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Il Racconto, Cuore di figlio

di Lucio Sandon

LoSpeakersCorner segnala con soddisfazione che il racconto  di Lucio Sandon Cuore di figlio, tratto dal romanzo inedito Cuore di Ragno, in prossima uscita, è stato già premiato, ottenendo il riconoscimento della Giuria intitolato a Marcello Ilardi al Premio Nazionale di Narrativa Velletri Libris 2019, mentre il romanzo Cuore di Ragno è risultato vincitore ex-aequo del Premio Nazionale Letterario Città di Grosseto Cuori sui generis 2019.

Motivazione espressa dalla Giuria del Premio Nazionale di Narrativa Velletri Libris per Cuore di Figlio: «Si premia il racconto per l’intensità narrativa, l’analisi psicologica dei personaggi, l’incastro delle vicende con il flashback sapientemente accennato e la forte intensità di alcuni passi del testo. Notevole l’accostamento tra le descrizioni dei dettagli – anche quelli paesaggistici – e il pathos emotivo che scaturisce dal personaggio protagonista.»

Motivazione espressa dalla Giuria del Premio Nazionale Letterario Città di Grosseto Cuori sui generis per Cuore di Ragno: «Un viaggio è sempre un viaggio dentro se stessi. Il cuore della foresta impenetrabile che affascina e spaventa sono le paure e i desideri che pulsano in noi. E quanto sangue scorre nelle vene dei personaggi di questo romanzo narrato in una scrittura che è specchio e forma dei luoghi e degli eventi. Sangue nero di ingiustizia e avidità, sangue rosso di riscatto e vendetta, separati da linee d’ombra che il protagonista, perché le crepe del suo cuore, “Come le zampe di un enorme ragno”che osserva alla fine sul proprio petto, siano il giusto,inevitabile prezzo per la salvezza.»

Cuore di figlio

di Lucio Sandon

La grotta dei Crapari è assolutamente invisibile sia dal mare che da qualunque punto la si guardi dalla terraferma, tranne che non si conosca con precisione la sua posizione. Si tratta tutto sommato di un piccolo anfratto che si apre verso le viscere della montagna, perfettamente nascosto anche all’occhio più allenato, da una fitta boscaglia di ginestre e rosmarino che la protegge anche dai venti.

I pastori vaganti se ne sono appropriati nel corso dei secoli, ricavandone un ricovero per gli animali, poi in caso di necessità, un sicuro riparo anche per loro stessi. Certo, l’aroma all’interno della grotta non è né di fior di ginestra e né di lavanda o rosmarino, ma in caso di maltempo ci si può riparare dalla pioggia e dal freddo, e si può perfino dormire nei suoi meandri.

Per evitare di fare una brutta fine, bisogna però far bene attenzione alle voragini che si aprono nel fondo delle cavità, ma sapendo dove mettere i piedi e con un minimo di attenzione, è possibile accendervi il fuoco e arrostire qualche pannocchia di granturco rubata nei campi o, se la caccia è andata bene, anche una bella lepre.

Gennarino, il figlio di Ciccio il pastore, mi vide da lontano e richiamò la mia attenzione con quello che secondo lui era il sibilo del falco e a me sembrava invece il lamento del fagiano innamorato. Gennarino è un po’ più grande di me, ed è un ragazzo fortunato, perché non è mai dovuto andare  a scuola, beato lui. Oltretutto è un buon amico, anche se millanta continuamente di essere un maestro nell’imitare i versi degli uccelli, cosa questa assolutamente falsa. Gennarino è uno di quei tipi di poche parole, ma con un gran cuore, e poi è capace di radunare un gregge di capre sparse per la montagna solo con due o tre fischi ben modulati: le sue capre sembrano capirlo al volo, e corrono immediatamente verso il loro pastorello senza bisogno dell’aiuto dei cani.

Il mio amico è cresciuto senza madre: zia Rorò e zì Nennella, le sorelle della mia povera mamma, mi hanno spiegato varie volte e con voce lamentosa, la sua triste vicenda. Annarella, la moglie di Ciccio un giorno era sparita improvvisamente senza lasciare tracce o messaggi di nessun tipo. Un mistero che dura tutt’oggi. Sembra che la mamma di Gennarino fosse una donna molto tranquilla e senza grilli per la testa, e nessuno riesce a spiegarsi il motivo di una fuga così repentina. E poi con un bimbo di due anni, Ciccio il craparo si era trovato in grosse difficoltà. Meno male che c’erano state loro, le zie, che lo avevano aiutato: Gennarino venne praticamente cresciuto a casa nostra, fin quando divenne abbastanza grande da essere in grado di accudire il gregge. Cioè, per decisione del padre, all’età di sette anni.

Il mio amico quel mattino mi accolse con un sorriso e un abbraccio che mi tolse il fiato per la puzza di capra, poi subito mi chiese se avevo fame, ma prima ancora che gli rispondessi, lui si era già voltato verso un incavo ricavato nella roccia.

«E che te lo chiedo a fare… Quando mai tu non hai fame?»

Mi conosceva bene, però sbuffai lo stesso, spazientito.

Sogghignando tra sé, Gennarino aveva velocemente tirato fuori dalla rudimentale dispensa un’enorme ruota di pane nero fatto in casa, e una caciotta che grondava ancora siero.

Con pochi abili movimenti, tagliò con il coltello a serramanico una lunga fetta di pane e un pezzo spropositato di formaggio e li posò su un piatto sbreccato che non veniva lavato perlomeno da una settimana. Gli sorrisi mentre addentavo il pane, ma in cuor mio ero un po’ preoccupato. La sua presenza nella grotta, pur con tutta l’amicizia che provavo per lui, quella mattina costituiva un grosso problema. Non avevo previsto di incontrarlo, di solito infatti a quest’ora era in alta montagna a pascolare le sue bestie. Dopo avermi servito e aver fatto altrettanto per sé, Gennarino annuì soddisfatto del suo lavoro e si sedette di fronte a me.

Io intanto mi ero appoggiato con la schiena a coprire il fucile, che avevo appoggiato addossato alla roccia. Quel mattino, uscendo di casa, avevo rubato la preziosa carabina a due canne di mio nonno. Sapevo benissimo che quando mi avessero scoperto, sarebbero stati dolori: nonno Angelo mi aveva proibito di toccare il suo nuovo Holland & Holland, il fucile inglese a ripetizione che lui conservava come una reliquia.

Garibaldo, il mio bracco italiano bianco e rosso, il quale fino a quel momento si era occupato di esplorare minuziosamente tutta la grotta, annusando estasiato i profumi delle capre e alzando ogni tanto la zampa negli angoli più remoti, giusto per conferire il suo tocco personale all’aroma dei locali, comparve silenzioso ai miei piedi. Il mozzicone della coda fremeva velocissimo tra le zampe posteriori, mentre accucciato tra me e Gennarino, guardava entrambi alternativamente, con i suoi languidi occhi marroni implorando un boccone, con espressione di tragica impellenza.

Il mio amico e io ci eravamo accomodati su di un grosso masso caduto appena fuori dalla grotta, a dire scemenze, ridacchiare e a mangiare il pane con il formaggio. Ogni tanto lanciavamo un boccone dei nostri panini a Garibaldo, il quale lo afferrava al volo con uno scatto rapidissimo e lo ingurgitava in un baleno senza masticarlo, predisponendosi subito per il prossimo lancio.

Il pasto era accompagnato da una brocca di fresca acqua di sorgente, che bevevamo alternativamente dallo stesso contenitore, l’unico presente nella grotta. Anche la brocca era poco igienica, ma noi ce n’eravamo sempre fregati della pulizia.

Saranno state le undici, undici e mezzo, prima di mezzogiorno.

Lo spettacolo di fronte ai nostri occhi era talmente bello da mozzare il fiato: la baia di Jeranto è quasi un fiordo che intraversa il promontorio di Minerva, dopo il capo della Campanella, sulla estrema punta della penisola sorrentina. L’insenatura è protetta contro i venti del nord da montagne non molto alte e coperte di boschi, mentre le brezze che soffiano da ovest vengono mitigate dall’isola di Capri, che sta proprio lì di fronte. Lo scirocco si infrange sulle sue coste meridionali e sotto la torre, cosicché l’unico vento che dà fastidio veramente è proprio il libeccio, quello che soffiava forte proprio quel mattino di marzo.

Il sole era giunto ormai al suo zenit.

Doveva essere quasi mezzogiorno quando sospinto dai belati delle sue capre, sopraggiunse dalla vallata dove si era trattenuto fino a quel momento, arrancando e sbuffando rumorosamente, Ciccio il padre di Gennarino. Il corpo di quell’uomo aveva una forma che mi ricordava quella di due balle di paglia poste una sopra l’altra: alto, grosso, goffo, senza collo e un po’ curvo sulle spalle. Una barba ispida e spruzzata di grigio gli nascondeva le grosse labbra tumide, perennemente atteggiate ad una smorfia che poteva essere di noia o di lieve disgusto.

Non appena si affacciò alla grotta, Ciccio mi inquadrò per un solo attimo di sottecchi con i suoi occhi sfuggenti, e in quell’istante ebbe il tempo di farmi l’occhiolino.

Beh, forse fu solo una mia impressione, ma in quel momento un brivido mi percorse schiena, e la fame mi passò di colpo, lasciandomi nello stomaco una sensazione di vuoto doloroso. Garibaldo invece si alzò rigido sulle sue quattro zampe, ringhiando sommessamente alla vista del capraio, ma io gli diedi un buffetto per farlo stare tranquillo: Ciccio non era simpatico nemmeno a me, ma non era il caso che si offendesse.

No, non proprio stamattina.

Continuai a parlare con Gennarino, fingendo un’allegria che non provavo, continuando a prenderlo amichevolmente in giro per la sua insistenza a chiedere sempre e continuamente notizie di mia cugina Marianna. Che cosa ci trovasse in quella ragazzina bionda slavata, magra e antipatica, mi risultava in verità alquanto difficile da comprendere.

Capivo invece benissimo quali fossero le intenzioni di Ciccio.

Prima si tolse il pesante giubbetto di pelo di pecora e lo appese ad uno spuntone di roccia, poi ordinò con voce rauca al mio amico di andare immediatamente a recuperare le pecore che pascolavano su verso i campi di Santa Croce. Quando Gennarino tentò di protestare con voce lamentosa che era troppo presto per andare a prendere le pecore, e che voleva finire di mangiare, Ciccio afferrò con rabbia il suo nodoso bastone e mimò un finto attacco verso il figlio.

Gennarino valutò il monito per un momento, poi abbassò la testa e si avviò mestamente verso la montagna, non senza borbottare proteste e oscure minacce proferite a bassa voce.

Sparì facendo gesti osceni e linguacce verso le spalle genitore, il quale intanto si era di nuovo diretto verso l’interno della grotta. Io invece ero rimasto seduto sul mio masso, sospirando di sollievo e comunque con il cuore pieno di angoscia, a guardare le ginestre soccombere alla furia del vento, mentre la schiena del pastorello si allontanava verso la montagna.

Quando mi ero svegliato, quel mattino, la decisione presa mi era sembrata granitica e il mio piano semplice e lineare, ma ora il terrore mi gelava le ossa e il dubbio mi pesava sul cuore, mentre sentivo come una stretta potente che mi afferrava le budella.

Ciccio, dopo aver controllato che il figlio fosse scomparso dalla vista, stava tornando verso di me con un sorriso lascivo che gli deformava il brutto volto. Quando fu giunto a meno di un passo dalle mie scarpe si bloccò per un attimo, come colto da un dubbio, poi si abbassò dolcemente e mi poggiò una mano dietro al collo cercando di attirarmi a sé. La lurida camicia aperta sul collo in quel movimento si aprì un poco, lasciandomi la possibilità di vedere di nuovo il ciondolo che nascondeva sotto i vestiti.

Appeso a un laccetto di cuoio e nascosto in un vello di pelo nero, avevo rivisto per un attimo il riflesso verde dell’antico gioiello. La forma era quella di un piccolo triangolo più alto che largo, sormontato da una barretta orizzontale e sopra a tutto da un cerchietto: il portafortuna che mia madre portava sempre al collo, da cui non si separava mai e del quale mai mi aveva voluto parlare.

Era senza ombra di dubbio il monile di mia madre.

Quello che mancava dal suo corpo quando lei era stata trovata in fondo a una forra, su verso Santa Croce, una mattina della scorsa estate. Il suo povero corpo, straziato da una bestia infame, era stato ritrovato dalla più grande delle sorelle di mio padre, zia Rorò, dopo una battuta di ricerche durata tutta la notte. Molte, ma molte ore più tardi sopraggiunsero anche due gendarmi venuti da Massalubrense: si limitarono a fare qualche domanda, a curiosare un po’ in giro e a chiedere notizie su mio padre. Certo, se avessero preso lui, una promozione ci sarebbe scappata di sicuro.

Di mia madre morta però, sembrava che non interessasse loro assolutamente nulla. Le indagini frettolose e superficiali, vennero chiuse nel giro di qualche ora, senza troppi problemi: nessuno aveva visto niente, e d’altra parte nessuno immaginava chi avesse potuto compiere un delitto così feroce. Nessun dubbio sfiorò la mente dei gendarmi nemmeno riguardo ad una circostanza assai strana: il ciondolo antico che portava sempre sul petto era scomparso. Non era un oggetto di valore, e certo la sua morte non poteva essere il risultata di una rapina finita male.

Mia madre era una donna bellissima: alta e snella, pelle chiarissima e lunghi capelli neri. Si chiamava Sofia e tutti le volevano bene, ma io le volevo più bene di tutti. Io ci penso sempre a mia madre, notte e giorno.

Ci penso, specialmente da quando ho visto il suo ciondolo verde appeso al collo di Ciccio il craparo. Fino a oggi però non ero nemmeno del tutto sicuro di averlo visto bene, anche perché la volta precedente era stata solo una visione durata un solo istante.

Quel giorno ero seduto sulla spiaggia, a guardare il volo dei gabbiani. Nel punto più profondo della baia, dove le rocce si tuffano nel mare, c’è una piccolissima striscia di sabbia grigia, e lì stavo cercando di scaldarmi un pochino al pallido sole di febbraio, quando una mano mi si poggiò sulla testa facendomi trasalire.

Ciccio il craparo si era avvicinato silenziosamente camminando sulla sabbia, e si era fermato dietro le mie spalle. In qualunque altra situazione lo avrei sentito di sicuro, ma in quel momento avevo la testa fra le nuvole perché stavo pensando a mia madre. Ci stava pensando forse anche lui, perché la sua mano si soffermò qualche momento di troppo sul mio collo per essere una carezza solo affettuosa.

«Angiolè, sei proprio tale e quale a mamma tua, le assomigli. E hai dei capelli da femmina!»

La sua voce mi dava fastidio, e anche il suo contatto mi urtava.

I miei capelli poi andavano bene così, non erano questione che lo riguardasse. Non volevo che nominasse la mia mamma, e poi che ne sapeva lui dei suoi capelli?

Nei capelli di mia mamma io mi ci perdevo, erano una nuvola dolce. Profumavano di lavanda.

Quell’uomo, tra l’altro, mi aveva anche spaventato, così mi girai all’improvviso saltando di lato, facendogli perdere l’equilibrio: nel cadere gli si spostò la lurida camicia che portava sotto al giaccone, e per un attimo ebbi la visione dello strano gioiello di mia madre.

Lui non si accorse del mio sguardo: se lo avesse notato, di certo ora non se ne sarebbe rimasto tranquillo vicino a me. Scappai via lontano da lui, quel giorno, ma nel fondo oscuro della mia mente, pian piano si era tutto collegato.

Perfettamente.

Solo ora però avevo avuto la conferma. Si è vero, ero già pronto da parecchio, ma qui adesso, nella grotta dei Crapari riparata dal vento, la prova di quello che Ciccio aveva fatto, era perfettamente evidente davanti ai miei occhi.

Con una mano abbassata, torcevo forte un orecchio di Garibaldo, per convincerlo a stare buono e a non ringhiare.

Questa volta non mi tirai indietro, anzi con l’altra mano presi la zampa callosa del capraio e gliela strinsi forte, per sentirne il tocco caldo e ruvido sul mio collo.

Deglutii forte, per cercare di non vomitare.

«Ciccio, perché non ci beviamo un po’ di quel tuo vino dolce che tieni in fresco… Ti va?»

Lui mi guardò di nuovo, uno sguardo ironico, d’intesa e quasi piacevolmente sorpreso, e mi sorrise poi con espressione lasciva, liberandosi dalla mia presa con una rasposa carezza che mi fece rabbrividire.

«Massì, dai! Divertiamoci un poco, che la vita è breve!»

Si voltò verso il fondo della grotta. Una delle voragini che si aprivano nel suo pavimento serviva da frigorifero ai pecorai: il budello era attraversato per dodici mesi all’anno da un refolo gelido, forse per via di una piccola vena d’acqua che vi scorreva nel fondo scendendo dalle montagne, e andava a perdersi in mare. I pastori ci calavano giù dei cesti con il vino e i cibi da tenere in fresco e al riparo dalle scorribande di volpi e cani. La buca profondissima, del diametro di circa un metro e mezzo, era stata messa in sicurezza anni prima: una grossa asse di legno traballante, evitava che pecore e cristiani precipitassero nel vuoto per non so quanti metri.

Ciccio aveva spostato la rudimentale botola, e si accingeva a tirare su il cesto con le bottiglie di vino, quando si bloccò, colpito dal suono gelido della mia voce.

«Parole sante Ciccio… Solo non immagini quanto breve!»

claclack…

Il suono dolce prodotto dai due cani perfettamente lubrificati dell’Holland & Holland risuonò tragico, nel silenzio della grotta.

Ciccio si voltò di scatto, stringendo ancora la corda con entrambe le mani. Aveva intuito qualcosa nel tono delle mie parole, e girandosi vide le bocche nere delle due canne puntate verso la sua testa, ma ormai era distante dieci passi, e anche con il suo cervello da macaco poteva capire che con quel cannone puntato contro di lui, a quella distanza non avrebbe avuto scampo.

Garibaldo, libero di muoversi ora latrava forte contro di lui, le candide zanne sguainate e pronto a lanciarsi.

Il craparo, dopo un attimo, cadde in ginocchio, implorando pietà.

«No, no, no. Non sparare.» Implorava, stendendo la mano.

«Ti prego Angioletto, no! Ti scongiuro…»

Ansimava, le parole gli si smorzavano sulle labbra, gli occhi sbarrati per il terrore.

«Non sono stato io a uccidere tua madre!»

Ecco quella era la conferma che mi mancava, esattamente le parole che mi aspettavo di sentirgli dire. Quello che volevo. Quello che non avrebbe mai dovuto dire.

La sua condanna a morte.

Non era la prima volta che puntavo le canne di un fucile contro un essere vivente: le lepri delle colline e i fagiani di passo erano bersagli abituali durante le mie solitarie battute di caccia nei boschi del promontorio. Una sola volta non avevo sparato: una mattina della scorsa primavera mi si era presentata di fronte, uscendo da un cespuglio, una grossa volpe fulva, con in bocca il suo piccolo.

Ci eravamo fissati per un momento negli occhi: mi aveva colpito la fierezza, che superava anche la paura, nello sguardo dell’animale.

Con un sorriso, quel giorno avevo abbassato l’arma già puntata, e l’avevo lasciata proseguire per la sua strada. La volpe si era infilata tra i cespugli di mirto, ma prima di sparire si era voltata per un attimo, come per ringraziarmi.

Come se avesse capito.

Ora il bersaglio tremante davanti alle bocche da fuoco del lucido fucile, era invece un essere umano. No, non proprio umano.

Un mostro, una belva, che aveva straziato e ucciso la mia mamma. Con tutto lo sdegno di cui ero colma la mia anima, tirai verso di me i grilletti. Con delicatezza, assaporandone la fluidità del meccanismo.

Trattenevo il respiro, ascoltando i lamenti di Ciccio il craparo, che scendevano nel mio cuore come un balsamo dolcissimo. Per una frazione di secondo sperai che il fucile facesse cilecca, che le cartucce non esplodessero, inviando il loro messaggio di morte.

A lungo, per settimane intere, nel buio della mia stanza avevo pianificato attimo per attimo quella eventualità. Se il fucile non avesse sparato, con un salto sarei saltato addosso a quel verme, l’inutile arma abbrancata per le canne, e gli avrei spaccato la bocca e i denti con il prezioso calcio istoriato.

Dopo, gli avrei strappato gli occhi con le mie mani nude.

La carabina inglese di mio nonno, invece, era un’arma perfetta: i due colpi rimbombarono precisi e in brevissima sequenza nella grotta, rompendomi i timpani e riempiendo i miei polmoni di fumo acre e bollente, mentre la spalla destra rinculò sotto il colpo fino a farmi cadere con la schiena a terra, in una nuvola di polvere da sparo.

Buttai fuori l’aria che avevo dimenticato di espirare, ma prima di provare a rialzarmi riaprii gli occhi piano piano.

Ciccio il craparo ora non sorrideva più.

Il suo viso era sparito completamente: si era dissolto in una nuvola di sangue.

Garibaldo aveva finalmente smesso di latrare.

Il grosso cane rosso e bianco si era avvicinato al corpo esanime, e ora quasi in punta di zampe lo annusava sospettosamente, ringhiando ancora dentro di sé, un ringhio di gola, lungo e sommesso, mentre il sangue di Ciccio si allargava lentamente in una pozza scarlatta sulle pietre della grotta dei Crapari.

 

Lo scrittore Lucio Sandon è nato a Padova nel 1956. Trasferitosi a Napoli da bambino, si è laureato in Medicina Veterinaria alla Federico II, aprendo poi una sua clinica per piccoli animali alle falde del Vesuvio. Appassionato di botanica, dipinge,  produce olio d’oliva e vino, per uso famigliare. Il suo ultimo romanzo è “La Macchina Anatomica”, un thriller ambientato a Portici. Ha già pubblicato il romanzo “Il Trentottesimo Elefante”; due raccolte di racconti con protagonisti cani e gatti: “Animal Garden” e “Vesuvio Felix”, e una raccolta di racconti comici: “Il Libro del Bestiario”. Il racconto “Cuore di figlio”, tratto dal romanzo “Cuore di ragno”, in prossima uscita, ha ottenuto il riconoscimento della Giuria intitolato a “Marcello Ilardi” al Premio Nazionale di Narrativa Velletri Libris 2019. Il romanzo “Cuore di ragno” è risultato vincitore ex-aequo al Premio Nazionale Letterario Città di Grosseto Cuori sui generis” 2019.

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