Il Racconto, Il mese dei morti
di Lucio Sandon
Portici ha quattro strade: una che va dal porto verso la montagna, una che fa il percorso inverso e le altre due le intersecano. Fino al 1948 le strade principali erano solo tre…
La storia di Palazzo Capuano comincia tra il 1200 e il 1225, quando venne fatto erigere dalla nobile famiglia napoletana Galeota, da cui passò ai principi Stigliano Colonna, poi ai nobili genovesi Mari. Originariamente l’imponente palazzo si estendeva con una facciata lunga centinaia di metri, fino a una masseria che costituiva il confine dell’antica Portici. Nel periodo di maggiore splendore il palazzo era famoso sia per gli splendidi soffitti affrescati da Belisario Corenzio, sia per la massiccia torre situata al centro della costruzione. Altro pregio era la presenza di abbondante acqua perenne: infatti attraverso canali sotterranei l’acqua proveniente dal fiume Dragone si distribuiva anche nelle camere e nelle cucine, giungendo fino a varie fontane nei cortili e nei giardini. A palazzo Capuano abitarono personaggi del calibro del principe Scanderberg, l’eroe nazionale albanese, la Regina Giovanna I e la tristemente famosa Regina di Napoli Giovanna II D’Angiò-Durazzo, sulla quale circolano ancora bieche leggende. Tanto per intenderci, si tratta di Giovanna la Pazza, che costituì la Castellanìa di Torre del Greco, Ercolano, Portici e San Giorgio a Cremano. Giovanna ebbe molti amanti, ma qualcuno di essi si sono perse definitivamente le tracce, forse perché una volta che si era stancata di loro, li dava in pasto ai coccodrilli.
Bene, nel 1948 il sindaco della cittadina, aveva cominciato a tracciare Via Libertà cominciando dalla montagna. Quando i lavori giunsero alle spalle del Palazzo Capuano, l’amministrazione semplicemente decise di “tagliarlo”, distruggendo giardini, fontane, scalone, timpani e affreschi di Corenzio, e lasciando in piedi solo la torre centrale, abbandonata e vilipesa. Nel giardino è ancora incastrato in un muro un mascherone di fontana, traccia dei vecchi giochi d’acqua.
Il fiume Dragone è scomparso dalla città, forse per la vergogna.
«Dottò…sei lì?»
«Eh…embè sì, sto qui, indubbiamente.»
«Dottò, mò vengo lì e ti sparo. Ti sparo e poi ti ammazzo.»
«Ma, ma, ma, come…ma chi parla?»
«Ah non ti ricordi di me? Male! Sono quello che tu hai fatto morire il gatto, ricordatelo ora!»
«Il gatto? Quale gatto, cerchi di ragionare!»
«Cosa devo ragionare, che me lo hai ammazzato? Un gatto così bello, gli volevo bene come a un figlio.»
«Un’operazione? Forse ho sbagliato un intervento chirurgico?»
«Quale operazione Dottò? Lo hai visitato e gli hai dato una medicina che lo ha fatto morire, ecco ce l’ho qui davanti la ricetta! Betotal sciroppo un cucchiaino al mattino e uno la sera per quindici giorni. Ora vengo e ti ammazzo, aspetta lì»
«Mi dispiace tanto, ma non mi ricordo proprio!»
«Non ti ricordi eh Dottò? Qui c’è la data, 12 gennaio 1985.»
«Ma scusi, oggi è il 25 novembre, quando è morto il gatto?»
«È morto adesso, fra le mie braccia. Sei morto pure tu. Sto venendo, non muoverti!»
E andò sul serio in ambulatorio, perdipiù armato, anche se la pistola non aveva proiettili, ma trovò ad aspettarlo due poliziotti che lo caricarono in macchina e lo portarono via, magari al manicomio criminale.
Mentre il dottor Gardenia cercava di riprendersi dal trauma assaporando una Santarosa che sarebbe una sfogliatella gigante ripiena di crema pasticcera e amarene, e cercava di buttarla giù accompagnandola con un calice di rosato ghiacciato offerto dalla pizzeria lì vicino, le sue collaboratrici, Alessandra e Marisa si affaccendavano solerti con le visite, le terapie e le telefonate.
«Com’è la Santarosa?»
«Ottima, nei vuoi una Marisa?»
«No grazie sono a dieta. E dovresti farci un pensierino anche tu…»
Il dottor Gardenia fece finta di non capire.
«Senti, il signor Rossi di Portici ha chiamato per una visita a domicilio, dice che il cagnolino non si muove dalla cuccia, vai tu o vuoi che vada io?»
«Meglio che vada tu. Palazzo Capuano dove abita il signor Rossi, con quella torre in via Libertà mi fa un po’ impressione. Mi dà l’idea che ci siano delle strane presenze.»
Gli occhi grigi sgranati per l’esasperazione, Marisa prese il cappotto e si avviò con passo leggero a prendere il furgone azzurro dello studio con il logo di una testa di doberman, si accese una MS e si avviò sgommando verso la vicina cittadina.
Un’ora dopo gli occhi della bella dottoressa sprizzavano faville. Il signor Rossi seduto al suo fianco piangeva calde lacrime e si soffiava rumorosamente il naso spargendo ovunque fazzolettini di carta inzuppati e appallottolati, e si lamentava sommessamente.
«Ugo è morto, signor Rossi, morto. Ma non stamattina, è morto perlomeno da ieri sera, come ha fatto a non accorgersene?»
Mezz’ora dopo, Marisa davanti, sbuffando per il peso della cassettina e il signor Rossi dietro strascicando i piedi e piangendo calde lacrime, entrarono in ambulatorio. La prima ad accorrere fu Alessandra che sollevò la cassetta con una sola mano e la poggiò sul tavolo come fosse una piuma, mentre con l’altra stringeva le spalle al signor Rossi, facendolo sobbalzare leggermente di dolore. La vittima, un bastardino di sedici anni obeso e cardiopatico che avrebbe dovuto pesare quindici chili e ne pesava venticinque, si era spenta durante il sonno dopo un pasto leggero di riso con carne, carote, tonno sott’olio, due mele (sbucciate) e un pezzo di cioccolato di dimensioni non specificate.
«Ma poco, signorina, dottoressa, poco, lo giuro!»
Marisa si girò di scatto ed uscì di corsa, lasciando una scia del suo profumo ed un vaffanc. troncato dallo sbatacchiare dell’uscio, Alessandra invece guardò negli occhi il disorientato anziano e gli sorrise dolcemente.
«Ormai non possiamo far nulla per lui, deve farsene una ragione.»
La voce roca di Alessandra era ingentilita dalla sua erre francese.
L’uomo crollo sulla sedia più vicina e si portò una mano alla fronte.
«Mia moglie è morta dieci anni fa, Ugo era l’unico ricordo che mi era rimasto… Vi prego, vi prego, aiutatemi. Non voglio mandarlo all’inceneritore.»
Il signor Rossi si era già informato sulla prassi, durante il tragitto da casa.
«Avete questo bel giardino qui dietro, pagherò qualunque somma, lasciatemi la possibilità di venire almeno a trovarlo ogni tanto!»
Sepoltura fu, e con tutti i crismi, perorata con foga dalla dolce Alessandra, mentre Marisa sbolliva la stizza verso colui che considerava un assassino. Il lavoro di scavo venne affidato all’unanimità al dottor Gardenia, che venne spedito nell’angolo più lontano del giardino munito di pala e piccone e con la raccomandazione di eseguire una buca a regola d’arte. Compito che però si presentava più gravoso del previsto, a causa delle radici di un fico centenario che avrebbe ombreggiato il riposo dell’obeso de cuius, e quindi la fossa risultò profonda solo poche decine di centimetri, giusto sufficienti a contenere la cassettina e ricoprirla con un velo di terreno.
Dopo qualche giorno la tomba era stata ornata da una piccola lapide in marmo con il nome del cane, una pianta grassa in vaso ed una grossa brocca, mentre tutta la zona intorno era stata accuratamente ripulita da foglie e sterpi.
Il signor Rossi si presentava nel giardino ogni sabato mattina, vestito bene. Prima di tutto entrava in ambulatorio e lasciava un omaggio alle “signorine”. Una scatola di cioccolatini o di caramelle, una bottiglia di rosolio o una confezione di torrone tenero, poi andava in giardino, si tratteneva per dieci minuti e lasciava un mazzo di fiori freschi nella brocca, quindi tornava dentro, salutava e andava via.
Il dottor Gardenia, accortosi che i fiori erano presi da un fiorista e venivano lasciati a marcire per una settimana, prese l’abitudine di passare in giardino dopo la chiusura dello studio, prendere i fiori dal vaso e portarli alla moglie, la quale però non solo non credeva alle arzigogolate spiegazioni per il gentile omaggio peraltro mai ricevuto prima, ma cominciò dopo un po’ a nutrire seri dubbi circa l’insano comportamento del marito. La storia comunque non durò a lungo: prima che i già labili equilibri famigliari avessero a sfaldarsi, arrivò la polizia.
Come al solito, la polizia arriva sempre nel momento meno opportuno: in quel caso, proprio al momento della chiusura dell’ambulatorio, mentre si stavano augurando la buona sera, sentirono la porta che si apriva.
«C’è nessuno?»
Era l’elegantissimo commissario della locale stazione di polizia che dopo un saluto amichevole a tutti fece il baciamano ad Alessandra, senza sapere che il fidanzato, allora tenente dei carabinieri era fuori in macchina che aspettava impaziente la bionda amazzone.
«Mi puoi dedicare cinque minuti?»
«Il dottor Gardenia aveva un appuntamento con una zuppa di pesce, ma sapeva bene che quando il commissario si muoveva dal suo ufficio, la faccenda poteva solo essere seria.
«Che è successo, hai qualche altro leone da piazzare?»
«No, in verità è arrivata una denuncia nei tuoi confronti … Sembra che tu abbia seppellito qualcuno in giardino qui dietro, un bambino, un aborto o chissà che altro. La gente del palazzo qui di fronte asserisce di vedere ogni sabato una persona che viene a visitare una tomba, raccogliersi in preghiera, piangere, chiamare il nome di Ugo e deporre dei fiori, e questo va avanti già da un paio di mesi.»
Il dottor Gardenia trasecolò.
«Stai calmo, non parlare, lo so benissimo che sarà qualche gatto o cane, ma purtroppo quando c’è una denuncia circostanziata noi dobbiamo controllare, e sei fortunato che non ti siano capitati i colleghi dell’Arma!»
I carabinieri in quel caso specifico, sapevano già tutto.
Si avviarono dunque di buon passo, novelli violatori di sepolcri, il veterinario ed il poliziotto, seguiti dapresso da due agenti in divisa leggermente imbarazzati nell’umida e fredda sera d’inverno, mentre il respiro che si condensava nella bruma. Alla luce tremolante delle torce elettriche, la tomba fu scoperchiata in fretta, data la scarsa profondità, e le povere spoglie di Ugo furono ispezionate con un certo disgusto dai poliziotti, mentre il veterinario faceva loro notare le differenze sostanziali con lo scheletro di un bambino, poi tutto ritornò alla madre terra.
Mentre riattraversavano il giardino per tornare all’ambulatorio, con i poliziotti in divisa che già si allontanavano verso la volante, il veterinario, che camminava con la vanga sulla spalla pensando alla scempiaggine della gente, quasi ruzzolò a terra a causa di una forte spinta da dietro: una risata omerica lo investì alle spalle mentre il commissario si contorceva per il divertimento.
«Ugo, povero Ugo! Ma che imbecilli, tu e il padrone di Ugo… E questi idioti dei tuoi vicini… hagghhhh! Ma che cos’è? l’aria? Vabbè, dai non fare sta faccia, vieni che ti offro un limoncello.»
Il sabato mattina successivo, quando il signor Rossi si presentò con i fiori e i cioccolatini per ritirare la chiave del giardino, trovò ad attenderlo Alessandra, che lo prese sotto braccio e lo accompagnò a visitare la buonanima di Ugo.
Al ritorno tutti e due avevano gli occhi umidi. Il vecchietto salutò sommessamente ed andò via a testa bassa, mentre la ragazza stringeva i pugni dentro le tasche del camice, fino a strapparlo.
Il signor Rossi non ritornò mai più dal suo amato Ugo.
Lo scrittore Lucio Sandon è nato a Padova nel 1956. Trasferitosi a Napoli da bambino, si è laureato in Medicina Veterinaria alla Federico II, aprenso poi una sua clinica per piccoli animali alle falde del Vesuvio. Appassionato di botanica, dipinge, produce olio d’oliva e vino, per uso famigliare. Il suo ultimo romanzo è La Macchina Anatomica, un thriller ambientato a Portici. Ha già pubblicato il romanzo Il Trentottesimo Elefante; due raccolte di racconti con protagonisti cani e gatti: Animal Garden e Vesuvio Felix, e una raccolta di racconti comici: Il Libro del Bestiario.
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