Il Racconto, Guerra Umanitaria
di Lucio Sandon
Maricaq, se lo si cerca accuratamente sulla carta geografica, lo si trova al nord dell’ Afghanistan, al confine con il Turkmenistan: non è precisamente quello che si dice in culo al mondo, ma con ogni probabilità ci è molto vicino.
Il villaggio sorge, per modo di dire, nel punto dove finisce la vallata, e la valle è nascosta in mezzo a montagne desertiche, ma è attraversata per tutta la sua lunghezza dal corso del fiume Murghab.
Tutt’intorno, il nulla assoluto.
Maricaq è appollaiata su una piccola altura, e guarda verso una distesa di basse colline coltivate a grano e meloni, poste a nord della valle. In quei luoghi dimenticati dalla civiltà, la vita è sempre stata di semplicità biblica: gli adulti lavoravano nei campi e i bambini pascolavano gli animali. Nessuno di loro aveva mai saputo cos’era la corrente elettrica. Niente acqua corrente, niente telefoni, cellulari, orologi.
Niente.
Lo spazio era misurato dal tempo che impiegano un uomo o un asino ad arrivare a destinazione, e il tempo veniva scandito dall’arco del sole. Nessuno aveva mai sentito parlare di qualcosa che si chiamasse governo, e il progresso nessuno l’aveva mai nemmeno immaginato. Tantomeno poi, la rivoluzione. I Talebani, per quei poveri contadini analfabeti, erano semplicemente dei bravi studenti del Corano, che si erano organizzati per difendere la popolazione inerme dai soprusi dei signori della guerra. O perlomeno i contadini così avevano sentito dire dai talebani. Poi vennero Kharijian, i diavoli stranieri.
Quando Hanibal vide per la prima volta gli stranieri, pensò che fossero l’incarnazione della vendetta di Dio per la sua malvagità: vennero dal cielo, e si lasciarono dietro di loro solo sangue, fumo e macerie. Era il primo pomeriggio di un venerdì, e a quell’ora Abdhul, il patriarca della famiglia, pregava il dhuhr, la terza preghiera islamica della giornata, con il volto rivolto a Ovest, verso la Mecca. Sarebbe stata la sua ultima preghiera.
Insieme a lui, nella stanza, c’erano suo figlio Abdhul, di trent’anni e suo nipote Faisal, di un anno e mezzo. Abdhul era l’unico componente della famiglia che si fosse mai allontanato dalla sua valle: aveva lavorato per anni come autista, guidando i camion che trasportavano papaveri, per una paga da fame. L’unico lavoro che era riuscito a trovare, per mandare qualche soldo a casa. Lui viaggiava dalla valle della Beqa’a, che si trova in Libano ma sta sotto il controllo degli Hezbollah, il Partito di Dio, verso Damasco. Nella valle della droga, che si snoda tra il Libano e la Siria, il “papaverum somniferum” viene coltivato estesamente, lavorato, trasformato in oppio e poi in eroina, a beneficio dei suoi estimatori in tutto il mondo occidentale. Questo avveniva dieci anni prima, ma il nome di Abdhul era rimasto negli schedari dei servizi segreti occidentali come pericoloso terrorista. La punizione per la sua colpa, arrivò dal cielo, improvvisa come un temporale d’estate, ma stavolta il tuono venne prima del fulmine.
Il primo missile intelligente li uccise sul colpo, senza preavviso. Con loro c’era anche un’altra figlia di Abdhul, la piccola Yasmeen. Yasmeen, il fiore del gelsomino, aveva sei anni. Quando tutto tremò, Yasmeen corse come il vento, ma una scheggia corse più veloce di lei, e la centrò in pieno, uccidendola in modo intelligente, senza farla soffrire.
La seconda bomba, intelligente anch’essa, centrò la stanza vicina qualche secondo dopo, e non ci fu nessuna possibilità per Fawziya la moglie del patriarca, per suo figlio Hamyd di quindici anni, e per le due nuore Bahe’era e Asma.
Ancora vivi, ma feriti, c’erano tre fratellini di due, sei e dodici anni: Iders, Uzuri e Hanibal, i figli di Bahe’era.
I vicini, accorsi sentendo i boati e alla vista del fumo nero, scavarono a mani nude tra le macerie, li trovarono e li caricarono sull’unico mezzo di trasporto che avevano. Gli asinelli furono l’ambulanza che li portò al primo e unico posto che venne loro in mente, la base degli italiani a BalaMurghab. Altri diavoli stranieri, li misero su un elicottero e li mandarono al loro ospedale, a Herat, dove un medico kharijian diagnosticò che i bambini avevano ferite provocate da IED, Improvised Explosive Device, le mine rudimentali usate dai talebani, e li trasferì all’ospedale pediatrico Mofleh. Nessuno avvertì nessuno, i bambini erano orfani, senza famiglia.
Yasir in afghano vuol dire ricco. Yasir era il figlio maggiore di Abdhul ed il marito di Bahe’era, ed era ricco solo di speranza. Quando venne la fine del mondo, lui era in campagna a raccogliere meloni, insieme al fratello minore, di vent’anni, Zemar il leone di montagna. Appena i due fratelli udirono il rombo delle bombe che sterminavano la loro famiglia, e videro la colonna di fumo nero che si alzava dietro la collina dove c’era la loro casa, corsero sul sentiero fino a farsi scoppiare il cuore, ma erano lontani, ci misero più di due ore. Nel momento in cui videro le rovine fumanti, i bambini superstiti erano già stati portati via, e sullo sterrato davanti a quella che era stata la casa del loro padre, stava avanzando a testa bassa uno degli studenti della scuola coranica di Herat, un taliban. Le sue spalle erano scosse da tremori, ma lui non stava piangendo, un combattente taliban non piange, specialmente se si chiama Namir, il leopardo. Namir spiegò ai due fratelli che gli stranieri erano venuti con gli aerei, avevano massacrato il loro padre, la madre, le mogli ed i figli, e si erano portati via i loro piccoli superstiti. Dove? Al loro accampamento, lì dove sventolava quella bandiera con i colori sbagliati, la strana bandiera con i colori messi male, quella dove c’è il bianco, il colore del lutto, al posto del nero il colore dell’antica tradizione. Lui, Namir, li avrebbe aiutati a vendicarsi dei kharijian, se loro si fossero uniti al suo gruppo che combatteva per la liberazione della patria. Yasir e Zemar non avevano più niente: la famiglia massacrata e la casa distrutta dalle bombe dei diavoli stranieri. Per prendere la decisione non gli ci volle molto tempo: la loro vita era nelle mani di Allah.
ArRahmân, il Misericordioso.
ArRahîm, il Compassionevole.
Al ‘Azîz, il Potente.
Ad Darr, Colui che nuoce.
E gli altri novantacinque nomi di Dio.
Quando venne estratto dalle macerie della sua casa distrutta, insieme ai fratellini, Hanibal era svenuto e coperto di polvere e sangue. I soccorritori al momento pensarono che fosse morto anche lui come la maggior parte dei suoi parenti, ma poi si accorsero che il piccolo petto si sollevava leggermente, e cercarono di ripulirgli la bocca e le narici dalla polvere, così da farlo respirare meglio, lui però non riprese mai conoscenza per tutto il tragitto e fino al ricovero in ospedale. Hanibal aveva subito delle escoriazioni e contusioni in varie parti del corpo, oltre che un forte trauma cranico: il sangue che lo ricopriva era quello dei suoi parenti, che morendo sopra di lui, lo avevano schiacciato fin quasi a soffocarlo, ma avevano anche protetto il suo corpo dalle schegge e dai calcinacci. Il trauma più grave del pastorello orfano, era nella sua mente: da quando aveva riaperto gli occhi, il bambino che era appena tornato dai campi e aveva visto crollare la propria casa e morire tutta la sua famiglia, non aveva più aperto bocca per parlare, e mangiava solo se imboccato. Mentre i suoi due fratelli lottavano per non spegnersi nel reparto di rianimazione dell’ospedale militare, Hanibal osservava la stanzetta dove era ricoverato, cercando di capire dove si trovasse, e quale potesse essere mai il segreto di quelle luci e degli apparecchi ronzanti che mai aveva visto e nemmeno immaginato nel corso della sua breve vita. Lui però non dava mai alcun segno di provare gratitudine verso chi si prendeva cura di lui, e nemmeno faceva capire se comprendesse minimamente quello che gli stava intorno. Il suo nome non lo conosceva nessuno. Lì nell’ospedale dei kharijian, i diavoli stranieri non conoscevano né il parsi, né tantomeno il dialetto parlato nell’alta valle del Murghab.
Da parte sua Hannibal non aveva nessuna intenzione di mettersi a parlare con loro in nessuna lingua, così i medici gli avevano assegnato il fantasioso nome di “Bambino 1”. Poco collaborativo. Hanibal invece portava con orgoglio il nome che aveva suggerito per lui il padre di suo padre. Nella valle della Beqaa’, dove nonno Abdhul aveva lavorato da giovane, si venerava ancora la memoria dell’antico dio dei Fenici: Baal, e Hanibal aveva un significato che risuonava all’incirca come “Grazia del Dio Baal”, nel dimenticato idioma degli antichi navigatori.
Per il pastorello orfano comunque, quel posto avrebbe potuto trovarsi anche sulla luna, invece l’ospedale pediatrico Mofleh sorge semplicemente un po’ fuori mano rispetto alla città di Herat. È una bassa costruzione rettangolare sistemata ai margini di una distesa di pietre grigie, poco lontano da una strada assolutamente deserta. Il tratturo che si allontana dall’ospedale porta verso delle brulle colline secche, che sembrano estendersi giallastre e pelate, verso l’infinito, sotto un cielo di cristallo e senza nuvole.
All’ingresso dell’ospedale, all’interno di un cubicolo che affaccia sul cortile polveroso, stazionano due guardie armate della polizia afghana, che si annoiano a morte osservando, attraverso una svolazzante zanzariera lurida e ormai a brandelli, l’andirivieni di auto, camioncini, moto, asinelli e persone di ogni età, che entrano ed escono dalla struttura a ogni ora del giorno e della notte. Alle cinque di mattina però, la gente era poca, e i militari riposavano ronfando sulle brande stese nella stanzetta a fianco dell’ingresso, adibita a ufficio controllo e corpo di guardia, con tanto di vetri blindati, spalancati in quel momento, per far entrare un filo di vento. Quando il pick up dei talebani si fermò con il motore al minimo e i fari spenti, l’alba stava appena cominciando a colorare di un livido grigio le tenebre profonde della notte dell’Afghanistan occidentale. Namir entrò per primo, il kalashnikov pronto al fuoco, ma vedendo i poliziotti addormentati, fece segno con la mano ai suoi compagni di entrare in silenzio. Yasir e Zemar seguirono il capo lungo corridoi deserti e fiocamente illuminati, alla ricerca dei loro bambini, che sapevano essere stati portati in quel luogo. Quando un medico afghano in camice bianco uscì improvvisamente da una porta laterale, i tre gli furono addosso, e puntandogli contro le armi gli parlarono brevemente a poca distanza dall’orecchio. Il giovane dottore ascoltò, annuì brevemente, e si diresse verso una vetrata, facendo segno ai tre guerriglieri di osservare. Stesi su due lettini, separati da una tenda verde, c’erano due bambini coperti da lenzuola candide, i piccoli corpi attraversati da tubicini e fili elettrici collegati a monitor, il volto coperto da maschere ad ossigeno. Namir parlò ancora al medico, il quale senza voltarsi a guardare in faccia colui che aveva intuito essere un pericoloso assassino, si diresse rapidamente verso una porta vicina, che aprì spostandosi di lato per far entrare i tre talebani.
Quando Hanibal vide il padre e lo zio, si rianimò, saltando agilmente dal lettino per correre ad abbracciare Yasir. Anche Zemar strinse forte il corpicino del nipote e poi se lo caricò sulla schiena, facendosi accomodare le gambe sugli avambracci: era forte Zemar, ma anche una donna avrebbe potuto trasportare senza fatica quel mucchietto di ossa. Il medico era sparito, e i tre più il piccolo fuggitivo si diressero di corsa verso l’uscita, i fucili d’assalto puntati minacciosamente davanti a loro, Namir davanti a tutti e Yasir a fare da retroguardia. I poliziotti, allertati dal medico, stavolta erano svegli, pronti, e protetti dal vetro blindato della guardiola. Intimarono l’alt, puntando le loro armi attraverso le apposite feritoie, ma mentre il fuoristrada si animava rombando ed accendendo le luci, i rapitori aprirono improvvisamente il fuoco verso il posto di guardia, accelerando il passo e attraversarono di corsa il piccolo atrio dell’ospedale in una nuvola di cordite e di spari assordanti.
Con quattro balzi, Zemar raggiunse il cassone e scaricò il nipote senza troppi complimenti, mentre Namir si infilava accanto al posto di guida del furgone che stava ripartendo a tutta velocità. Zemar si catapultò a sua volta saltando sulla sponda abbassata, protetto dal tiro di suo fratello, il quale si era attardato ad affrontare le guardie che sparavano verso di loro. Mentre anche Yasir poggiava le mani sul veicolo ormai in movimento, venne raggiunto alla schiena da una raffica di proiettili corazzati, che lo colpirono con una forza tale da farlo ribalzare dalla fiancata del fuoristrada fin sul marciapiede, dove rimase esanime, crivellato da almeno una diecina di colpi. Il pick up si allontanò a tutta velocità, sgommando e sbandando nella luce incerta dell’alba, spargendo tutt’intorno nuvole di polvere, pietre e con il suo carico di terrore, lasciando l’infelice Yasir ormai senza vita, a colorare di rosso con il suo sangue, il cemento del parcheggio dell’ospedale dei bambini.
Lo scrittore Lucio Sandon è nato a Padova nel 1956. Trasferitosi a Napoli da bambino, si è laureato in Medicina Veterinaria alla Federico II. Appassionato di botanica, dipinge, produce olio d’oliva e vino, per uso famigliare.
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