Il Racconto Il coccodrillo del Maschio Angioino
di Lucio Sandon
Questo racconto è tratto dal libro La macchina anatomica, Graus editore.
Napoli, Castel Nuovo, Giugno 1740
Credo che sia un maschio, non me ne intendo molto di coccodrilli. Grosso lo è di certo, anche troppo per i miei gusti. Per forza, lui al contrario di me mangia bene, anzi sicuramente mangia meglio qui che nel posto in cui è nato.
Non so esattamente come abbia fatto ad arrivare fino al porto della mia città e poi infilarsi dentro a questa prigione: probabilmente, quando era un tenero cucciolo di poche settimane, potrebbe essere rimasto incastrato alla catena di un’ancora o magari è possibile che si sia aggrappato al fasciame di qualche bastimento nel porto di Alessandria d’Egitto o da dove diavolo vengono questi mostri, e abbia navigato fino ai nostri moli come clandestino inconsapevole.
Arrivato qui, sarà stato sicuramente facile per lui penetrare dal porto nel fossato del castello, e poi trovarsi una tana sicura qui sotto.
Prima di vederlo con i miei occhi, ero convinto che il coccodrillo del Maschio Angioino fosse solo una leggenda: in tutte le taverne, e in verità anche nei salotti buoni di questa città, ne avevo spesso sentito discutere. Il mostro corazzato che infesta i sotterranei di Castel Nuovo era un argomento che andava per la maggiore in città, almeno fino a qualche mese fa. Adesso non saprei. Non frequento più le taverne, e tantomeno i salotti, buoni o meno.
Ora che potrei disquisire di lui in tutti i particolari, sapendo descriverne con minuzia le scaglie rugose del suo dorso, il suo aspetto terribile e le relative abitudini alimentari ancora peggiori, non ho invece assolutamente nessuno con cui condividere le mie impressioni. Anzi, credo proprio che tra non molto farò esperienza diretta dei denti del mio feroce compagno di prigionia, dopodiché del sottoscritto resteranno solo dei bei ricordi.
Ho avuto il discutibile, e soprattutto non richiesto, privilegio di fare la conoscenza con il grosso rettile che abitava nella mia prigione appena qualche settimana dopo essere stato scaricato qui dentro, e ormai c’è una certa confidenza nel nostro rapporto: se non ho fatto male i calcoli, sono infatti stato sepolto vivo nella mia tomba senza nome da ormai quasi otto mesi.
D’altra parte, ho quasi la certezza di avere contato bene il tempo che ho trascorso in questo buco senza che nessuno mi abbia mai accusato di nulla, e proprio questa è la cosa che mi fa uscire di senno. Non so perché sono qui, e non ho idea di chi può odiarmi a tal punto da volermi condannare a questa tortura senza nemmeno un’accusa, senza un processo.
E poi, di cosa avrebbero dovuto accusarmi? Non ho mai commesso alcun delitto, almeno che io ricordi. Al massimo potrei avere inconsapevolmente fatto uno sgarbo a qualcuno di troppo importante, o forse ho avuto una mancanza di riguardo del quale non mi sono reso conto, magari nei confronti di un nobile o di un alto ufficiale.
No, non può essere possibile che sia stato quel contadino al quale la settimana prima di essere catturato ho rovesciato una piramide di meloni, al mercato dietro il porto! Al momento, l’uomo si è arrabbiato moltissimo, mi ha coperto di ingiurie e ha tentato anche di colpirmi con il suo bastone, ma poi gli ho chiesto scusa cento volte e l’ho aiutato a rimettere a posto la frutta! Senza contare che gli ho pure comprato tre meloni dei più ammaccati, a prezzo pieno. E gli ho pure regalato tutti gli altri soldi, pochi, come al solito, che avevo in tasca.
La verità è che chi mi ha scaraventato a marcire qui sotto, era ben certo che io non ne sarei mai venuto fuori per far valere i miei diritti. Da quando sono stato imprigionato in queste buie segrete non ho mai potuto parlare con nessuno, né ho visto anima viva, a parte il mio amico pieno di denti. Oltre al quotidiano esercizio di sfuggire alle sue fauci, è proprio questa l’attività preminente che occupa le mie giornate: il cercare di capire chi mi ha preso e perché sono qui.
I primi spaventosi giorni trascorsi in questo buco nero li ho passati a urlare con quanta forza avevo in corpo, a disperarmi e strapparmi i capelli, ma alla fine mi sono dovuto arrendere alla realtà: la persona o le persone che mi hanno scaraventato qui sotto avevano tutta l’intenzione di farmi sparire per sempre dalla faccia della terra, in un modo o nell’altro. E per il momento ci stanno riuscendo egregiamente.
Uno dei primi effetti della detenzione sottoterra fu quello di farmi quasi perdere il senso del tempo. Non potendo distinguere il giorno dalla notte, l’oscurità totale mi faceva delirare quasi quanto la mancanza di cibo, però poi cominciai a realizzare che, a intervalli abbastanza regolari, probabilmente ogni tre o quattro giorni, si apriva una botola lì, su, molto in alto, e da essa veniva calata una cesta con una giara d’acqua puzzolente e del pane ammuffito, e a volte anche delle ossa spolpate: si trattava certamente dei rifiuti provenienti dalla mensa dei miei guardiani.
Dapprima mi rifiutai di ingerirli, mi sembrava un’offesa troppo grande al mio stomaco e alla mia dignità, ma poi la fame e ancor più la sete ebbero il sopravvento sul disgusto.
Non sono mai riuscito a vedere chi manovrava la corda: la botola si trova ad un’altezza di almeno dieci metri sopra il pavimento di questo budello, e i miei carcerieri sono sempre stati di poche parole, oltre che del tutto privi di empatia. E comunque mi passano la loro spazzatura sempre di notte, oppure chiudono tutte le imposte della loro stanza, perché non ho mai visto neppure un riflesso di sole quando lo sportello si apre cigolando.
Dopo i primi giorni passati a urlare la mia frustrazione e a chiedere inutilmente pietà e soccorso in preda ad allucinazioni spaventose, la mia mente cominciò ad accettare l’idea della prigionia e i miei occhi iniziarono ad abituarsi all’oscurità.
Ebbi modo, così, di rendermi conto che un impercettibile riflesso portato dall’acqua attenua, quando fuori è giorno, anche se in modo assolutamente minimo, il buio infernale di questo sotterraneo. Questo mi dà la possibilità di distinguere i contorni delle cose, anche se non proprio i loro colori.
Un po’ per non perdere il senno e in parte anche per cercare in qualche modo di tenermi aggrappato al mondo reale, mi impegnai allora nell’unica attività che mi fosse possibile: iniziai a esplorare questa lurida catacomba nella quale sono confinato.
La mia prigione è un locale lungo all’incirca una ventina di metri e largo un po’ di più e il cui pavimento è costituito nel lato più lungo per metà da un molo e l’altra metà è semplicemente acqua putrida. Insomma, una grande stanza priva di qualsiasi comunicazione con l’esterno, tranne che per la botola lassù in alto.
Probabilmente, quand’ero ancora svenuto, da lì sopra mi ci hanno calato con delle corde dopo avermi coscienziosamente tolto le scarpe, il mantello, l’orologio e la borsa, facendomi passare dall’apertura dalla quale mi forniscono le porcherie che dovrebbero essere sufficienti a tenermi in vita.
Metà dello spazio di quello che dovrebbe essere il pavimento è occupato da una vasca piena d’acqua che proviene forse dal mare e da una serie di gradini coperti di alghe scivolose che digradano verso il fondo. Uno dei lati più lunghi della cella è totalmente formato dalle grosse pietre di nero basalto vulcanico, che costituiscono forse le fondamenta di questa strana costruzione che mi tiene prigioniero, mentre il lato opposto è semplicemente un arco di pietra sprangato da ben due robustissime grate di ferro.
Queste cancellate sono fatte di sbarre rotonde spesse circa cinque centimetri, fittamente intrecciate e distanziate circa un braccio l’una dall’altra. Le grate si immergono profondamente nell’acqua, proprio per dar modo al mare di penetrare in queste luride segrete, bloccando però la fuga dei malcapitati prigionieri.
In origine, probabilmente le cancellate erano state pensate per poter essere sollevate con qualche meccanismo perché, passando le dita lungo lo spazio tra l’ultima sbarra e il muro, sono riuscito a riconoscere il residuo di una rotaia, ma con il passare dei secoli le carrucole si sono arrugginite e così tutto il sistema si è bloccato per sempre. Evidentemente, però, le estremità sommerse delle due cancellate non arrivano a bloccare completamente il fondo del canale, quindi da qualche parte nelle profondità del sotterraneo offrono uno spazio sufficiente al passaggio del coccodrillo.
Le altre due pareti della cavità sotterranea sono di tufo molto antico. Il tufo è una pietra molto morbida e questo si sgretola facilmente sotto il semplice tocco delle dita a causa dell’umidità portata dall’acqua, ma le mura devono essere di uno spessore immane.
Probabilmente si tratta di molti metri, perché battendoci sopra con un pezzo di legno, si sente un suono di pieno ovunque, e nessun rumore riesce a sua volta a penetrare dall’esterno, lasciandomi immerso in un silenzio siderale.
Nemmeno a pensarci di scavarmi una galleria per fuggire: ci metterei mille anni anche se avessi una minima idea circa la direzione da prendere per iniziare a fare il buco. E poi non ho nemmeno un maledettissimo attrezzo a portata di mano, a parte le mie unghie spezzate.
L’unico rumore, peraltro quasi impercettibile che ritmicamente turba il silenzio ultraterreno del mio carcere, è il mormorio dell’acqua nel suo lento movimento. Proprio il liquido nauseabondo usato forse come fognatura per questa prigione, che sciaborda minaccioso a poca distanza dai miei piedi nudi e avrebbe dovuto infondermi malattia, dolore e morte, è stato invece il tramite di un esilissimo appiglio al quale aggrapparmi per non perdere del tutto la speranza, il senso della vita e infine anche il senno.
Una delle prime cose che ebbi la fortuna di notare dopo i primi giorni di sconforto e disperazione profonda, in assenza totale di qualunque sensazione e di buio assoluto degli occhi e della mente, fu un particolare all’apparenza insignificante.
Pur con delle variazioni impercettibili, solo pochi centimetri, l’acqua che arriva fin qui dentro si muove secondo un ritmo preciso che mi è perfettamente noto da sempre: segue l’andamento delle maree. Al mattino presto, il mare, perfettamente immobile qui sotto, si abbassa, poi nel primo pomeriggio si solleva, la sera si riabbassa e a notte fonda torna a rialzarsi, lasciando ogni volta il suo segno bagnato sul bordo della vasca.
Osservando questi movimenti del mare e il debolissimo riflesso luminoso che porta con sé, riesco non solo a tenere conto dei giorni che passano, ma in misura molto approssimativa cerco anche di calcolare che ore sono.
Certo, queste informazioni non mi sono affatto servite a star meglio, ma perlomeno potevo tenere occupata la mente in astrusi calcoli matematici e fantasticare su come pianificare la mia fuga per via subacquea: questo in modo particolare dopo che ebbi fortunosamente iniziato la pratica delle immersioni sul fondo della mia piscina personale.
Ebbene sì, dopo una prima spaventosa caduta in mare, durante la quale rischiai di affogare, ora ho imparato a nuotare sott’acqua meglio di un pesce, anche se la prima volta che mi tuffai lo feci in modo del tutto involontario. Il mio primo volo in acqua non solo fu un tuffo fuori programma: quel giorno rischiai veramente di morire, e in vari modi.
Nella mia vita precedente, prima di iniziare a languire qui sotto, non avevo mai nemmeno lontanamente pensato che avrei dovuto imparare l’arte di nuotare e di immergermi addirittura sott’acqua: non si trattava certo di un’attività adatta a un giovane architetto della corte borbonica.
La pratica del nuoto era un’attività plebea riservata solo ai poveri pescatori di coralli che si avventuravano in alto mare sulle loro barche tenute insieme da chiodi di ferro, pece, vecchie corde e avemarie, ed era utile solo a loro, giusto per mettere insieme il pranzo con la cena e tentare di salvarsi la vita.
Lo scrittore Lucio Sandon è nato a Padova nel 1956. Trasferitosi a Napoli da bambino, si è laureato in Medicina Veterinaria alla Federico II, aprendo poi una sua clinica per piccoli animali alle falde del Vesuvio. Appassionato di botanica, dipinge, produce olio d’oliva e vino, per uso famigliare. Il suo ultimo romanzo è “La Macchina Anatomica”, Graus editore, un thriller ambientato a Portici. Ha già pubblicato il romanzo “Il Trentottesimo Elefante”; due raccolte di racconti con protagonisti cani e gatti: “Animal Garden” e “Vesuvio Felix”, e una raccolta di racconti comici: “Il Libro del Bestiario”. Il racconto “Cuore di figlio”, tratto dal romanzo “Cuore di ragno”, in prossima uscita, ha ottenuto il riconoscimento della Giuria intitolato a “Marcello Ilardi” al Premio Nazionale di Narrativa Velletri Libris 2019. Il romanzo “Cuore di ragno” è risultato vincitore ex-aequo al Premio Nazionale Letterario Città di Grosseto “Cuori sui generis” 2019.
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