Il Racconto, Il conte Gaetano
di Lucio Sandon
Post Fata Resurgo è il motto inciso sullo stemma di Torre del Greco.
Fosse dipeso dalla protezione civile, la ridente cittadina non sarebbe mai sorta oppure sarebbe stata trasferita da secoli: troppo il pericolo dal vulcano.
Gli indigeni però non mollano: il paese è stato ricostruito cinque volte nello stesso posto, in seguito a cinque eruzioni catastrofiche, negli ultimi millecinquecento anni.
È un monumento mondiale alla caparbietà.
Nel 1794, i danni provocati dall’eruzione furono talmente gravi che il re Ferdinando IV impietosito, offrì ai cittadini torresi nuovi spazi a San Giovanni a Teduccio, dove potersi trasferire armi e bagagli, ma essi imperterriti vollero riedificare il paese sulle rovine di quello appena distrutto.
Perché si rimane in un luogo simile?
Villa Olivella fu negli anni cinquanta la cornice dell’amore tra Ingrid Bergman e Roberto Rossellini. Ospitò il principe Antonio de’ Curtis e i reali d’Inghilterra. Nelle sue stanze, giardini e boschi vennero girare diverse scene del film Viaggio in Italia che vale la pena di rivedere anche se in bianco e nero e privo di effetti speciali, tranne forse, quelli regalati dai paesaggi del luogo.
Ospite e amico dei divi del cinema e dei nobili di ogni etnia era il conte Don Paolo Caetani Cortez D’Aragona dell’Aquila, proprietario della suddetta stupenda dimora affacciata sul golfo di Napoli, la cui dependance che ospita gli spogliatoi della piscina, era molto più grande della casa del veterinario chiamato dal conte a visitare i suoi cani.
La terrazza ha una splendida veduta su Capri e la penisola sorrentina. La lava del terribile vulcano la assedia, ma genera anche un rigoglio botanico incredibile e diventa essa stessa straordinario materiale di costruzione. Il Vesuvio le copre le spalle e la difende dal vento di terra, e l’aria che vi arriva è uno zefiro divino. Nei quadri che arredano le sale, il vulcano è sempre una divinità bifronte, portatore di vita e di morte, e così il mare. C’è il naufragio, e contemporaneamente la festa con i fuochi d’artificio. C’è l’accettazione di una natura con una doppia faccia, che diventa la base stessa della vita. Una montagna di fuoco può essere un capitale inestimabile, se quel pericolo oltre a darti vigne e pomodori stupendi ti insegna a giocare d’astuzia con la natura e con la vita, ti educa a ricominciare da zero e ti toglie la paura di un mare tempestoso che può portarti via.
Ben lo sanno i pescatori di coralli.
Il conte, chiamato dai vicini ed in verità in sua augusta assenza, anche da Raimondo, il proprio maggiordomo “Il conte Gaetano”, era indiscutibilmente un bell’uomo anche se aveva passati gli ottant’anni: impeccabile blazer blu doppiopetto, camicia immacolata aperta sull’ascot di seta su cui spiccava il blasone della casata, sfavillanti scarpe inglesi.
Ma il tratto dell’uomo che colpiva maggiormente il dottor Gardenia mentre lo guardava con deferenza, era la sua gentilezza.
Chinandosi gentilmente dall’alto della sua statura, il nobiluomo spiegava al giovane veterinario come fosse difficile e delicato il compito di capire e curare le malattie degli animali, mentre lo squattrinato professionista si guardava intorno cercando di capire se stesse sognando.
Dopo aver superato l’arcigno controllo dei custodi al cancello d’ingresso, il dottor Gardenia aveva vagato guidando il suo vecchio furgoncino attraverso una fitta boscaglia, percorrendo la stradina che portava alla villa, giungendo infine su una grande piazza lastricata di porfido. Cercando di farsi notare il meno possibile, aveva parcheggiato il suo fugone azzurrino ben lontano da un’abbagliante Bentley che un autista in cinerea divisa stava amorevolmente accarezzando con un panno. Probabilmente l’uomo voleva far in modo che fosse impossibile guardarla senza rimanere accecati.
Il dottor Gardenia aveva raggiunto il belvedere sul lato nord della villa.
Qui, sotto una volta di querce secolari alcuni giardinieri erano intenti ad aspergere con un delicato getto d’acqua e con scrupolosa cura, un terrazzo sopra il cui pavimento era cresciuto un perfetto tappeto di morbido muschio tale che nessun artista orientale sarebbe mai riuscito a tessere, e su cui troneggiavano tavoli di marmo e panchine di ghisa scolpita, mentre uno stuolo di valletti strofinava con protervia lo scalone doppio di forma circolare che dalla piazzetta portava al terrazzo superiore della villa e sui cui immacolati gradini riposavano sdraiati mollemente i nobili quadrupedi di casa.
Ice era un bellissimo esemplare di gatto americano Maine Coon, razza all’epoca quasi sconosciuta alle falde del Vesuvio.
Lui, sentenziò l’augusto vegliardo, è affetto da una malattia molto rara, la leucemia felina.
«Sembra che il mio gatto sia stato infettato durante un soggiorno in Giappone, dove tale malattia è invece abbastanza comune. Il professor Siringhino dice che sarebbe il caso di sopprimerlo per evitare il contagio ad altri gatti. Ecco, lei potrebbe gentilmente occuparsi personalmente di tale dolorosa incombenza?»
Il giovane professionista osservò lo splendido animale, i suoi occhi di ghiaccio, la folta pelliccia ridotta a brandelli dalla malattia, la testa puntata fieramente verso di loro che parlavano della sua morte, e mormorò a voce bassissima:
«Signor conte, il professore è un luminare della scienza, ma con il suo permesso io farei un tentativo per curare questo gatto, che mi sembra giovane e robusto. Esiste un medicinale, e sembra dia ottimi risultati se somministrato alle giuste dosi unitamente ad altri medicamenti. È però molto difficile da reperire in Italia, si riesce a trovare in Gran Bretagna o alla farmacia del Vaticano ed a prezzi esorbitanti, ma sei lei riuscisse a reperirne qualche scatola, con il suo permesso potrei prendermi la responsabilità di tentare questa cura presso il mio ambulatorio.»
Gli occhi del nobiluomo si illuminarono di gioia.
«Ma dice sul serio? Veramente lo può curare lei? Come si chiama questo medicinale, me lo scriva qui sopra, faccio subito una telefonata.»
Dopo pochi minuti il gentile vegliardo ridiscese con passo elastico lo scalone che aveva salito con relativa difficoltà solo pochi minuti prima, e ora con un’espressione di felicità stampata sul volto.
«Dottore, il medicinale che lei richiede sarà qui non più tardi di dopodomani, un corriere è stato incaricato di spedirlo da Londra, il costo non mi interessa. Mi ascolti, lei prenda con sé Ice e lo curi, poi se guarisce e me lo riporta,e le sarò grato per sempre, in caso contrario dovrà provvedere all’eutanasia come consigliato dal professore. Per tutte le spese si rivolga pure a Raimondo. Grazie di tutto.»
Il maggiordomo, che osservava discretamente in disparte e non perdeva una sillaba distillata dalle labbra del suo augusto titolare, si avvicinò ossequiosamente, e Dio per sempre abbia in gloria la sua anima immortale, messa mano alla tasca dei pantaloni, ne estrasse un grosso rotolo di banconote, che appoggiò sul palmo dell’attonito giovanotto.
«Sono cinquecento, le conti! »
«Grazie, mi fido.»
Anche se fossero stati la metà, lui non aveva mai ricevuto una parcella così alta. Il dottor Gardenia salutò e volò via nel tiepido sole di primavera, con Ice che sbavava allegramente sul cruscotto del furgone azzurro: gli era riservato il posto d’onore, un gatto che viaggiava in Bentley non avrebbe mai potuto accomodarsi nel puzzolente cassone del Renault4!
Cinquecentomilalire all’epoca erano ben più dello stipendio mensile di un impiegato. Arrivato in ambulatorio il veterinario mostrò tutto orgoglioso il piccolo tesoro alle sue collaboratrici Alessandra e Marisa, promettendo uno sfarzoso regalo se si fossero prese cura di Ice con maggiore attenzione del solito, ma mai offerta fu più inutile: le belle colleghe si innamorarono a prima vista di quel micione grigio dagli occhi di ghiaccio e cominciarono immediatamente a sottoporlo senza soluzione di continuità a coccole, prelievi di sangue e dolorose iniezioni, cui la povera bestia si sottoponeva stoicamente ma non senza mugolii di dolore, che venivano consolati con carezze, prelibati bocconcini e passeggiate in giardino.
Quando tutto sembrava andare per il verso giusto, ecco che il diavolo ci mise lo zampino.
Il diavolo era un pittbull nemmeno tanto grosso anzi decisamente segaligno, che era stato portato da uno strano energumeno, tatuato e con rayban neri sempre a nascondere gli occhi.
«Dottore, mi raccomando…. A questo cane ci tengo più che a mio figlio.» Immaginarsi! La povera bestia era coperta di ferite infette, evidentemente frutto di svariati combattimenti tra cani, che all’epoca non erano ancora stati messi fuori legge.
Durante l’ultimo combattimento aveva evidentemente lottato strenuamente ma aveva avuto la peggio.
«Però Devil è bravo sa, l’ho comprato in Croazia, costa come un monolocale.»
Lo sfortunato animale non riusciva a sostenersi sulle zampe, e dovette essere portato dentro in braccio dalle due collaboratrici che non riuscivano a trattenere lo sdegno verso quell’uomo, il quale invece interpretò le occhiate fulminanti a guisa di sguardi appassionati, e si rivolse sottovoce al dottor Gardenia.
«Fortunato lei, con due aiutanti così… Che paio di occhi quella bruna (e mimò con le mani degli organi diversi.) La bionda poi è il paradiso in terra!» Nemmeno il gelido silenzio e lo sguardo sprezzante del veterinario riuscivano a scalfire l’entusiasmo dell’energumeno.
Solo la richiesta di un congruo anticipo per le spese ottenne l’effetto di deprimerne la logorrea per qualche istante.
«Ma, ma, ma, e se poi muore?»
«Pazienza, vuol dire che avremmo fatto del nostro del nostro meglio per salvarlo, dopo che qualcuno ha fatto del suo meglio per ridurlo in fin di vita.»
Fine delle discussioni.
Sottoposto non meno di Ice alle amorevoli cure di tutto lo staff, anche il buon diavolo cominciò a migliorare dopo qualche giorno, e iniziò poi addirittura a mantenersi in piedi ed a muovere i primi passi. Dopo una settimana Devil era in grado di mangiare da solo, e addirittura anche di fare una passeggiata.
E fu così che avvenne il patatrac.
Dopo un mese di cura anche il gatto Ice si era ripreso in modo evidente, il suo pelo era tornato folto e lucido, le croste sparite, gli occhi limpidi, e il passo svelto. Vista la sua indole tranquilla, gli era permesso di passeggiare liberamente all’interno dei locali della clinica, quando tutte le porte erano chiuse, e lui ne approfittava per sdraiarsi sul davanzale della finestra a prendere il sole.
Devil il pittbull, era un animale di una dolcezza disarmante: alla vista dei veterinari con una pinzetta od una siringa in mano, si sdraiava supino e leccava la mano che gli provocava dolore, questo però non poteva cancellare il tragico allenamento cui era stato sottoposto da quando era nato e di cui le ragazze non avevano tenuto conto, nonostante gli avvertimenti del proprietario.
Fu un attimo: senza un ringhio di avvertimento, Devil appena notato il gatto sul davanzale, si lanciò contro il pacifico Ice, lo azzannò alla gola e lo trascinò sul pavimento.
Le urla di Marisa e Alessandra si mischiarono a quelle di Ice, richiamando l’attenzione del dottor Gardenia, che abbandonando il tavolo da visita con un cucciolo da vaccinare, si catapultò nei locali della degenza, e intuendo la gravità dell’accaduto, abbrancò una scopa. Inutile: Devil, stringeva sempre di più le sue poderose mandibole sul corpo del gatto, che dopo essersi difeso con le unghie e con i denti, ad ogni secondo perdeva le forze rassegnandosi alla morte.
Questione di un attimo. Abbandonata l’idea di colpire il pittbull con la scopa, il veterinario mollò l’inutile attrezzo e corse a gambe levate nello studio, afferrò un flacone di anestetico, ne aspirò un pò a casaccio in una siringa ed alla cieca la immerse nel gluteo del killer a guisa di banderilla.
Qui entrò in gioco la fortuna.
L’ago entrò subito in una vena, perché Devil mollò istantaneamente la presa e si accasciò al suolo con le fauci spalancate.
Ice si salvò grazie alla sua folta pelliccia: se la cavò con quattro fori dei canini, un grosso ematoma alla gola, un principio di soffocamento ed una paura tremenda. Per due giorni non toccò cibo, ma si limitò a guardarsi intorno terrorizzato, tremando come una foglia.
Devil si risvegliò dopo qualche ora, scodinzolando lievemente alla vista di tre persone che lo guardavano sbalordite, e chiese abbaiando la sua solita razione di cibo, dimentico del suo accesso di furia cieca.
Dopo un paio di giorni fu dimesso, con totale soddisfazione sia del proprietario, il quale ne uscì un po’ più povero ma molto più consapevole, sia dei veterinari, e infine del cane stesso, pronto purtroppo per continuare la sua sanguinosa carriera.
Ice invece restò ricoverato per molti giorni ancora: le sue ferite non sarebbero state facilmente spiegabili al nobiluomo, anche se erano ben nascoste dalla rigogliosa criniera.
Quando dopo diversi controlli si appurò che la sua malattia era entrata nella fase cronica, i valori ematici stabilizzati e i sintomi spariti, si stabilì che era ora possibile assegnare una terapia da fare a casa.
E così un bagno triplo, una phonatura professionale, e una generosa spruzzata di spray al borotalco, completarono l’opera.
La riconsegna a domicilio venne effettuata con l’ausilio di Alessandra in veste di autista. Era rimasta estasiata e incredula della descrizione di villa Olivella, del conte, e anche del maggiordomo, e così volle assolutamente vedere con i suoi occhi. Restò però di stucco quando fu accolta personalmente dalla contessa (o principessa, a quel punto le presentazioni presero una brutta piega), un’affascinante signora di oltre ottant’anni dritta come un fuso, con una stretta di mano da sergente e l’acconciatura violetta.
Il dottor Gardenia dovette dare di gomito alla sua assistente per far sì che richiudesse la mascella.
«Ci era giunta la voce che il nostro veterinario avesse delle graziose collaboratrici.»
Il camerlengo era venuto spesso a controllare i suoi investimenti, ed era evidentemente rimasto favorevolmente colpito dal personale.
«Così ci siamo permessi di far venire dalla gioielleria qui vicino un piccolo segno della nostra riconoscenza.»
La contessa porse alla ragazza due scatolette che contenevano delle stupende miniature in corallo che rappresentavano un gatto dagli occhi spalancati, sospese a una catenina che sarebbe potuta servire per portare a passeggio Devil. La bionda a quel punto, si meritò la seconda gomitata nelle costole per indurla a far scattare la mandibola e ringraziare, ma Alessandra riuscì solo a spezzarsi in due e boccheggiare in cerca d’aria.
La nobildonna ed il consorte si congedarono con un sorriso gentile.
«Ah, Raimondo… Paga il dottore.»
Che Dio tenga sempre al suo cospetto le anime del conte e del suo ciambellano: questi, con un accenno di inchino rivolto alle spalle del suo padrone, porse una grossa e lussuosa busta al veterinario.
Lui aveva portato con sé una fattura per l’importo già incassato, con la speranza che non gli venisse chiesto di detrarre il costo del medicinale fatto arrivare e pagato dal nobile.
Intuendo dal peso del plico una cifra ragguardevole, non la tirò fuori, ma guardò il maggiordomo Raimondo con occhi imploranti.
«Vi serve la fattura?»
La temperatura si abbassò di diversi gradi ed il sibilo fu inequivocabile: «Dottò, non nominate mai più questa parola al cospetto del conte Gaetano… Quando la sente, parlando con rispetto, gli girano tutte e cinque le palle del blasone!»
Lo scrittore Lucio Sandon è nato a Padova nel 1956. Trasferitosi a Napoli da bambino, si è laureato in Medicina Veterinaria alla Federico II. Appassionato di botanica, dipinge, produce olio d’oliva e vino, per uso famigliare.