Cultura

Il Film, Il padre d’Italia

di Renato Aiello

Luca Marinelli e Isabella Ragonese si confermano tra i migliori attori italiani della loro generazione. Cresciuti e passati entrambi per il cinema di Paolo Virzì e dopo aver raccolto premi e riconoscimenti importanti, come il David di Donatello a Marinelli per E lo chiamavano Jeeg Robot.

Nel film di Fabio Mollo Il padre d’Italia, piccola rivelazione all’ultimo Social World Film Festival di Vico Equense, questi ragazzi regalano due performance intense e delicate, tra le più belle viste quest’anno sul grande schermo. Merito di una sceneggiatura ben scritta e di una regia precisa e misurata, che sembrano entrambe aver preso alla lettera il monito di Francis Scott Fitzgerald: «Tutta la buona scrittura è nuotare sott’acqua e trattenere il fiato». A trattenerlo è soprattutto il personaggio di Marinelli, che gioca di sottrazione, sottile come una filigrana come il miglior Mastroianni di una volta, nel mostrare e dimostrare i suoi sentimenti.

L’attore interpreta Paolo, 30enne omosessuale che conduce una vita solitaria a Torino, tra il magazzino in cui lavora e le serate nei locali gay. Nasconde un dolore, una sofferenza intima, frutto di delusioni amorose, ma una notte irrompe Mia, cantante squattrinata e vagabonda che gli travolge completamente abitudini e programmi.

Nomade e incinta, la ragazza lo porta ad attraversare mezza Italia, passando per Roma, Napoli fino ad arrivare in Calabria, alla ricerca di amici, band disperate in cui cantare e case in fitto ormai occupate.

Nella punta dello Stivale, tra i familiari ormai arresi al temperamento e ai colpi di testa della donna, si consumerà il terzo atto del film, vero punto di partita esistenziale. I due si incontrano, si scontrano, si sopportano e finiscono quasi per amarsi nell’arco narrativo del film, nonostante l’omosessualità di Paolo, forse cementati da Italia, quella bambina del titolo che Paolo già inconsciamente aveva deciso di adottare. In un’Italia che però a due persone dello stesso sesso oggi nega ancora l’adozione di bambini o la stepchild adoption, arenatasi alle Camere dopo il quasi “miracolo” delle unioni civili all’italiana.

Un titolo forse un po’ politico per il regista calabrese, che a 18 anni scelse di studiare a Londra alla Visual Theory per poi dirigere il suo primo film nel 2013, Il Sud è niente.

Ciò che conta Il padre d’Italia è comunque lo scavo psicologico, il percorso intimistico di due vite alla deriva che si attraggono magneticamente, pur non riuscendo a stare davvero insieme. Paolo è il più responsabile, pronto a cambiare tutto, città, lavoro e orientamento, mentre Mia è una scheggia impazzita che porta in grembo un futuro nuovo con cui non vuole confrontarsi.

Per 93 minuti lo spettatore è rapito dall’alchimia a tratti perfetta dei due, tra immagini di grande bellezza fotografica (su tutte quel pancione intravisto nella trasparenza della tenda sul balcone che affaccia sulla guglia di piazza Del Gesù, scena nella tappa napoletana del viaggio), e sequenze come quella del bagno a mare che danno al film il sapore di un romanzo di formazione.

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