartaginese è troppo forte, e mio padre è troppo bravo per quei poveri stupidi. Loro cercano sempre di tendergli dei tranelli o di fare delle imboscate, ma papà è sempre un passo davanti a loro: sembra quasi che qualcuno gli parli in segreto e gli dica in anticipo quello che faranno i nostri nemici.
Alla fine, dopo tante lune, siamo arrivati fino sui colli che circondano Roma. Zio Magone dice che Roma è la capitale di un impero.
Io sinceramente non sono riuscito a vedere niente, da lontano non sembra una città così terribile. Fanno molto più impressione le mura di Cartagine, con il porto fortificato, e chiuso da enormi porte girevoli.
Comunque, abbiamo avuto pietà di loro, o così mi sembra di avere capito, infatti mio padre ha dato ordine all’esercito di girare intorno alla periferia di Roma e di non distruggerla.
Abbiamo proseguito per qualche giorno ancora verso sud, e alla fine siamo arrivati ad un’altra città molto grande, cinta da mura massicce e piena di soldati. Si chiama Capua.
Capua si è ribellata a Roma e si è alleata con noi Cartaginesi. Penso che qui rimarremo un bel po’ di tempo, perché il campo della truppa stavolta lo stanno sistemando veramente a regola d’arte.
Mi piace questo posto.
Mi mancano Sirius e la mia mamma, ma questo mi sembra di averlo già detto. Anche il mio papà mi dice di pensare sempre alla mamma, ma non so se dice proprio la verità, perché da quando siamo tornati a Capua dalle montagne vicine, insieme a lui c’è sempre Marika.
Lei è simpatica, ha quasi diciotto anni e viene da un paese che si chiama Aquilonia, anzi che si chiamava Aquilonia perché lei mi ha detto che un generale romano, tanti anni fa ha distrutto tutta la cittadina, che era anche la capitale del loro popolo, così i suoi bisnonni sono dovuti scappare nei boschi. Dopo hanno ricostruito le loro case, ma non si sono mai ripresi del tutto.
Marika mi piace: ha gli occhi di uno strano colore e quando sorride le si illuminano, come delle candele accese. Lei non è come tutte le ragazzine smorfiose che vanno in giro per il nostro accampamento, quando mi sorride mi accorgo che non lo fa per prendermi in giro. Ha dei bei capelli lunghi, con delle treccine avvolte in fili d’oro e il suo modo di parlare è molto dolce, e a volte mi fa anche una carezza e sembra che voglia dirmi qualcosa.
Chissà, forse anche a lei manca la sua mamma, proprio come a me.
Sono ormai passati oltre tre anni da quando siamo andati via da Nuova Cartagine e da quel giorno non ho più udito la voce di mia madre, la dolce Himilke, né ho più provato il calore del suo abbraccio. Vorrei essere un uccello del cielo, per volare in un attimo in braccio a lei.
Per tutto il resto, si sta discretamente. A Capua sembra sempre festa: si mangia e si ascolta la musica per tutto il giorno. I miei zii e mio padre hanno scoperto un tipo di vino che sembra piacergli alquanto, lo chiamano Falerno ed è rosso come il sangue, ma a noi ragazzi piace molto di più l’acqua delle sorgenti che sgorgano formando dei laghetti, sotto al monte Tifata che sta proprio sopra Capua.
L’acqua di queste sorgenti è freddissima e piena di bollicine e ha un sapore squisito. Quando mi ci tuffo dentro, le bollicine mi accarezzano la pelle, come se mi facessero il solletico.
Mio zio Magone dice sottovoce, che se fosse per lui, non se ne andrebbe più da lì, invece molto spesso non lo vedo più in giro: scompare per giorni interi sotto alla sua tenda, insieme con le sue nuove amiche.
Le ragazze di Capua sono proprio antipaticissime, credono tutte di essere molto belle, e guardano i ragazzi e i soldati, ridacchiando come delle stupide, o come se volessero prenderti in giro.
Non so proprio cosa ci trovino i miei zii e mio padre.
Capua è una città molto grande, quasi come Cartagine, ma a differenza della nostra città, è stata costruita un po’ lontano dal mare e sull’ansa di un fiume molto profondo e rapido, dove si possono pescare pesci buoni da mangiare semplicemente usando un filo di canapa, oppure con una rete appesa ad un lungo palo.
Il mare è a poche leghe di distanza, e le navi possono arrivare fin qui risalendo il fiume, ma i nemici non possono farlo perché verrebbero subito avvistati dalle sentinelle che ci sono lungo il suo corso.
A Capua c’è anche un grandissimo circo di pietra per i giochi, dove si fanno le gare con i cavalli ed i carri, e anche i combattimenti dei gladiatori. In questa città mi ci sono divertito moltissimo, l’unica cosa che mi dà fastidio sono tutte queste ragazze, che continuamente vanno e vengono liberamente su e giù per il nostro accampamento.
Ce n’è una specialmente. Una con i capelli di uno strano colore rossiccio e gli occhi di un colore quasi viola, che mi guarda sempre sorridendo, e ogni volta mi sembra che voglia dirmi qualcosa, ma io quando la vedo da lontano me ne scappo via a gambe levate.
Anche Uruk, il cane di mio padre si è trovato benissimo: si è accoppiato con molte femmine di questi cani da combattimento allevati dai Romani, loro li chiamano “Pugnaces Britanniae”.
Uruk ha seminato in giro un sacco di cuccioli, neri come lui, o grigi o anche striati, che sono bellissimi, ma secondo me dopo diventano un po’ troppo grossi e feroci.
Zio Magone mi ha detto in segreto che presto dovremo lasciare Capua e andare verso un posto dall’altra parte delle montagne, dove ci sarà una grande battaglia contro i romani. Ha detto che chi vincerà questa battaglia dopo si prenderà tutta l’Italia.
Questa notizia della partenza non mi e dispiaciuta tanto, io ho voglia di girare ancora il mondo, e non mi piace stare troppo tempo nello stesso posto. Da quando siamo partiti da Capua poi, sono successe un sacco di cose divertenti. Lo sapevo che era meglio andarsene da quella città.
Dopo pochi giorni dalla partenza, mio padre ha fatto uno scherzo bellissimo ai Romani: usando delle pecore e dei bufali con delle fascine incendiate sulla testa ha fatto credere a quei cretini che un esercito di diavoli li stesse attaccando di notte, così li ha sconfitti quasi senza combattere, solo usando la fantasia e un po’ di legna.
Poi siamo arrivati di nuovo sul mare, al di là dei monti, e lì è arrivata una sorpresa meravigliosa: un elefante enorme, mandato in regalo a Cartagine da parte del re dell’Epiro. Mio padre subito mi ha regalato il nuovo elefante che è arrivato dal mare con la nave che stava per affondare.
Lui si chiama Taunus, ed è un elefante molto grosso e sembra feroce, e invece è anche più buono di Sirius, ma forse è perché lui non ha mai fatto la guerra e non è mai stato ferito. Taunus mi fa salire sul suo collo proprio come faceva Sirius, e mi porta a passeggio sulla spiaggia di questo mare, che è verde come i prati delle montagne.
Taunus mi riconosce da lontano, e appena mi vede fa sempre delle urla fortissime con la proboscide alzata e mi corre incontro, poi si inginocchia vicino a me e mi aiuta salirgli in groppa.
Taunus mi vuole bene, anche io gliene voglio: giochiamo sempre insieme e ci divertiamo moltissimo.
Con l’esercito siamo rimasti per un bel po’ di tempo in un paese che alla fine non è altro che una fortezza costruita sull’alto di una collina: si chiama Gerionum e quando siamo scesi nei sotterranei del castello per vedere se c’era rimasto qualcosa da mangiare abbiamo trovato un’altra bella sorpresa. Le cantine erano enormi e sotto alle cantine c’erano delle grotte: erano tutte piene fino al soffitto di grano e vino. Si poteva fare il pane e le focacce, così i soldati hanno organizzato una grande festa e si sono ubriacati tutti.
Si è divertito un sacco anche Taunus, che ha fatto una scorpacciata di pane fresco e ha bevuto anche un po’ di vino: l’ho assaggiato anch’io era dolce, rosso scuro. Buono!
Per arrivare fin qui abbiamo attraversato molte montagne, però queste non sono tanto alte, e ci sono dei fiumi che scorrono in fondo alle valli, in questo modo quando ti trovi in montagna basta seguire il fiume per arrivare fino al mare. E così è tutto molto più semplice.
Adesso abbiamo un sacco di prigionieri romani e talmente tanto oro e pietre preziose, che mio padre ha dovuto mettere cinque esperti a catalogarle: le pietre più piccole e l’oro meno puro vanno nel tesoro destinato al senato di Cartagine. Le pietre migliori e l’oro zecchino invece vengono messi da parte per il tempio di Tanit, e conservati in due bauli, sotto la custodia della guardia sacra, e poi trasportati da Taunus.
I sacerdoti di Tanit che viaggiano con noi hanno preteso di dedicare questa città di Gerionum alla loro dea, che è anche la divinità della luna. Mio padre ha acconsentito e così quei due vecchi matti hanno chiesto tre prigionieri (ne volevano di più ma mio padre si è arrabbiato molto e non ha voluto sentire ragioni). Dunque hanno preso questi poveri disgraziati che piangevano e chiedevano pietà, e li hanno sacrificati alla dea, tagliando loro la gola su un altare che avevano fatto costruire apposta, con su scalpellato quel loro simbolo strano. Io non ho guardato e sono scappato lontano, in groppa a Taunus. Se fosse stato per me, io li avrei fatti sacrificare fra di loro.
Non so perché ma quei due sacerdoti mi stanno antipatici, e sono sicuro che il mio sentimento è abbondantemente ricambiato: quando mi incontrano da solo mi guardano in un modo che mi mette i brividi.
Ora stiamo viaggiando verso sud, di nuovo sulla riva del mare, come quando marciavamo sulla riva di Cartagine, e ora anche il paesaggio è simile a quello del mio Paese, anzi mi sembra che qui faccia ancora più caldo che in Africa.
Zio Magone mi ha detto che i Romani si stanno avvicinando con un esercito mai visto al mondo, e che hanno tutte le intenzioni di farci fuori dal primo all’ultimo, ma che mio padre ha già pensato a combatterli.
Deve solamente trovare il posto giusto dove dare battaglia.
Lo scrittore Lucio Sandon è nato a Padova nel 1956. Trasferitosi a Napoli da bambino, si è laureato in Medicina Veterinaria alla Federico II, aprendo poi una sua clinica per piccoli animali alle falde del Vesuvio. Appassionato di botanica, dipinge, produce olio d’oliva e vino, per uso famigliare. Il suo ultimo romanzo è “La Macchina Anatomica”, un thriller ambientato a Portici, vincitore di “Viaggio Libero” 2019. Ha già pubblicato il romanzo “Il Trentottesimo Elefante”; due raccolte di racconti con protagonisti cani e gatti: “Animal Garden” e “Vesuvio Felix”, e una raccolta di racconti comici: “Il Libro del Bestiario”. Il racconto “Cuore di figlio”, tratto dal romanzo “Cuore di ragno”, in prossima uscita, ha ottenuto il riconoscimento della Giuria intitolato a “Marcello Ilardi” al Premio Nazionale di Narrativa Velletri Libris 2019. Il romanzo “Cuore di ragno” è risultato vincitore ex-aequo al Premio Nazionale Letterario Città di Grosseto “Cuori sui generis” 2019.
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